Il 19 gennaio, la IV e la V divisione indiane attraversarono il confine a nord del Nilo Azzurro; incontrarono scarsa resistenza, anche se a un certo punto vennero caricate da un ufficiale italiano su un cavallo bianco, alla testa di una banda di cavalieri amhara lanciata alla disperata contro le loro mitragliatrici” (John Keegan, La seconda guerra mondiale, Viking Press, 1990).
Le prime esperienze di cavaliere.
Amedeo Guillet, barone, nasce a Piacenza nel 1909 da nobile famiglia di origine piemontese e campana (Capua), di salde tradizioni militari (uno zio, anche lui di nome Amedeo, generale d’armata, fu un eroe della prima guerra mondiale). E’ attualmente il cavaliere vivente più avventuroso e decorato.
Frequentò l’Accademia Militare di Modena, da cui uscì, nel 1931, con i gradi di sottotenente di Cavalleria. Venne assegnato, quale servizio di prima nomina, al Reggimento Cavalleggeri di Monferrato, allora comandato dallo zio Ernesto. Era già allora un eccellente cavaliere e fra i primi in Italia a praticare con rigore il metodo dell’equitazione naturale proposto e teorizzato dal capitano Federico Caprilli.
Nel 1935 prestava servizio presso i Cavalleggeri Guide quando venne prescelto fra i quattro componenti della squadra di equitazione che avrebbe rappresentato l’Italia alle Olimpiadi di Berlino del 1936.
Venne inviato, insieme al resto della rappresentativa italiana al ritiro sportivo pre-olimpionico a Budapest e, oltre ai campi di gara, si fece notare nei salotti della capitale ungherese come tombeur de femmes, suscitando anche qualche “incidente diplomatico”.
Tuttavia non prese parte alle Olimpiadi berlinesi perché, ormai divenuto tenente, chiese di prender parte alla campagna per la conquista dell’Abissinia (1935-1936).
Riteneva, infatti, che il suo primo dovere di militare fosse quello di servire la Patria in armi dove fosse necessario.
L’Africa coloniale e la Spagna.
Ottenne il trasferimento in Libia presso un reparto di Spahis.
E proprio nella cavalleria coloniale la sua figura divenne negli anni leggendaria.
Nell’ottobre del 1935 partecipò, come comandante di plotone, alle prime azioni della guerra di Etiopia.
Il 24 dicembre 1935 veniva gravemente ferito alla mano sinistra durante la battaglia di Selaclaclà.
Al termine della guerra, il 5 maggio del 1936, veniva decorato a Tripoli dal maresciallo d’Italia Italo Balbo per il suo esemplare e coraggioso comportamento in combattimento.
Sempre a Tripoli, nel marzo del 1937, fu nominato organizzatore e responsabile della parte equestre della cerimonia durante la quale Benito Mussolini, Capo del Governo, si proclamò “difensore dell’Islam” con la prospettiva di raccogliere consensi nel mondo islamico contro il dominio inglese.
Il mese successivo, sfilò a Roma, in occasione del primo anniversario dell’Impero, alla testa delle unità Spahis.
In quegli anni era fidanzato con la cugina Beatrice Gandolfo, tuttavia – essendo entrate in vigore rigide disposizioni che prevedevano, per l’accesso a incarichi superiori, l’obbligo di esser sposati per i dipendenti pubblici – non la sposò per non dar adito alle malevole critiche che lo avesse fatto per ottenere la promozione a capitano.
Nell’agosto del 1937 accettò la proposta del generale Luigi Frusci, comandante della Divisione Fiamme Nere (ufficialmente tutti gli italiani combattenti erano “volontari”) di prender parte alla spedizione di sostegno italiana ai nazionalisti nella guerra civile spagnola (1936-1939).
Durante la guerra, dove operò prima al comando di un reparto carri della divisione Fiamme Nere e poi alla testa di un tabor di cavalleria marocchina, si distinse particolarmente nei combattimenti di Santander e Teruel.
Dopo un breve periodo di convalescenza in Italia, venne trasferito in Libia al comando del VII squadrone Savari, piuttosto deluso dalla mancata promozione al grado di capitano promessagli dal generale Frusci al rientro dalla campagna di Spagna.
In questo periodo divenne molto amico della principessa Jolanda di Savoia, la primogenita del re Vittorio Emanuele III, con la quale condivideva la passione (e l’abilità) nel campo dell’equitazione.
In Eritrea, nasce la leggenda del Cummandar es Shaitan.
Nel 1939, straordinario comandante di cavalleria coloniale, venne trasferito in Eritrea, dove il suo stesso nome divenne leggenda vivente.
Venne nominato comandante del Gruppo Bande Amhara, primo esempio di unità militare multinazionale (e multireligiosa), forte di ben 1.700 uomini di origine etiope, eritrea e yemenita, inquadrati da ufficiali italiani.
Il reparto aveva la consistenza di un reggimento e, secondo le disposizioni vigenti in qualsiasi esercito, avrebbe dovuto essere comandata da un colonnello, mentre Amedeo Guillet continuava ad esser solo un tenente, seppure pluridecorato.
Aveva un compito semplice e molto oneroso: doveva operare in tutta la regione nord occidentale dell’Eritrea contro la guerriglia e le infiltrazioni dal Sudan anglo-egiziano con la massima autonomia e libertà d’azione.
Negli anni 1937-1938 la guerriglia fedele al deposto imperatore d’Etiopia Hailè Selassiè continuava, infatti, ad essere piuttosto viva, soprattutto dopo l’attentato avvenuto ad Addis Abeba il 19 febbraio 1937 contro il maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, allora viceré d’Etiopia, e la conseguente sanguinosa repressione.
Nel 1939, durante un sanguinoso combattimento contro guerriglieri ribelli nella zona di Dougur Dubà, con un’intelligente manovra, il reparto del tenente Guillet costrinse il nemico ad uno scontro in campo aperto.
Durante una delle cariche, il suo cavallo venne colpito ed ucciso.
Immediatamente, Guillet ordinò al suo attendente di dargliene un altro.
Anche il secondo cavallo venne ucciso ma non si perse d’animo.
Appiedato, impugnò una mitragliatrice e fece fuoco contro i ribelli rimasti in campo, costringendoli alla resa.
Per questa azione, compiuta con “alto esempio di eroismo e sprezzo del pericolo”, gli venne conferita la medaglia d’argento al valor militare.
I suoi soldati indigeni, invece, lo soprannominarono Cummandar es Shaitan (”Comandante Diavolo”) convinti che godesse di una sorta di immortalità.
Ben presto le gesta belliche di Guillet divennero oggetto di discussione negli esclusivi circoli di occidentali ad Asmara e ad Adua, mentre la fama del Comandante Diavolo si diffondeva rapidamente in tutta l’Africa Orientale.
In particolare, si fantasticava sullo stile di comando “democratico” (per l’epoca) del giovane Tenente, che trattava i soldati indigeni con dignità e rispetto, dando loro massima responsabilità e la possibilità di mantenere e curare i rispettivi usi e costumi.
Molti colleghi di Guillet, invidiosi dei suoi risultati sul campo, di gran lunga migliori di quelli ottenuti da reparti regolari di italiani, “malignarono” non poco sul tipo di azione di comando adottata.
Bisogna, invece, ammettere che l’illuminato stile di comando di Guillet diede i suoi frutti: nella sua unità non si verificò mai un caso di diserzione, né di contrasto tra i soldati indigeni (pur appartenendo essi ad etnie e fedi religiose differenti).
Permise, ad esempio, ai suoi uomini di portare sempre al seguito i nuclei familiari (come da tradizione locale) ed egli stesso ebbe una concubina eritrea, Kadija (o Khadija), figlia di un importante capo tribù, che lo seguì durante tutto il suo periodo di servizio in Eritrea (in barba alle disposizioni del Governatore italiano volte ad impedire, pena l’incarcerazione, la nascita di “rapporti duraturi” tra soldati italiani e donne del luogo).
Anche nei confronti degli avversari catturati e delle popolazioni locali con cui entrava in contatto durante le attività operative tenne sempre un comportamento rispettoso e leale, da gentiluomo d’altri tempi.
La seconda guerra mondiale, fra Sudan ed Eritrea.
Il 10 giugno 1940 era scoppiata la seconda guerra mondiale e le ostilità contro l’Impero britannico e le sue forze armate dalle varie provenienze iniziarono subito, nonostante la poca voglia delle truppe presenti al confine dati i buoni rapporti esistenti fra i dirimpettai inglesi ed italiani in quella terra di confine assolata fra Cassala e Cherù.
In particolare i nemici erano gli inglesi della Gazelle Force, i blindati ed i carri armati Mathilda della Sudan Defence Force, la fanteria motorizzata del Surrey and Sussex Yeomanry, l’artiglieria del 25° Field Regiment, gli indiani dell’11° Reggimento Sikh, reparto d’elìte, i fucilieri Raijputana, la cavalleria blindata dello Skinner’s Horse.
Di fronte, fra Cassala – occupata dagli italiani all’inizio della guerra – e gli altipiani eritrei, i 1.700 uomini eritrei, etiopi, yemeniti, italiani del Gruppo Bande Amhara del tenente Amedeo Guillet, in sella al suo grigio Sandor, con cavalli, cammelli, fucili, bombe a mano, sciabole, armi indigene e qualche mitragliatrice.
Un giornalista dell’Azione Coloniale, rivista allora in voga, così lo descriveva nell’inverno 1940-1941: “un corsaro del deserto, magro, bruciato dal sole, con un viso che degli arabi con cui ha vissuto a lungo e di cui conosce le lingue e i dialetti, ha preso l’espressione un po’ assorta, enigmatica.
Sul suolo della sua tenda era stesa una pelle di bue, con stuoie e burnus arrotolati che gli facevano da letto e aveva, lì a fianco, una lampada a olio in terracotta e l’edizione vaticana della Germania di Tacito in latino.
Il fucile dell’ufficiale e la sua scimitarra, in piedi in un angolo, completavano l’arredamento”.
Nel gennaio del 1941, quando le truppe inglesi vennero adeguatamente rinforzate, la situazione divenne molto difficile.
Le forze italiane della zona, circa 10 mila soldati, cercarono di stabilire una linea di difesa fra il forte di Cherù e Agordat, sotto il comando del generale Ugo Fongoli.
Durante la marcia erano esposti ad ogni possibile attacco inglese.
La carica di Cherù.
L’ordine dato al Gruppo Bande Amhara era semplice quanto pressoché impossibile da eseguire: trattenere le forze inglesi almeno per un giorno, costringendoli a fermarsi nella piana fra Aicotà e Barentù, per dare la possibilità di assumere il nuovo schieramento alle truppe italiane.
Il tenente Guillet ed i suoi ufficiali, i tenenti Renato Togni e Landolfo Colonna, vollero mettere in pratica una strategia lucidamente folle: avrebbero convinto gli inglesi che il loro era soltanto il reparto di avanguardia di una forza di invasione italiana in Sudan.
All’alba del 21 gennaio 1941, dopo un’accorta manovra di aggiramento, il Gruppo Bande Amhara di Guillet caricava il nemico alle spalle, creando un drammatico scompiglio tra le fila anglo-indiane.
Si trattò di uno spettacolo impressionante e, al contempo, incredibile: Guillet e i suoi uomini attaccarono, fra urla disumane, armati di sole sciabole, scimitarre, pistole e bombe a mano, la fanteria e le colonne blindate inglesi.
Dopo essere passati illesi tra le sbalordite truppe avversarie, alle quali causarono numerose perdite (e parecchie fughe), il Gruppo tornò sulle posizioni iniziali per caricare nuovamente.
Le truppe anglo-indiane, passati i primi momenti di totale disorientamento e caos, provarono successivamente a riorganizzarsi e spararono con tutto quello che potevano utilizzare in quei momenti molto concitati (compresi i cannoni da 180 libbre) ad alzo zero verso i cavalieri di nuovo alla carica.
Ma lo scompiglio continuava ad esser notevole, tanto che anche truppe inglesi furono bersaglio dell’artiglieria ed era diffusa l’idea che fosse soltanto il preludio per un attacco in forze italiano.
Un gruppo di tre carri armati Mathilda cercò di prendere sul fianco destro lo squadrone del tenente Guillet ed il grosso del Gruppo Bande.
Sarebbero seguite le autoblindo.
Il Tenente Renato Togni, vice-comandante del Gruppo, amico personale di Amedeo Guillet ed anch’egli noto tombeur de femmes, comprese rapidamente quale pericolo si stesse preparando.
Rimandò verso il grosso delle truppe la gran parte dei suoi cavalieri e la fanteria yemenita e decise una carica di alleggerimento con solo trenta dei “miei marescialli di Francia”, come scrisse in un biglietto al suo comandante con un altro esempio del notevole senso dell’ironìa che lo distingueva.
Il tenente Togni, con indosso il poncho spagnolo datogli da Amedeo Guillet, attese che i pesanti carri Mathilda entrassero in un wadi secco per caricare frontalmente la formazione corazzata lanciando granate e bombe a mano.
Gli inglesi furono sbalorditi e sconcertati, ma, passata la sorpresa, mitragliarono cavalli e cavalieri.
Solo due riuscirono a rientrare fra le linee italiane anche se la manovra di accerchiamento inglese era fallita.
Quel sacrificio permise, tuttavia, al resto delle truppe di Guillet di sganciarsi conseguendo appieno l’obiettivo: le truppe italiane in ritirata erano al sicuro dentro le fortificazioni di Agordat.
Verso mezzogiorno, dall’alto di una collina Il tenente Guillet si rese conto che il nemico non aveva il coraggio di proseguire troppo oltre la gittata dei propri cannoni.
Il fronte più avanzato era tenuto da una linea di circa settecento metri, con le autoblindo dello Skinner’s Horse sulla destra, al centro la fanteria dell’11° Sikh e a sinistra altri corazzati della Sudan Defence Force.
Era una preziosa occasione: se avesse caricato al centro, dritto in mezzo alla fanteria indiana, i blindati avrebbero potuto fare ben poco senza sparare anche sui propri uomini e non potevano nemmeno inseguirli, visti i tanti wadi della zona.
Salì, calmo, sul crinale, proprio per essere visibile da tutti.
A lato l’ascaro che portava lo stendardo con la coda di cavallo e la croce dei Savoia.
Lentamente si sollevò sulle staffe e indicò la fanteria nemica.
Il Gruppo Bande Amhara pagò però un alto prezzo per questa battaglia: 800 tra morti e feriti e la perdita del suo grande amico Renato Togni.
Fu quella l’ultima carica di cavalleria nella storia militare dell’Africa.
Amedeo Guillet partecipò, alla testa di quello che rimaneva del suo Gruppo ormai appiedato, anche alle battaglie di Cochen e Teclasan, prima della caduta di Asmara, capoluogo eritreo, avvenuta l’1 aprile 1941.
La guerra personale di Amedeo Guillet.
Persa Asmara, Guillet riteneva che l’unico modo per aiutare le truppe italiane operanti sul fronte nord-africano era quello di tenere impegnati quante più truppe inglesi possibile in Eritrea.
Il 3 aprile 1941, Guillet prese la sua decisione: se da Roma avessero ordinato la resa, lui avrebbe continuato in proprio la guerra contro gli inglesi in Africa Orientale.
Spogliatosi dell’uniforme italiana e assunta definitivamente l’identità di Cummandar es Sciaitan (Comandante Diavolo), radunò attorno a sé un centinaio di suoi fedelissimi ex-soldati indigeni (ancora una volta un autentico mélange di etnie e religioni) e iniziò una durissima guerriglia contro gli inglesi.
La sua leggenda crebbe a dismisura e si diffuse in tutta l’Africa orientale.
Al suo fianco sempre Kadija.
Gli inglesi, letteralmente furibondi, scatenarono contro Amedeo Guillet un’imponente “caccia all’uomo”, mettendo sulle sue tracce le migliori risorse di intelligence disponibili e ponendo sulla sua testa una taglia di oltre mille sterline d’oro, una vera fortuna per quei tempi e in quei luoghi ! Eppure nessuno lo tradì, nemmeno i capi tribù precedentemente in guerra con gli italiani, che, anzi, più volte gli offrirono rifugio e copertura.
La guerriglia dell’ormai capitano Guillet costò cara agli inglesi: per quasi otto mesi, con un ridotto manipolo di fedelissimi, assaltò e depredò depositi, convogli ferroviari sulla linea da Asmara ed Agordat ed avamposti, fece saltare ponti (fra i quali il nevralgico ponte Aosta a Ghinda) e gallerie rendendo insicura ogni via di comunicazione.
In più si era diffusa – non si sa come – la voce secondo cui avrebbe avuto in animo il rapimento del generale Savory, governatore militare inglese dell’Eritrea.
Tuttavia, verso la fine di ottobre 1941, i suoi ranghi si erano troppo assottigliati e lo scopo della sua missione non era più realisticamente perseguibile.
In particolare, la fortuita cattura del suo cavallo grigio Sandor da parte del maggiore Max Harari dei servizi segreti britannici, responsabile delle attività di ricerca di Guillet, gli fece capire che non avrebbe potuto continuare oltre in quella sorta di guerra privata.
Verso Ghinda, poi, una pattuglia motorizzata di inglesi armati di mitragliatrici pesanti durante uno scontro a fuoco ferirono anche Kadija.
Radunò quello che restava della sua Banda, ringraziò i suoi fedelissimi, disse che la guerra era “sospesa”, dato che i suoi uomini non si sarebbero mai arresi, promettendo loro che l’Italia avrebbe saputo ricompensarli adeguatamente e si diede alla macchia.
I soldati di Amedeo, pur laceri, scattarono sull’attenti.
Amedeo li abbracciò ad uno ad uno.
Kadija, con il fratello Asfao, rientrò fra le lacrime di Amedeo mestamente al villaggio paterno sulle alture del Semien.
La rocambolesca fuga dall’Eritrea, lo Yemen e il fortunoso rientro in Italia.
Si installò ad Al-Katmia, alla perifieria di Massaia, dove assunse la falsa identità di Ahmed Abdallah al Redai, lavoratore di origini yemenite.
Riuscì a trasformarsi in un autentico arabo, grazie anche alla perfetta conoscenza della lingua, studiò il corano ed abbracciò (per sola convenienza di sopravvivenza) la religione musulmana.
In attesa di poter riparare nello Yemen, sull’altra sponda del Mar Rosso, svolse lavori umili per vivere: fu scaricatore di porto, guardiano notturno e acquaiolo.
Seguito dal fidatissimo Daifallah, suo ex attendente, tentò una prima volta di attraversare il Mar Rosso su un sambuco di contrabbandieri, ma venne depredato, buttato in mare ed abbandonato nel deserto eritreo.
Fu salvato da un cammelliere, Sayed Ibrahim, che lo ospitò per lungo tempo nella sua capanna e che gli offrì di restare a vivere con lui prendendo per moglie sua figlia.
Tuttavia, il capitano Guillet, desideroso di rientrare in Italia, riuscì a beffare gli inglesi ancora una volta: spacciandosi come parente del cammelliere, si fece rilasciare un lasciapassare per lo Yemen dal Governatore inglese.
La traversata fu semplice, ma giunto nel porto di Hodeida, venne arrestato e rinchiuso in prigione dalle autorità locali perché sospettato di essere una spia al soldo degli inglesi.
Le sue capacità equestri ed un colloquio con il ministro Qadi Raghib gli salvarono la vita: divenne palafreniere presso la guardia dell’Imam Ahmed Yahiah, sovrano yemenita.
L’Imam lo prese a ben volere, lo elevò al rango di Gran Maniscalco di Corte, gli fu amico sincero e lo nominò precettore dei propri figli.
Guillet divenne anche responsabile ed istruttore delle guardie a cavallo yemenite e trascorse più di un anno a corte, rivelando infine la sua avventurosa storia all’Imam.
Nel giugno del 1943, nonostante le insistenze dell’Imam affinché restasse per sempre a corte, tornò a Massaua e beffò per l’ennesima volta gli inglesi: riuscì ad imbarcarsi sulla Giulio Cesare, una nave della Croce Rossa Italiana, fingendosi un civile italiano divenuto pazzo durante la guerra.
Dopo quasi due mesi di navigazione, il Capitano Amedeo Guillet giungeva finalmente nel porto di Taranto il 2 settembre 1943 ed a Roma il giorno successivo.
Veniva promosso maggiore per meriti di guerra, domandò denaro, uomini ed armi per tornare nel Corno d’Africa e riprendere la guerra clandestina contro gli Alleati.
I tempi, tuttavia, erano profondamente cambiati: i nemici di ieri stavano per diventare gli alleati di domani. E viceversa.
La conoscenza delle lingue e, soprattutto, l’esperienza acquisita sul campo fecero sì che Guillet fosse assegnato al Servizio Informazioni Militare (S.I.M.) ed impiegato in missioni ad alto rischio nell’Italia occupata dalle truppe anglo-americane.
L’armistizio dell’8 settembre colse di sorpresa Amedeo Guillet a Roma.
Attraversò coraggiosamente e fortunosamente la linea difensiva tedesca Gustav e giunse a Brindisi, dove si mise a disposizione del re Vittorio Emanuele III.
Nel settembre del 1944 sposava, finalmente, Beatrice Gandolfo, a Napoli.
Continuò ad operare nel S.I.M. del ricostituito Esercito Italiano per poi svolgere, dal 25 aprile 1945, l’incarico di agente segreto.
Fu proprio in tale veste che riuscì a recuperare la corona imperiale del Negus Neghesti etiopico, sottraendola alla Brigata partigiana Garibaldi, che, a sua volta, l’aveva confiscata al Tesoro della Repubblica Sociale Italiana.
La corona sarà poi restituita ad Hailè Selassiè e rappresentò un primo tangibile segnale di distensione tra Italia ed Etiopia.
La carriera diplomatica, al servizio della Patria in giro per il mondo, e il meritato riposo…a cavallo.
Alla fine della durissima guerra e dopo la vittoria della repubblica al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, il maggiore Amedeo Guillet, fedele al proprio giuramento di militare verso la Corona dei Savoia, rassegnò le proprie dimissioni dall’Esercito Italiano.
Presentandosi al re Umberto II (succeduto da poco e per poco al padre Vittorio Emanuele III) e manifestatagli la sua intenzione di abbandonare l’Italia, veniva energicamente redarguito, in quanto prima della fedeltà monarchica veniva l’Italia e la sua indipendenza.
Terminati gli studi universitari e laureatosi in Scienze politiche, vinse, nel 1947, il concorso per la carriera diplomatica.
Nel 1950 venne destinato, come segretario di legazione, all’Ambasciata del Cairo, dove conobbe tutti i principali esponenti politici del tempo, dal re Faruk, ai futuri leader Nasser e Sadat.
Divenne anche amico di Max Harari, il suo vecchio nemico della guerra in Eritrea.
Insieme misero su un grande centro ippico vicino alle Piramidi.
Nel 1954 fu nominato incaricato d’affari a Taiz, nello Yemen (dove il figlio del vecchio Imam, divenuto sovrano, lo accolse calorosamente dicendogli: “Ahmed finalmente sei tornato a casa!”).
Nel 1962 veniva nominato ambasciatore ad Amman, dove il re Hussein di Giordania era solito cavalcare insieme a lui e tributargli l’appellativo di “zio” (che nella cultura araba è espressione di massima deferenza e, al contempo, di familiarità).
Nel 1968 è ambasciatore in Marocco.
Durante un ricevimento ufficiale a Skirat, nel 1971, venne coinvolto in una sparatoria causata da un tentativo di colpo di stato: con la sua esperienza militare riuscì a mettere in salvo alcuni rappresentanti diplomatici che erano rimasti sotto il fuoco.
La Repubblica federale tedesca gli concesse, per aver salvato il proprio ambasciatore, la Gran Croce con stella e striscia dell’Ordine al Merito della Repubblica.
Nel 1971, fu inviato come ambasciatore d’Italia in India, entrando ben presto nel ristrettissimo entourage dei confidenti del Primo Ministro Indira Gandhi.
Il suo autista, presso l’ambasciata d’Italia, era un altro dei suoi vecchi nemici, Mohinder Singh, sikh, già caporale dell’11° Reggimento Sikh a Cherù.
Fra loro nacque una solida amicizia.
Amedeo Guillet addestrò anche la guardia del corpo a cavallo del Presidente della Repubblica Indiana.
Nel 1975, con il collocamento a riposo per limiti d’età, concluse la sua carriera diplomatica e si ritirò in Irlanda, a Co Meath, dove nei primi anni ’60 aveva acquistato una vecchia canonica d’epoca georgiana.
Spesso e volentieri veniva e viene visitato dai suoi vecchi nemici inglesi, i quali nutrono una vera e propria ammirazione.
Ogni tanto rientrava in Italia, a Roma o nel palazzo di famiglia a Capua, del quale curò anche i restauri dopo il terremoto del 1981.
Nel 1991 moriva a Roma la moglie Bice.
In un articolo dedicato all’avventurosa esistenza di Amedeo Guillet, il grande giornalista Indro Montanelli scriveva: “il Comandante Diavolo, per poter continuare indomito le sue diavolerie, oggi vive in Irlanda, dove i cavalli sono a buon costo e vi sono ampi spazi per poterli cavalcare; e a 90 anni suonati, con nessun osso del corpo al posto giusto, egli monta ogni santo giorno…”.
Nel 2000, insieme al giornalista - scrittore Sebastian O’Kelly, suo biografo ed amico personale, si è recato in Eritrea su invito del Governo locale nei luoghi che lo avevano visto giovane tenente alla testa delle Gruppo Bande Amhara.
Venne ricevuto all’Asmara dal Presidente della Repubblica eritrea con gli onori riservati ai capi di Stato.
Il 20 giugno 2000 gli è stata conferita la cittadinanza onoraria dalla città di Capua che egli definisce “altamente ambita”.
Il 2 novembre 2000, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi gli ha conferito la Gran Croce dell’Ordine Militare d’Italia, la massima onorificenza militare italiana.
Amedeo Guillet vive dove tuttora in Irlanda si dedica, nonostante la veneranda età, alla sua più grande passione: i cavalli.
Attualmente è il Presidente onorario dell’Associazione Arma di Cavalleria ed è uno dei soldati più decorati al mondo (Cavaliere di Gran Croce Ordine militare d’Italia, Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana, Croce di Cavaliere dell’Ordine militare di Savoia, cinque Medaglie d’argento al valor militare, Croce di guerra con gladio al valor militare, quattro Croci di guerra al merito, Cruz Blanca al Valor Militare, Cruz Roja al Valor Militare, Cruz por la Unidad Nacional Española, Cruz del Sufrimiento por la Patria, Grande Ufficiale dell’Ordine del Nilo della Repubblica Araba d’Egitto, Gran Croce con stella e striscia dell’Ordine al Merito della Rep.Fed.Tedesca, Gran Croce dell’Ordine Alawita del Regno di Marocco, Gran Croce dell’Ordine di S.Gregorio Magno dello Stato di Città del Vaticano).
Bibliografia.
Sebastian O’Kelly, AMEDEO - Vita, avventure e amori di Amedeo Guillet, un eroe italiano in Africa Orientale, Rizzoli, 2002;
Vittorio Dan Segre, La guerra privata del Tenente Guillet, Corbaccio Editore, 1993.
Il diorama.
Il soldatino rappresenta il tenente Amedeo Guillet con il suo cavallo Sandor, dopo la carica di Cherù, sporco di fango ed insanguinato, con la divisa della Cavalleria coloniale del Regio Esercito arricchita di alcuni particolari (fascia multicolore in vita, sciarpa per la protezione dalla polvere).
Il figurino è il kit in metallo bianco della Baby’s Store Modellismo del Cavalleggero durante la guerra di Libia (1911-1912), della apprezzata serie “Cavalleria Italiana”, con qualche modifica.
La sciarpa bianca, sporca di fango, è un semplice brandello di canovaccio.
Le redini sono in filo da cucire.
I colori utilizzati sono gli acrilici Model con pennelli “tre zero” e “quattro zero”, mentre l’ambientazione è ottenuta esclusivamente con elementi naturali: un basamento di roccia, foglie secche, licheni, legno, ecc.
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