di Vittorio Feltri
L’antiquariato della Repubblica italiana perde un altro pezzo e va estinguendosi: è morto Oscar Luigi Scalfaro, il presidente del ribaltone. Fu lui, infatti, con la collaborazione malandrina di Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione, a convincere Umberto Bossi ad abbandonare la maggioranza di centrodestra, provocando così la caduta del primo governo Berlusconi.
Oscar Luigi Scalfaro
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Il Quirinale, non contento di aver sottratto la Lega alla coalizione che appoggiava l’esecutivo, si adoperò, con i citati complici ( D’Alema e Buttiglione), a far traslocare i padani nel centrosinistra allo scopo di dar vita a un nuovo governo presieduto da Lamberto Dini, anche questi proveniente dalle file berlusconiane. Un capolavoro di scorrettezza, un tipico imbroglio italiano perché formalmente legittimo anche se, nella sostanza, irrispettoso della sovranità popolare. Paradossalmente chi aveva vinto le elezioni fu cacciato all’opposizione, e chi le aveva perse fu promosso alla guida del Paese.Ecco.Basterebbe l’episodio narrato a fotografare l’uomo, abile e spregiudicato, pronto a tutto per imporre la propria volontà ispirata dal cielo. Ma la sua storia è talmente piena di aneddoti che non può esaurirsi nel racconto del ribaltone. Anche perché, sotto la sua presidenza ( e regia) se ne registrò un altro, altrettanto clamoroso, alcuni anni appresso. A Palazzo Chigi c’era Romano Prodi, gongolante per aver ottenuto l’ingresso dell’Italia nella moneta unica. Ma la sua felicità durò poco, perché Fausto Bertinotti, a un certo punto, gli votò contro e, euro o non euro, il Professore dovette andarsene a casa. Ancora una volta sarebbe stato opportuno mobilitare le urne, visto che Rifondazione comunista aveva ritirato il suo sostegno alla maggioranza. Ma Scalfaro diede l’incarico di formare un nuovo ministero a D’Alema. Il quale però non aveva i numeri, e se li procurò cooptando Clemente Mastella con un pezzo dell’Udc (allora Ccd) prelevato dal centrodestra. La mossa fu denominata ribaltino. D’Alema stette in sella un annetto. Sloggiò dopo la sconfitta alle regionali. E il capo dello Stato lo sostituì con Giuliano Amato, che concluse la tribolata legislatura nel 2001.
La vicenda di Scalfaro comincia nel 1941 quando si laurea in giurisprudenza all’Università Cattolica di Milano. Due anni più tardi entra in magistratura giurando fedeltà al fascismo. Fedeltà si fa per dire; perché lui ci mette nulla a diventare antifascista e a strizzare l’occhiolino ai partigiani. Vabbé, certi salti della quaglia ai tempi erano all’ordine del giorno.
Finisce la guerra e Scalfaro, cattolico di ferro (ciò che non gli impedisce di gradire la condanna a morte di un imputato), molto stimato da Giuseppe Pella, viene eletto nella Costituente per la Dc. E da quel momento sino a ieri rimane saldamente ancorato al Palazzo. Un record eguagliato soltanto da Giulio Andreotti. Oscar Luigi fa subito parlare di sé. Nel 1950 il suo sguardo è attratto dalla scollatura generosa di una signora seduta al tavolino di un caffè. Lui si scandalizza e non si trattiene dall’esprimere alla donna la propria indignazione. Praticamente, gliene dice quattro, e, secondo una versione del bisticcio mai confermata, le ammolla uno schiaffo. Parte una denuncia che non arriva in fondo per intervenuta, provvidenziale amnistia. Una sciocchezza? Sì, una sciocchezza che tuttavia rivela la personalità di questo politico nato a Novara da madre piemontese e padre napoletano. Un bigotto inossidabile e mai scosso dal dubbio, almeno in apparenza. Tant’è che nel 1974 affianca Amintore Fanfani nella campagna referendaria contro il divorzio, inviso alle gerarchie della Chiesa e di conseguenza anche a lui. Vincono i divorzisti, la sinistra (la mentalità, la pseudocultura di sinistra) avanza e il democristiano di destra, anticomunista e baciapile, si eclissa. Trascorrono anni bui durante i quali Oscar Luigi cerca invano un rilancio. È Bettino Craxi a ricollocarlo nel cono di luce, portandolo inaspettatamente alla gloria del mondo: lo nomina ministro dell’Interno, dove resiste alcuni anni. Sdoganato. Nel 1989 crolla il Muro di Berlino.È l’inizio della crisi per la cosiddetta Prima Repubblica. Emerge la Lega. La Dc e il pentapartito governano male: gestiscono il potere con l’unico intento di conservarlo, la corruzione non è tenuta a freno. In poche parole si intuisce che sta per succedere qualcosa di grave, ma non si capisce cosa. Lo si comprende benissimo nel 1992 quando Antonio Di Pietro dà il via all’inchiesta Mani pulite e attaccano a fioccare avvisi di garanzia. Le elezioni politiche in quell’anno si svolgono in un clima strano. I risultati non sono negativi per la Dc e i suoi alleati, ma neppure esaltanti. Francesco Cossiga, il picconatore, si dimette alcuni mesi in anticipo sulla scadenza naturale del mandato. E bisogna eleggerne un altro. La Dc candida Arnaldo Forlani nella certezza di spuntarla. Nossignori. Silurato. Ripiega su Andreotti. Bocciato pure lui. Panico. Che aumenta a causa della strage di Capaci, dove vengono assassinati Giovanni Falcone e la moglie Francesca con la scorta. Urge spedire al Quirinale un presidente.Chi?L’idea viene a Marco Pannella, laicista storico e ostile a ogni massimalismo. Un’idea geniale nella sua perversione: Scalfaro. Sono talmente avviliti i signori del Parlamentoallo sbando da accoglierla con entusiasmo.
Incredibile ma vero, Oscar Luigi, già presidente (per un paio di settimane) della Camera e del Senato (provvisoriamente), viene votato per disperazione.
Non fa una piega e sale al Colle. Intanto infuria Tangentopoli. Il pentapartito è sgominato dalla Procura di Milano. L’ex Pci non ha più avversari tranne Bossi e Gianfranco Fini, due comprimari. È il motivo per cui Silvio Berlusconi scende in campo e fonda Forza Italia fra le risate generali dei professionisti della politica che lo considerano un fenomeno da baraccone. Errore. Il Cavaliere batte inopinatamente Achille Occhetto. E va a Palazzo Chigi con un esecutivo tutto sommato migliore- se valutato oggi- di quello varato nel 2008. È noto quanto successo dal 1994 al 1995. Scalfaro ha una grana: lo accusano di aver intascato (lecitamente) soldi dai Servizi segreti, una dotazione di denaro di cui in teoria egli non dovrebbe rendere conto (questione di prassi). Però in quel periodo era necessario spiegare la destinazione di ogni lira incamerata. Scalfaro viceversa non spiega l’uso fatto dei fondi ricevuti quando era responsabile del Viminale. Si rifiuta di farlo. E va in tivù, interrompendo una partita di calcio internazionale, per dire agli italiani: «Io non ci sto». Come «non ci sto»? Tutti ci stanno e tu no? Inutile insistere: lui non ci sta, lo ripete con forza e nessuno replica. La magistratura fa un passo indietro e amen. Mah!
Sui ribaltoni ci siamo dilungati e non aggiungiamo altro. Serve invece rammentare una legge di cui si è molto parlato: la «Par condicio», studiata apposta per comprimere la forza mediatica di Berlusconi, e dare a qualsiasi partito (grande, piccolo, non importa) lo stesso spazio televisivo su emittenti pubbliche o private, indifferentemente. La norma vige ancora.
Questa in sintesi l’avventura politica (e umana) di Oscar Luigi Scalfaro, uno straordinario bacchettone di successo involontario, che è stato capace di passare nel corso della sua esistenza, non breve (93 anni), da strenuo difensore della democristianità ortodossa a paladino degli ex comunisti, nume tutelare della putrida decadenza del sistema politico che ha rovinato il Paese.
Sono gli uomini come lui, rappresentanti di un mondo che non c’è più, ad aver causato il fallimento di ogni tentativo di modernizzare il Paese. Infatti ora tutti lodano il defunto presidente emerito. Le dichiarazioni dei leader politici sono imbarazzanti: un coro di elogi alla melassa che invoca la immediata beatificazione di Scalfaro. No. Noi non ci stiamo. Indro Montanelli diceva di lui: lo abbiamo avuto come capo dello Stato per disgrazia ricevuta. Condividiamo il giudizio.