Entriamo subito nel merito del nuovo film di Michele Placido “Vallanzasca. Gli angeli del male”. È un film ben fatto e professionalmente eccellente. Le due ore più che abbondanti volano. Si prova addirittura un senso di fastidio quando si accendono le luci in sala per l’intervallo, al fine di far vendere patatine e gelati. Del resto il “poliziesco all’italiana” è un genere, come dimostra il successo arriso a “Romanzo criminale” (il libro, la trasposizione per il grande schermo dello stesso Placido del 2005 e l’allungamento seriale per la televisione), che dovrebbe essere molto più frequentato dalla nostra cinematografia. Svanita la chimera del cinema d’autore, commedie a gangster all’italiana restano senza ombra di dubbio un marchio di fabbrica rassicurante per gli spettatori.
Detto questo, una seconda osservazione è però necessaria. Al regista la mano corre un po’ troppo libera. Il ritratto del “bel René della Comasina” (interpretato con misura, talento e furbizia da Kim Rossi Stuart) è sin troppo indulgente. Renato Vallanzasca negli anni Settanta divenne una celebrità del crimine organizzato. Rapine a mano armata spettacolari, fughe dal carcere, sequestri. E poi bei vestiti, macchine lussuose, vita notturna, donne e champagne a volontà. Ma anche interviste rilasciate alla stampa. Un bandito mediatico, capace di intervenire sui media e far capire al mondo che poi, tutto sommato, lui che imbraccia il mitra e spara, lasciando non di rado cadaveri sulla sua strada, non è poi così diverso dal mondo.
Contraddizioni sociali e storture morali sono così evidenti, sotto gli occhi di tutti. Lui rapina le banche, ma i banchieri sono rapinatori anche loro. Lui sequestra i ricchi, ma nella reclusione gli garantisce gli eccessi ai quali sono abituati, tra cocaina e prostitute. La banda della Magliana aveva tutt’altro stile rispetto al “bel René”. Ficcarono un sequestrato morto nel congelatore, e lo tiravano fuori ogni tanto, per fotografarlo con un giornale in mano, facendo credere che fosse ancora vivo e così costringere i famigliari a pagare il riscatto. La banda di Vallanzasca non faceva queste cose. Né Vallanzasca aveva in mente di conquistare Milano, come Francis Turatello. Per questa ragione Turatello morì accoltellato in carcere, mentre Renato Vallanzasca è ancora vivo, quasi libero, e rilascia interviste e dichiarazioni come un terrorista qualsiasi. Anzi, si lamenta, perché ai terroristi viene dato più spazio mediatico e addirittura (a suo dire) più libertà. Il vero rischio di essere ucciso Vallanzasca lo corre, nel film, per mano della polizia. Ha ammazzato un giovane agente e teme che se lo beccano in un conflitto ravvicinato, i poliziotti intendano pareggiare i conti. Così ride e si rilassa quando viene arrestato a Roma dai carabinieri. Barricato armi in pungo si fa passare il tesserino di riconoscimento di un colonnello dell’Arma, e solo dopo si consegna volentieri.
Come si capisce da questo particolare (o dal colpo di grazia tirato a bruciapelo da un agente ad un componente della banda, ferito e in terra, durante un conflitto a fuoco; o al finale liberatorio, quando Vallanzasca si rifiuta di sparare ad un giovane militare, perché è troppo giovane: anche i bandii hanno un cuore) il racconto di Placido è impostato sul punto di vista di Vallanzasca. Bastava un semplice, ma sin troppo efficace accorgimento, per limitare il fascino esercitato dall’eroe negativo: affiancargli un eroe positivo, un tutore della legge, in grado di rappresentare l’altra faccia della medaglia.
Ma, si sa, il cinema italiano ha poca famigliarità con i tutori dell’ordine. Lo stereotipo negativo del commissario (modellato su quello del commissario Massimiliano Calabresi) di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” (1970) di Elio Petri, ha fatto scuola. Meglio i banditi. Del resto alla tradizione del cinema impegnato di sinistra si richiama Michele Placido. La polizia non è mai stata molto amata dal cinema italiano. A differenza, ad esempio, del cinema americano. Chi è il nostro Serpico? Er Monnezza. Tomas Milian, il comico commissario che tutto sembra fuorché un poliziotto. Il limite di “Vallanzasca. Gli angeli del male” è, come nelle opere di Michele Placido, una eccessiva semplificazione della realtà. Anche lo scorso anno con “Il grande sogno”, una ricostruzione del Sessantotto già passata nel dimenticatoio, si poteva dire la stessa cosa. Michele Placido alla polizia preferiva gli studenti. Ma, è giusto, ricordarlo, il nuovo film è un bel poliziesco e all’italiana. Sul lato oscuro degli uomini (salvo quello criminale, ricostruito con cura) non ha nulla da aggiungere.
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