A 67 anni dalla morte di Benito Mussolini e di Claretta Petacci, ci sembra che di questa storia si sappia tutto e nulla allo stesso tempo. Tutto, perché quanto accadde a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como, il 28 aprile 1945, è stato sviscerato in mille modi, con decine di ipotesi diverse sugli accadimenti: ogni segmento di quella storica giornata è stato smontato, analizzato e rimontato, ogni protagonista è passato al vaglio di documentate rievocazioni. Al tempo stesso, non se ne sa nulla, in quanto ci si è accorti che, man mano che i materiali di studio si accumulavano, la verità su quella vicenda appariva destinata a divenire, una volta di più, sfuggente.
Testimonianze - Le testimonianze lacunose e contraddittorie dei protagonisti, le falsificazioni operate dal Partito comunista, che ha coperto i responsabili della morte del Duce deviando l’attenzione dell’opinione pubblica dai veri giustizieri, e perfino le evidenze deludenti dei riscontri autoptici eseguiti sul cadavere di Mussolini, stanno a dimostrare che la verità è ben lungi dall’essere acquisita. La versione ufficiale narra che Mussolini e la Petacci furono abbattuti dai mitra del commando partigiano, venuto da Milano, alle 16,10 del 28 aprile, davanti al cancello di Villa Belmonte. I partecipanti all’esecuzione sarebbero stati tre: il colonnello “Valerio”, alias Walter Audisio, Aldo Lampredi “Guido”, e Michele Moretti. Come si sa, i protagonisti, non soltanto si sono contraddetti tra di loro, ma anche presi singolarmente hanno tramandato diverse versioni dei fatti. È il caso di Audisio, che ha dettato tre o quattro successivi racconti, che evidenziano parecchie incongruenze.
Opera collettiva - Il risultato di tutto ciò è che, con macroscopica evidenza, il Partito comunista, dal cui seno è nata la missione esecutiva di Dongo, ha volutamente confuso le carte, in modo tale da impedire il riconoscimento pieno della verità. In altre parole, il Pci, favorito dall’intelligence britannica nella conduzione dell’operazione speciale mirante a sopprimere il Duce, ha voluto descrivere quell’epilogo cruento, più come opera collettiva di un suo gruppo scelto che non come il risultato di singoli apporti individuali. Chi scrive, pur legato a un vincolo di riservatezza nei confronti di una propria fonte, può qui anticipare di aver potuto stabilire in modo certo che il generale Raffaele Cadorna, comandante supremo del Cvl (Corpo volontari della libertà), l’organo di direzione militare della Resistenza, fu a pieno titolo determinante nell’adottare la deliberazione - fortissimamente voluta dal Pci - di passare per le armi sommariamente Mussolini. Ciò, naturalmente, appare in contraddizione con le stesse dichiarazioni rese da Cadorna nelle sue memorie, in cui afferma di essersi limitato ad aderire alla decisione presa dai comunisti di uccidere il Duce, avallandola. Negli ultimi anni, ha preso consistenza una nuova teoria, quella del suicidio che il capo del fascismo si sarebbe procurato attraverso una capsula di cianuro di potassio occultata in una protesi mobile. Può essere stato quell’evento imponderabile, cioè lo stato comatoso autoindottosi dal Duce, durante le prime ore della mattina del 28 aprile, mentre si trovava nel casolare dei contadini De Maria, ad aver fatto volgere la situazione verso l’epilogo cruento? In altre parole: è possibile che su Mussolini, ancora vivo, in preda a convulsioni, avesse esploso alcuni colpi di grazia uno dei due carcerieri che montavano di guardia a casa De Maria? Facciamo un passo indietro. Alle prime ore del 28 aprile 1945, Mussolini viene scortato da Dongo, verso un nuovo nascondiglio. Luogo scelto per il prigioniero, al quale si è unita Claretta Petacci, è un rustico situato in località Bonzanigo di Mezzegra. I proprietari dell’abitazione colonica, i coniugi Giacomo e Lia De Maria, fanno accomodare i due ospiti in una stanza al secondo piano, con finestra.
Sdraiato a letto - Mussolini si corica sul lato destro del letto matrimoniale, mentre Claretta occupa il lato opposto. Si tratta di un particolare non secondario, in quanto alcuni dei colpi ricogniti sul cadavere del Duce - in particolare, uno al fianco, in posizione difficilmente spiegabile nell’ipotesi di un’esecuzione avvenuta con Mussolini in stazione eretta, con gli esecutori posizionati frontalmente - lo attinsero sul lato destro, con traiettoria dall’alto il basso e da sinistra a destra: come se l’esecutore gli si fosse avvicinato mentre si trovava ancora sdraiato a letto.
La pratica del suicidio, con fiala o capsula letale, fu molto adottata dai capi dei regimi amici. Oltre a Hitler, che si sparò mentre masticava una capsula di cianuro, si uccisero con il veleno Goebbels (con la moglie Magda e i sui figli), Goering e Himmler. Anche Pierre Laval, capo del governo collaborazionista di Vichy, tentò di uccidersi con una fiala venefica, ma gli furono praticate diciassette lavande gastriche allo scopo di condurlo ancora vivo davanti al plotone di esecuzione. Quanto al Duce, sappiamo che tentò il suicidio, nell’estate del 1943, durante la prigionia a Campo Imperatore, sul Gran Sasso. Se anche Mussolini a Mezzegra fece ricorso al veleno, sicuramente il suo carnefice fu il partigiano Giuseppe Frangi, “Lino”, che con Guglielmo Cantoni, “Sandrino”, era di guardia davanti alla stanza da letto dei due prigionieri. “Lino”, nei giorni successivi al 28 aprile, rivendicò con sicumera il suo ruolo di giustiziere e fu a sua volta assassinato il 5 maggio da elementi partigiani comunisti. Frangi potrebbe avere esploso colpi di grazia sul rantolante dittatore. Due testimonianze, sulle quali merita soffermarsi, convergono nell’indicare la concreta attendibilità della pista del suicidio. La prima è di Giuseppe Turconi, 90 anni, che apprese dalla viva voce di Lia De Maria la verità sulla morte del Duce.
Confidenze segrete - Turconi vive tuttora a Villaguardia, il paese del partigiano Frangi, e custodisce da quasi settant’anni le confidenze ricevute: «Una decina di giorni dopo i fatti, mi recai a Mezzegra insieme a mio fratello e a un mio cugino. Era da poco morto anche il “Lino” e la versione dell’accaduto, che alludeva a un incidente, mi lasciò parecchio perplesso. Andammo a casa De Maria a parlare con la signora Lia che ci disse che, quel 28 aprile, aveva preparato qualcosa da mangiare per Mussolini e la Petacci e che il Duce le aveva chiesto di assaggiare la pietanza perché temeva di essere avvelenato. Poi, qualche ora più tardi, quando capì che per lui non c’era più nulla da fare, Mussolini ingerì del veleno inserito nella capsula di un dente. La De Maria disse che era successo tutto nella camera da letto in cui avevano pernottato. Seppi anche che la Petacci era stata uccisa in un secondo tempo, qualche ora dopo, in un prato sottostante la chiesa di Mezzegra, in frazione Bonzanigo». Turconi riferisce dunque che l’esecuzione di Claretta sarebbe avvenuta successivamente a quella di Mussolini e non sembra prestare attenzione a un dettaglio del suo racconto, che introduce un’apparente contraddizione. Perché, se Mussolini aveva intenzione di togliersi la vita, temeva di essere avvelenato dal cibo? O forse giunse alla determinazione di uccidersi solo in un momento successivo? La seconda testimonianza è ancora più significativa, perché proviene da Elena Curti, figlia naturale di Mussolini che fu accanto al padre durante le ore dell’epilogo di Dongo. La donna, oggi novantenne, ricevette in proposito delle notizie dal brigadiere della caserma dei carabinieri di Dongo, dove fu tenuta prigioniera dopo il 28 aprile. Si tratta di Ettore Manzi, classe 1908, protagonista defilato di tante vicende drammatiche che presero corpo a Dongo dopo l’esecuzione dei gerarchi. Fui lui, infatti, a salvare la vita a decine di prigionieri fascisti detenuti nella caserma dell’Arma (tra cui la stessa Curti), ponendo fine alla mattanza condotta dai partigiani rossi sulla scia dell’euforia della vittoria sul fascismo.
La versione di Manzi - Racconta Elena Curti: «La versione del suicidio di Mussolini me la riferì Ettore Manzi, verso la fine degli anni Cinquanta. Io allora abitavo già a Barcellona, ma quasi ogni anno tornavo in Italia e Manzi era una delle persone che andavo a trovare. Mi disse che lui, in quanto comandante della stazione dei carabinieri di Dongo, era responsabile di tutti i prigionieri. Quindi anche di Mussolini. A me confidò che era stato presente. Era andato a casa De Maria, verso le 7, o 7 e mezza, del mattino del 28 aprile e che, quando entrò nella stanza di Mussolini, lo trovò già praticamente morto. Si era suicidato con una capsula di veleno. Io, lì per lì, non diedi peso a quanto mi disse. Stavo cercando di dimenticare quanto era accaduto, mi stavo costruendo una nuova vita, in Spagna, dove nessuno mi conosceva e non ero guardata con quell’attenzione morbosa con la quale ero avvicinata qui in Italia, dove tutti volevano sapere perché e per come fossi la figlia di Mussolini». Manzi è morto il 1° febbraio 2001. Da me interpellato, suo figlio Giancarlo non ha voluto confermare la notizia fornita da Elena Curti: «So che mio padre aveva una sua teoria sulla morte di Mussolini, ma non mi disse nulla in proposito». Il mistero continua.