domenica 31 luglio 2011

Amedeo Guillet - Un grande cavaliere d'Africa...

Il 19 gennaio, la IV e la V divisione indiane attraversarono il confine a nord del Nilo Azzurro; incontrarono scarsa resistenza, anche se a un certo punto vennero caricate da un ufficiale italiano su un cavallo bianco, alla testa di una banda di cavalieri amhara lanciata alla disperata contro le loro mitragliatrici” (John Keegan, La seconda guerra mondiale, Viking Press, 1990).

Amedeo Guillet

Le prime esperienze di cavaliere.
Amedeo Guillet, barone, nasce a Piacenza nel 1909 da nobile famiglia di origine piemontese e campana (Capua), di salde tradizioni militari (uno zio, anche lui di nome Amedeo, generale d’armata, fu un eroe della prima guerra mondiale). E’ attualmente il cavaliere vivente più avventuroso e decorato.
Frequentò l’Accademia Militare di Modena, da cui uscì, nel 1931, con i gradi di sottotenente di Cavalleria. Venne assegnato, quale servizio di prima nomina, al Reggimento Cavalleggeri di Monferrato, allora comandato dallo zio Ernesto. Era già allora un eccellente cavaliere e fra i primi in Italia a praticare con rigore il metodo dell’equitazione naturale proposto e teorizzato dal capitano Federico Caprilli.

Amedeo Guillet

Nel 1935 prestava servizio presso i Cavalleggeri Guide quando venne prescelto fra i quattro componenti della squadra di equitazione che avrebbe rappresentato l’Italia alle Olimpiadi di Berlino del 1936.
Venne inviato, insieme al resto della rappresentativa italiana al ritiro sportivo pre-olimpionico a Budapest e, oltre ai campi di gara, si fece notare nei salotti della capitale ungherese come tombeur de femmes, suscitando anche qualche “incidente diplomatico”.
Tuttavia non prese parte alle Olimpiadi berlinesi perché, ormai divenuto tenente, chiese di prender parte alla campagna per la conquista dell’Abissinia (1935-1936).
Riteneva, infatti, che il suo primo dovere di militare fosse quello di servire la Patria in armi dove fosse necessario.

La conquista dell'Etiopia

L’Africa coloniale e la Spagna.
Ottenne il trasferimento in Libia presso un reparto di Spahis.
E proprio nella cavalleria coloniale la sua figura divenne negli anni leggendaria.
Nell’ottobre del 1935 partecipò, come comandante di plotone, alle prime azioni della guerra di Etiopia.
Il 24 dicembre 1935 veniva gravemente ferito alla mano sinistra durante la battaglia di Selaclaclà.
Al termine della guerra, il 5 maggio del 1936, veniva decorato a Tripoli dal maresciallo d’Italia Italo Balbo per il suo esemplare e coraggioso comportamento in combattimento.

Guerra di Spagna

Sempre a Tripoli, nel marzo del 1937, fu nominato organizzatore e responsabile della parte equestre della cerimonia durante la quale Benito Mussolini, Capo del Governo, si proclamò “difensore dell’Islam” con la prospettiva di raccogliere consensi nel mondo islamico contro il dominio inglese.
Il mese successivo, sfilò a Roma, in occasione del primo anniversario dell’Impero, alla testa delle unità Spahis.
In quegli anni era fidanzato con la cugina Beatrice Gandolfo, tuttavia – essendo entrate in vigore rigide disposizioni che prevedevano, per l’accesso a incarichi superiori, l’obbligo di esser sposati per i dipendenti pubblici – non la sposò per non dar adito alle malevole critiche che lo avesse fatto per ottenere la promozione a capitano.
Nell’agosto del 1937 accettò la proposta del generale Luigi Frusci, comandante della Divisione Fiamme Nere (ufficialmente tutti gli italiani combattenti erano “volontari”) di prender parte alla spedizione di sostegno italiana ai nazionalisti nella guerra civile spagnola (1936-1939).
Durante la guerra, dove operò prima al comando di un reparto carri della divisione Fiamme Nere e poi alla testa di un tabor di cavalleria marocchina, si distinse particolarmente nei combattimenti di Santander e Teruel.
Dopo un breve periodo di convalescenza in Italia, venne trasferito in Libia al comando del VII squadrone Savari, piuttosto deluso dalla mancata promozione al grado di capitano promessagli dal generale Frusci al rientro dalla campagna di Spagna.
In questo periodo divenne molto amico della principessa Jolanda di Savoia, la primogenita del re Vittorio Emanuele III, con la quale condivideva la passione (e l’abilità) nel campo dell’equitazione.

Ambra Georghis

In Eritrea, nasce la leggenda del Cummandar es Shaitan.
Nel 1939, straordinario comandante di cavalleria coloniale, venne trasferito in Eritrea, dove il suo stesso nome divenne leggenda vivente.
Venne nominato comandante del Gruppo Bande Amhara, primo esempio di unità militare multinazionale (e multireligiosa), forte di ben 1.700 uomini di origine etiope, eritrea e yemenita, inquadrati da ufficiali italiani.
Il reparto aveva la consistenza di un reggimento e, secondo le disposizioni vigenti in qualsiasi esercito, avrebbe dovuto essere comandata da un colonnello, mentre Amedeo Guillet continuava ad esser solo un tenente, seppure pluridecorato.
Aveva un compito semplice e molto oneroso: doveva operare in tutta la regione nord occidentale dell’Eritrea contro la guerriglia e le infiltrazioni dal Sudan anglo-egiziano con la massima autonomia e libertà d’azione.
Negli anni 1937-1938 la guerriglia fedele al deposto imperatore d’Etiopia Hailè Selassiè continuava, infatti, ad essere piuttosto viva, soprattutto dopo l’attentato avvenuto ad Addis Abeba il 19 febbraio 1937 contro il maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, allora viceré d’Etiopia, e la conseguente sanguinosa repressione.
Nel 1939, durante un sanguinoso combattimento contro guerriglieri ribelli nella zona di Dougur Dubà, con un’intelligente manovra, il reparto del tenente Guillet costrinse il nemico ad uno scontro in campo aperto.
Durante una delle cariche, il suo cavallo venne colpito ed ucciso.
Immediatamente, Guillet ordinò al suo attendente di dargliene un altro.
Anche il secondo cavallo venne ucciso ma non si perse d’animo.
Appiedato, impugnò una mitragliatrice e fece fuoco contro i ribelli rimasti in campo, costringendoli alla resa.
Per questa azione, compiuta con “alto esempio di eroismo e sprezzo del pericolo”, gli venne conferita la medaglia d’argento al valor militare.
I suoi soldati indigeni, invece, lo soprannominarono Cummandar es Shaitan (”Comandante Diavolo”) convinti che godesse di una sorta di immortalità.
Ben presto le gesta belliche di Guillet divennero oggetto di discussione negli esclusivi circoli di occidentali ad Asmara e ad Adua, mentre la fama del Comandante Diavolo si diffondeva rapidamente in tutta l’Africa Orientale.
In particolare, si fantasticava sullo stile di comando “democratico” (per l’epoca) del giovane Tenente, che trattava i soldati indigeni con dignità e rispetto, dando loro massima responsabilità e la possibilità di mantenere e curare i rispettivi usi e costumi.
Molti colleghi di Guillet, invidiosi dei suoi risultati sul campo, di gran lunga migliori di quelli ottenuti da reparti regolari di italiani, “malignarono” non poco sul tipo di azione di comando adottata.
Bisogna, invece, ammettere che l’illuminato stile di comando di Guillet diede i suoi frutti: nella sua unità non si verificò mai un caso di diserzione, né di contrasto tra i soldati indigeni (pur appartenendo essi ad etnie e fedi religiose differenti).
Permise, ad esempio, ai suoi uomini di portare sempre al seguito i nuclei familiari (come da tradizione locale) ed egli stesso ebbe una concubina eritrea, Kadija (o Khadija), figlia di un importante capo tribù, che lo seguì durante tutto il suo periodo di servizio in Eritrea (in barba alle disposizioni del Governatore italiano volte ad impedire, pena l’incarcerazione, la nascita di “rapporti duraturi” tra soldati italiani e donne del luogo).
Anche nei confronti degli avversari catturati e delle popolazioni locali con cui entrava in contatto durante le attività operative tenne sempre un comportamento rispettoso e leale, da gentiluomo d’altri tempi.

A. Guillet 1940

La seconda guerra mondiale, fra Sudan ed Eritrea.
Il 10 giugno 1940 era scoppiata la seconda guerra mondiale e le ostilità contro l’Impero britannico e le sue forze armate dalle varie provenienze iniziarono subito, nonostante la poca voglia delle truppe presenti al confine dati i buoni rapporti esistenti fra i dirimpettai inglesi ed italiani in quella terra di confine assolata fra Cassala e Cherù.
In particolare i nemici erano gli inglesi della Gazelle Force, i blindati ed i carri armati Mathilda della Sudan Defence Force, la fanteria motorizzata del Surrey and Sussex Yeomanry, l’artiglieria del 25° Field Regiment, gli indiani dell’11° Reggimento Sikh, reparto d’elìte, i fucilieri Raijputana, la cavalleria blindata dello Skinner’s Horse.
Di fronte, fra Cassala – occupata dagli italiani all’inizio della guerra – e gli altipiani eritrei, i 1.700 uomini eritrei, etiopi, yemeniti, italiani del Gruppo Bande Amhara del tenente Amedeo Guillet, in sella al suo grigio Sandor, con cavalli, cammelli, fucili, bombe a mano, sciabole, armi indigene e qualche mitragliatrice.
Un giornalista dell’Azione Coloniale, rivista allora in voga, così lo descriveva nell’inverno 1940-1941: “un corsaro del deserto, magro, bruciato dal sole, con un viso che degli arabi con cui ha vissuto a lungo e di cui conosce le lingue e i dialetti, ha preso l’espressione un po’ assorta, enigmatica.
Sul suolo della sua tenda era stesa una pelle di bue, con stuoie e burnus arrotolati che gli facevano da letto e aveva, lì a fianco, una lampada a olio in terracotta e l’edizione vaticana della Germania di Tacito in latino.
Il fucile dell’ufficiale e la sua scimitarra, in piedi in un angolo, completavano l’arredamento”.
Nel gennaio del 1941, quando le truppe inglesi vennero adeguatamente rinforzate, la situazione divenne molto difficile.
Le forze italiane della zona, circa 10 mila soldati, cercarono di stabilire una linea di difesa fra il forte di Cherù e Agordat, sotto il comando del generale Ugo Fongoli.
Durante la marcia erano esposti ad ogni possibile attacco inglese.

La carica di Cherù.
L’ordine dato al Gruppo Bande Amhara era semplice quanto pressoché impossibile da eseguire: trattenere le forze inglesi almeno per un giorno, costringendoli a fermarsi nella piana fra Aicotà e Barentù, per dare la possibilità di assumere il nuovo schieramento alle truppe italiane.
Il tenente Guillet ed i suoi ufficiali, i tenenti Renato Togni e Landolfo Colonna, vollero mettere in pratica una strategia lucidamente folle: avrebbero convinto gli inglesi che il loro era soltanto il reparto di avanguardia di una forza di invasione italiana in Sudan.

Ten. Renato Togni

All’alba del 21 gennaio 1941, dopo un’accorta manovra di aggiramento, il Gruppo Bande Amhara di Guillet caricava il nemico alle spalle, creando un drammatico scompiglio tra le fila anglo-indiane.
Si trattò di uno spettacolo impressionante e, al contempo, incredibile: Guillet e i suoi uomini attaccarono, fra urla disumane, armati di sole sciabole, scimitarre, pistole e bombe a mano, la fanteria e le colonne blindate inglesi.
Dopo essere passati illesi tra le sbalordite truppe avversarie, alle quali causarono numerose perdite (e parecchie fughe), il Gruppo tornò sulle posizioni iniziali per caricare nuovamente.
Le truppe anglo-indiane, passati i primi momenti di totale disorientamento e caos, provarono successivamente a riorganizzarsi e spararono con tutto quello che potevano utilizzare in quei momenti molto concitati (compresi i cannoni da 180 libbre) ad alzo zero verso i cavalieri di nuovo alla carica.
Ma lo scompiglio continuava ad esser notevole, tanto che anche truppe inglesi furono bersaglio dell’artiglieria ed era diffusa l’idea che fosse soltanto il preludio per un attacco in forze italiano.
Un gruppo di tre carri armati Mathilda cercò di prendere sul fianco destro lo squadrone del tenente Guillet ed il grosso del Gruppo Bande.
Sarebbero seguite le autoblindo.
Il Tenente Renato Togni, vice-comandante del Gruppo, amico personale di Amedeo Guillet ed anch’egli noto tombeur de femmes, comprese rapidamente quale pericolo si stesse preparando.
Rimandò verso il grosso delle truppe la gran parte dei suoi cavalieri e la fanteria yemenita e decise una carica di alleggerimento con solo trenta dei “miei marescialli di Francia”, come scrisse in un biglietto al suo comandante con un altro esempio del notevole senso dell’ironìa che lo distingueva.
Il tenente Togni, con indosso il poncho spagnolo datogli da Amedeo Guillet, attese che i pesanti carri Mathilda entrassero in un wadi secco per caricare frontalmente la formazione corazzata lanciando granate e bombe a mano.
Gli inglesi furono sbalorditi e sconcertati, ma, passata la sorpresa, mitragliarono cavalli e cavalieri.
Solo due riuscirono a rientrare fra le linee italiane anche se la manovra di accerchiamento inglese era fallita.
Quel sacrificio permise, tuttavia, al resto delle truppe di Guillet di sganciarsi conseguendo appieno l’obiettivo: le truppe italiane in ritirata erano al sicuro dentro le fortificazioni di Agordat.
Verso mezzogiorno, dall’alto di una collina Il tenente Guillet si rese conto che il nemico non aveva il coraggio di proseguire troppo oltre la gittata dei propri cannoni.
Il fronte più avanzato era tenuto da una linea di circa settecento metri, con le autoblindo dello Skinner’s Horse sulla destra, al centro la fanteria dell’11° Sikh e a sinistra altri corazzati della Sudan Defence Force.
Era una preziosa occasione: se avesse caricato al centro, dritto in mezzo alla fanteria indiana, i blindati avrebbero potuto fare ben poco senza sparare anche sui propri uomini e non potevano nemmeno inseguirli, visti i tanti wadi della zona.
Salì, calmo, sul crinale, proprio per essere visibile da tutti.
A lato l’ascaro che portava lo stendardo con la coda di cavallo e la croce dei Savoia.
Lentamente si sollevò sulle staffe e indicò la fanteria nemica.
Il Gruppo Bande Amhara pagò però un alto prezzo per questa battaglia: 800 tra morti e feriti e la perdita del suo grande amico Renato Togni.
Fu quella l’ultima carica di cavalleria nella storia militare dell’Africa.
Amedeo Guillet partecipò, alla testa di quello che rimaneva del suo Gruppo ormai appiedato, anche alle battaglie di Cochen e Teclasan, prima della caduta di Asmara, capoluogo eritreo, avvenuta l’1 aprile 1941.

Bande Amhara alla carica

La guerra personale di Amedeo Guillet.
Persa Asmara, Guillet riteneva che l’unico modo per aiutare le truppe italiane operanti sul fronte nord-africano era quello di tenere impegnati quante più truppe inglesi possibile in Eritrea.
Il 3 aprile 1941, Guillet prese la sua decisione: se da Roma avessero ordinato la resa, lui avrebbe continuato in proprio la guerra contro gli inglesi in Africa Orientale.
Spogliatosi dell’uniforme italiana e assunta definitivamente l’identità di Cummandar es Sciaitan (Comandante Diavolo), radunò attorno a sé un centinaio di suoi fedelissimi ex-soldati indigeni (ancora una volta un autentico mélange di etnie e religioni) e iniziò una durissima guerriglia contro gli inglesi.
La sua leggenda crebbe a dismisura e si diffuse in tutta l’Africa orientale.
Al suo fianco sempre Kadija.
Gli inglesi, letteralmente furibondi, scatenarono contro Amedeo Guillet un’imponente “caccia all’uomo”, mettendo sulle sue tracce le migliori risorse di intelligence disponibili e ponendo sulla sua testa una taglia di oltre mille sterline d’oro, una vera fortuna per quei tempi e in quei luoghi ! Eppure nessuno lo tradì, nemmeno i capi tribù precedentemente in guerra con gli italiani, che, anzi, più volte gli offrirono rifugio e copertura.
La guerriglia dell’ormai capitano Guillet costò cara agli inglesi: per quasi otto mesi, con un ridotto manipolo di fedelissimi, assaltò e depredò depositi, convogli ferroviari sulla linea da Asmara ed Agordat ed avamposti, fece saltare ponti (fra i quali il nevralgico ponte Aosta a Ghinda) e gallerie rendendo insicura ogni via di comunicazione.
In più si era diffusa – non si sa come – la voce secondo cui avrebbe avuto in animo il rapimento del generale Savory, governatore militare inglese dell’Eritrea.
Tuttavia, verso la fine di ottobre 1941, i suoi ranghi si erano troppo assottigliati e lo scopo della sua missione non era più realisticamente perseguibile.
In particolare, la fortuita cattura del suo cavallo grigio Sandor da parte del maggiore Max Harari dei servizi segreti britannici, responsabile delle attività di ricerca di Guillet, gli fece capire che non avrebbe potuto continuare oltre in quella sorta di guerra privata.
Verso Ghinda, poi, una pattuglia motorizzata di inglesi armati di mitragliatrici pesanti durante uno scontro a fuoco ferirono anche Kadija.
Radunò quello che restava della sua Banda, ringraziò i suoi fedelissimi, disse che la guerra era “sospesa”, dato che i suoi uomini non si sarebbero mai arresi, promettendo loro che l’Italia avrebbe saputo ricompensarli adeguatamente e si diede alla macchia.
I soldati di Amedeo, pur laceri, scattarono sull’attenti.
Amedeo li abbracciò ad uno ad uno.
Kadija, con il fratello Asfao, rientrò fra le lacrime di Amedeo mestamente al villaggio paterno sulle alture del Semien.

Kadija

La rocambolesca fuga dall’Eritrea, lo Yemen e il fortunoso rientro in Italia.
Si installò ad Al-Katmia, alla perifieria di Massaia, dove assunse la falsa identità di Ahmed Abdallah al Redai, lavoratore di origini yemenite.
Riuscì a trasformarsi in un autentico arabo, grazie anche alla perfetta conoscenza della lingua, studiò il corano ed abbracciò (per sola convenienza di sopravvivenza) la religione musulmana.
In attesa di poter riparare nello Yemen, sull’altra sponda del Mar Rosso, svolse lavori umili per vivere: fu scaricatore di porto, guardiano notturno e acquaiolo.
Seguito dal fidatissimo Daifallah, suo ex attendente, tentò una prima volta di attraversare il Mar Rosso su un sambuco di contrabbandieri, ma venne depredato, buttato in mare ed abbandonato nel deserto eritreo.
Fu salvato da un cammelliere, Sayed Ibrahim, che lo ospitò per lungo tempo nella sua capanna e che gli offrì di restare a vivere con lui prendendo per moglie sua figlia.
Tuttavia, il capitano Guillet, desideroso di rientrare in Italia, riuscì a beffare gli inglesi ancora una volta: spacciandosi come parente del cammelliere, si fece rilasciare un lasciapassare per lo Yemen dal Governatore inglese.
La traversata fu semplice, ma giunto nel porto di Hodeida, venne arrestato e rinchiuso in prigione dalle autorità locali perché sospettato di essere una spia al soldo degli inglesi.
Le sue capacità equestri ed un colloquio con il ministro Qadi Raghib gli salvarono la vita: divenne palafreniere presso la guardia dell’Imam Ahmed Yahiah, sovrano yemenita.
L’Imam lo prese a ben volere, lo elevò al rango di Gran Maniscalco di Corte, gli fu amico sincero e lo nominò precettore dei propri figli.
Guillet divenne anche responsabile ed istruttore delle guardie a cavallo yemenite e trascorse più di un anno a corte, rivelando infine la sua avventurosa storia all’Imam.
Nel giugno del 1943, nonostante le insistenze dell’Imam affinché restasse per sempre a corte, tornò a Massaua e beffò per l’ennesima volta gli inglesi: riuscì ad imbarcarsi sulla Giulio Cesare, una nave della Croce Rossa Italiana, fingendosi un civile italiano divenuto pazzo durante la guerra.
Dopo quasi due mesi di navigazione, il Capitano Amedeo Guillet giungeva finalmente nel porto di Taranto il 2 settembre 1943 ed a Roma il giorno successivo.
Veniva promosso maggiore per meriti di guerra, domandò denaro, uomini ed armi per tornare nel Corno d’Africa e riprendere la guerra clandestina contro gli Alleati.
I tempi, tuttavia, erano profondamente cambiati: i nemici di ieri stavano per diventare gli alleati di domani. E viceversa.
La conoscenza delle lingue e, soprattutto, l’esperienza acquisita sul campo fecero sì che Guillet fosse assegnato al Servizio Informazioni Militare (S.I.M.) ed impiegato in missioni ad alto rischio nell’Italia occupata dalle truppe anglo-americane.
L’armistizio dell’8 settembre colse di sorpresa Amedeo Guillet a Roma.
Attraversò coraggiosamente e fortunosamente la linea difensiva tedesca Gustav e giunse a Brindisi, dove si mise a disposizione del re Vittorio Emanuele III.
Nel settembre del 1944 sposava, finalmente, Beatrice Gandolfo, a Napoli.
Continuò ad operare nel S.I.M. del ricostituito Esercito Italiano per poi svolgere, dal 25 aprile 1945, l’incarico di agente segreto.
Fu proprio in tale veste che riuscì a recuperare la corona imperiale del Negus Neghesti etiopico, sottraendola alla Brigata partigiana Garibaldi, che, a sua volta, l’aveva confiscata al Tesoro della Repubblica Sociale Italiana.
La corona sarà poi restituita ad Hailè Selassiè e rappresentò un primo tangibile segnale di distensione tra Italia ed Etiopia.

La carriera diplomatica, al servizio della Patria in giro per il mondo, e il meritato riposo…a cavallo.
Alla fine della durissima guerra e dopo la vittoria della repubblica al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, il maggiore Amedeo Guillet, fedele al proprio giuramento di militare verso la Corona dei Savoia, rassegnò le proprie dimissioni dall’Esercito Italiano.
Presentandosi al re Umberto II (succeduto da poco e per poco al padre Vittorio Emanuele III) e manifestatagli la sua intenzione di abbandonare l’Italia, veniva energicamente redarguito, in quanto prima della fedeltà monarchica veniva l’Italia e la sua indipendenza.
Terminati gli studi universitari e laureatosi in Scienze politiche, vinse, nel 1947, il concorso per la carriera diplomatica.
Nel 1950 venne destinato, come segretario di legazione, all’Ambasciata del Cairo, dove conobbe tutti i principali esponenti politici del tempo, dal re Faruk, ai futuri leader Nasser e Sadat.
Divenne anche amico di Max Harari, il suo vecchio nemico della guerra in Eritrea.
Insieme misero su un grande centro ippico vicino alle Piramidi.
Nel 1954 fu nominato incaricato d’affari a Taiz, nello Yemen (dove il figlio del vecchio Imam, divenuto sovrano, lo accolse calorosamente dicendogli: “Ahmed finalmente sei tornato a casa!”).
Nel 1962 veniva nominato ambasciatore ad Amman, dove il re Hussein di Giordania era solito cavalcare insieme a lui e tributargli l’appellativo di “zio” (che nella cultura araba è espressione di massima deferenza e, al contempo, di familiarità).
Nel 1968 è ambasciatore in Marocco.
Durante un ricevimento ufficiale a Skirat, nel 1971, venne coinvolto in una sparatoria causata da un tentativo di colpo di stato: con la sua esperienza militare riuscì a mettere in salvo alcuni rappresentanti diplomatici che erano rimasti sotto il fuoco.
La Repubblica federale tedesca gli concesse, per aver salvato il proprio ambasciatore, la Gran Croce con stella e striscia dell’Ordine al Merito della Repubblica.
Nel 1971, fu inviato come ambasciatore d’Italia in India, entrando ben presto nel ristrettissimo entourage dei confidenti del Primo Ministro Indira Gandhi.
Il suo autista, presso l’ambasciata d’Italia, era un altro dei suoi vecchi nemici, Mohinder Singh, sikh, già caporale dell’11° Reggimento Sikh a Cherù.
Fra loro nacque una solida amicizia.
Amedeo Guillet addestrò anche la guardia del corpo a cavallo del Presidente della Repubblica Indiana.
Nel 1975, con il collocamento a riposo per limiti d’età, concluse la sua carriera diplomatica e si ritirò in Irlanda, a Co Meath, dove nei primi anni ’60 aveva acquistato una vecchia canonica d’epoca georgiana.
Spesso e volentieri veniva e viene visitato dai suoi vecchi nemici inglesi, i quali nutrono una vera e propria ammirazione.
Ogni tanto rientrava in Italia, a Roma o nel palazzo di famiglia a Capua, del quale curò anche i restauri dopo il terremoto del 1981.
Nel 1991 moriva a Roma la moglie Bice.
In un articolo dedicato all’avventurosa esistenza di Amedeo Guillet, il grande giornalista Indro Montanelli scriveva: “il Comandante Diavolo, per poter continuare indomito le sue diavolerie, oggi vive in Irlanda, dove i cavalli sono a buon costo e vi sono ampi spazi per poterli cavalcare; e a 90 anni suonati, con nessun osso del corpo al posto giusto, egli monta ogni santo giorno…”.
Nel 2000, insieme al giornalista - scrittore Sebastian O’Kelly, suo biografo ed amico personale, si è recato in Eritrea su invito del Governo locale nei luoghi che lo avevano visto giovane tenente alla testa delle Gruppo Bande Amhara.
Venne ricevuto all’Asmara dal Presidente della Repubblica eritrea con gli onori riservati ai capi di Stato.

Amedeo Guillet, Eritrea 2000

Il 20 giugno 2000 gli è stata conferita la cittadinanza onoraria dalla città di Capua che egli definisce “altamente ambita”.
Il 2 novembre 2000, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi gli ha conferito la Gran Croce dell’Ordine Militare d’Italia, la massima onorificenza militare italiana.
Amedeo Guillet vive dove tuttora in Irlanda si dedica, nonostante la veneranda età, alla sua più grande passione: i cavalli.
Attualmente è il Presidente onorario dell’Associazione Arma di Cavalleria ed è uno dei soldati più decorati al mondo (Cavaliere di Gran Croce Ordine militare d’Italia, Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana, Croce di Cavaliere dell’Ordine militare di Savoia, cinque Medaglie d’argento al valor militare, Croce di guerra con gladio al valor militare, quattro Croci di guerra al merito, Cruz Blanca al Valor Militare, Cruz Roja al Valor Militare, Cruz por la Unidad Nacional Española, Cruz del Sufrimiento por la Patria, Grande Ufficiale dell’Ordine del Nilo della Repubblica Araba d’Egitto, Gran Croce con stella e striscia dell’Ordine al Merito della Rep.Fed.Tedesca, Gran Croce dell’Ordine Alawita del Regno di Marocco, Gran Croce dell’Ordine di S.Gregorio Magno dello Stato di Città del Vaticano).

Bibliografia.
Sebastian O’Kelly, AMEDEO - Vita, avventure e amori di Amedeo Guillet, un eroe italiano in Africa Orientale, Rizzoli, 2002;
Vittorio Dan Segre, La guerra privata del Tenente Guillet, Corbaccio Editore, 1993.

Amedeo Guillet

Il diorama.
Il soldatino rappresenta il tenente Amedeo Guillet con il suo cavallo Sandor, dopo la carica di Cherù, sporco di fango ed insanguinato, con la divisa della Cavalleria coloniale del Regio Esercito arricchita di alcuni particolari (fascia multicolore in vita, sciarpa per la protezione dalla polvere).
Il figurino è il kit in metallo bianco della Baby’s Store Modellismo del Cavalleggero durante la guerra di Libia (1911-1912), della apprezzata serie “Cavalleria Italiana”, con qualche modifica.
La sciarpa bianca, sporca di fango, è un semplice brandello di canovaccio.
Le redini sono in filo da cucire.

Amedeo Guillet

I colori utilizzati sono gli acrilici Model con pennelli “tre zero” e “quattro zero”, mentre l’ambientazione è ottenuta esclusivamente con elementi naturali: un basamento di roccia, foglie secche, licheni, legno, ecc.

Amedeo Guillet

Stefano Deliperi
© 2008
[Gallery]
http://guide.supereva.it/

Quel mobbing quotidiano tra questuanti e venditori

di Elena Gaiardoni
Copricapo, ombrellino, ventaglio. I vezzosi schiaffi da geisha contro il sole ondeggiano sui turisti nelle vie estive. Città a luglio. Di giorno è lemme; la notte le strade sono fragranti di dolci suoni. Idillio di un centro storico senza la massa. Chi ti rompe? Chi ti insinua? La piovra. La piovra a Milano? Sì. Più la scacci, più ti soffoca e, più del caldo, ti costringe a tirar fuori la lingua per asfissia. Abbiamo dato un nome al polipone: il suo nome è «Mobbing Street». Sigla: MS. Mai Soli. Sempre: Malamente Subissati! Da chi?
Spiegazione etologica. Un solo chilometro da una piazza a una piazza per sentire la presa della piovra intorno al collo. Inizia il ragazzo ghanese che ti chiama «mama» per venderti il braccialettino africano portafortuna del suo «papa» stregone. Più gli dici «no, grazie» più ti apostrofa con altri epiteti: «zia», «dona», «bela», che ti senti anche la metamorfosi di una pecora. La presa dell’epiteto senza doppie è letargica, narcotizzante, da svenimento.
Te ne liberi. Percorri altri cento metri, raccomandandoti: «L’armonia, l’armonia! Prima in me e poi nel mondo» e, mentre così pensi, ti balza all’orecchio con un sorriso da zebra e l’alito da cipolla il «fradelo» - leggi fratello - del «papa», che ti smazza libri con favole del continente nero, quello alle falde del Kilimangiaro. Se non è un vatusso nell’altezza, sicuramente lo è nella lunga puntigliosità di inseguirti. Secondo tentacolo spezzato a colpi di machete cortese. No, grazie! No, grazie!
Prosegui per il sentiero interrotto. Non fai a tempo a porre un passo indietro nel tuo interiore training autogeno, per infonderti «la pazienza, la pazienza, la pazienza», è olè! ti si para davanti la ragazza di Green Peace. Penna in mano: «Firma!». Il tuo «no, grazie!» sta già diventando un «no!», ma ti trattieni. «Firma!» pretende la penna puntata davanti agli occhi, perché una vera penna non ti molla mai, e pensi che la pace di quel lemme vuoto metropolitano che vaga tra i parchi di una Milano deserta, è un miraggio della Savana madre. Avanzi, ritrovando i pensieri abbandonati nel labirinto della città che, presi in «solitudine» diceva Walter Benjamin, sono la droga più sana per chi ama scrivere.
Quale solitudine? Cento metri e arriva un’altra penna. E’ quella di Save the Children. Ora la biro dell’infanzia ti appare come il pendolino dell’ipnosi. Davanti a lei cominci a provare fastidio. Rimani senza risposte, mentre il giovine dell’associazione ti scroscia i tuoi doveri verso quei piccoli offesi dalle carenze che in Occidente sono abbondanze. Ti senti in colpa. Eppur per principio contro il mobbing street ti opponi. Nel training interiore fingi di essere lo Yeti nel grande freddo primordiale. Resisti!
E’ passata la penna-pendolo e ancora ti illudi che i prossimi seicento metri siano finalemnte di passeggio. Vedi rosa; nel mentre che il colore e il nome dell’essenza paradisiaca ti avvolgono, è proprio un mazzo di rose a frustare e frustrare il senso di ritrovata armonia. «Mi compera una rosa?». L’asiatico che le vende fa il virus. Ti aggira, si appiccica, se potesse ti butterebbe dentro in bocca tutte le rose, purché con la mano tu tiri fuori dalla borsa cinque euro, come se fossero l’antibiotico contro il batterio dell’ostinazione, che già ti ottunde le budella. Ora il «no!» è di pancia. Pericoloso, perché sarebbe il totale cedimento al mobbing street, l’insistenza degli avventori di strada.
Ora a Milano c’è una nuova moda. E’ il ragazzino, il bulgaro o lo zingarello che si avvicinano con la mano tesa, segno di carità, e appena leggono nei tuoi occhi il segno del rifiuto, cambiano obiettivo e chiedono: «Hai una sigaretta!».
Su quella non mollano la presa, come se fossero un plotone d’esecuzione all’inverso: il condannato deve al plotone una sigaretta per essere graziato di campare in santa pace! «Tu sei forte» ti dici e non scuci la Camel. La tua forza è come la gobba di un cammello. Hai riserve di infinita pazienza, ti dici, nel prendere una decisione. Quasi, quasi faccio in metro l’ultima parte del tragitto. San Babila-Cordusio: due fermate, ma almeno sei lontano dal mobbing street di coloro che non chiedono la carità. In metro la gente è poca, ti puoi anche sedere. Che bello! Non fai a tempo a pensare così e si piazza davanti uno con la fisarmonica per i due minuti di due fermate. MS. Mobbing Street! No. Con gli occhi di fuoco, ma la voce ancora gentile, osservi il caucasico e dici: «MS. Mollami subito!».

L'abbandono di un cane FERRAFILM

Giuseppe Santostefano. Reggio Calabria 31.07.1973

Giuseppe Santostefano.

Reggio Calabria 31.07.1973 - Il governo antifascista Rumor, nel luglio del 1970, decise di spostare lo storico capoluogo della Regione Calabria da Reggio a Catanzaro assegnando ad esso la sede dell’Assemblea Regionale. I sindacati e i partiti politici cittadini, tranne il Partito Comunista Italia e il Partito Socialista Italiano, diedero vita ad una rivolta popolare, organizzando per il giorno 15 luglio uno sciopero generale. Alcuni manifestanti, radunati davanti alla Prefettura, furono subito caricati dalle Forze di Polizia. I primi feriti. Nel giro di poche ore la città di Reggio Calabria fu completamente bloccata e isolata. Erette le prime barricate all’imbocco delle strade statali e autostrade. Numerosi ferrovieri aderirono allo sciopero, abbandonando i convogli in maniera tale che nessun treno potesse proseguire la corsa. La stessa sera, poco prima della mezzanotte, i carabinieri ritrovarono in via Logoteta, una traversa di Corso Garibaldi, il cadavere di Bruno Labate, operaio e frenatore delle Ferrovie dello Stato, iscritto alla Cgil. Il primo caduto della rivolta di Reggio. Il sindaco, Pietro Battaglia, fu costretto a tirarsi indietro, consegnando al Movimento Sociale Italiano la guida dei rivoltosi e dare continuità alla rivolta contro un regime definito nemico del popolo reggino. Il 17 settembre dello stesso anno, le Forze di Polizia assaltarono il quartiere Sbarre, roccaforte dei “Boia chi Molla” guidati dal sindacalista della Cisnal Ciccio Franco. Arrestato e deportato nel carcere di Bari. Un altro reggino, Angelo Campanella, 45 anni, autista dell’azienda Municipale di trasporti e padre di sette figli, fu colpito mortalmente da un proiettile sparato dalle Forze di Polizia mentre rientrava a casa. Solo nel marzo del 1971, grazie ai rastrellamenti e alle perquisizioni a tappeto, le Forze di Polizia riuscirono a portare l’ordine in città. Alle elezioni del 1972, i reggini, votarono in blocco il Movimento Sociale Italiano eleggendo Ciccio Franco Senatore. A distanza di un anno, dal trionfo del partito di Giorgio Almirante, i comunisti diedero un segnale della loro presenza politica assassinando uno dei più attivi sindacalisti della Cisnal, Giuseppe Santostefano. Il 31 luglio del 1973, durante un comizio del Partito Comunista Italiano, Giuseppe Santostefano, 50 anni, fu aggredito violentemente da un gruppo di militanti della sinistra extraparlamentare. Morì poche ore dopo in ospedale senza mai riprendere conoscenza. La sua morte sancì la definitiva sconfitta per la città di Reggio.

sabato 30 luglio 2011

Strozzino e violento estremista si incrina il mito di Matteotti.

Lo storico Romanato traccia il ritratto del deputato socialista,pacifista in Parlamento e rivoluzionario nel Polesine.
Strozzino e violento estremista  si incrina il mito di Matteotti
Libero-news.it

N

on si tratta di fare del revisionismo, piuttosto di andare oltre l’agiografia, tentando di superare il mito a favore di una maggiore conoscenza della nostra storia. Una missione non facile quando si prende in esame Giacomo Matteotti, come ha fatto il professore dell’Università di Padova Gianpaolo Romanato nella bella biografia Un italiano diverso (Longanesi) che ieri Giuseppe Parlato ha recensito su queste pagine.
Del leader socialista assassinato dai fascisti ci resta oggi un santino, una descrizione eroica che in parte è certamente vera, ma incompleta. Meno noti al grande pubblico sono i lati più problematici del personaggio, due in particolare: le accuse di strozzinaggio rivolte alla famiglia Matteotti (di cui abbiamo già parlato) e il rapporto del deputato socialista con le violenze del cosiddetto biennio rosso. Lo studioso parla di «un clima di violenza e di guerra civile che, a opera dei socialisti e soprattutto delle leghe, imbarbarì la provincia».
Matteotti proveniva dal Polesine, e trattò in due discorsi parlamentari la drammatica questione del suo territorio. Il suo atteggiamento, tuttavia, fu ambivalente. Da un lato, alla Camera, il tono dei suoi discorsi era più conciliante, a casa propria invece si poneva diversamente.
In quelle zone l’egemonia socialista era fortissima, e Matteotti mostrava una «singolare dicotomia», come l’ha chiamata sull’Osservatore Romano un altro studioso di vaglia, Roberto Pertici: «A Rovigo, rivoluzionario e ossequiente all’estremismo oppressivo delle leghe del primo dopoguerra; alla Camera legalitario ed esperto di questioni tecniche e giuridiche».
Meriti e peccati
Pertici è un moderato, parlando con «Libero» riconosce i meriti di Matteotti e prende in tutti i modi le distanze dal sensazionalismo. Ma nel suo articolo per l’Osservatore spiega che Giacomo «diede copertura politica (volente o nolente) al clima di violenza e di guerra civile. Quel clima di violenza e di dura sopraffazione Matteotti non lo crea, ma lo protegge e non lo frena», ci dice il professore, «non si opponeva per non perdere il rapporto con il suo elettorato polesano». Del resto questa era la linea del suo schieramento.
«Il partito socialista», prosegue Pertici, «era inebriato dalla prospettiva della rivoluzione russa, le direttive erano quelle di alimentare il clima rivoluzionario. Nella provincia italiana, specie nelle campagne, si creò dunque una situazione di violenza diffusa e pressione sociale fortissima. Ci furono i morti, certo, ma ci fu anche una violenza diciamo ambientale: i reduci della guerra venivano derisi, i mutilati erano presi in giro, si impediva ai Comuni di esporre la bandiera. Il presidente del Consiglio Nitti, nel ’19, non fece festeggiare l’anniversario della fine del conflitto per non indispettire i socialisti, mentre tutti i Paesi europei lo celebravano».
Fu in questo quadro che si sviluppò la reazione dei fasci, inizialmente appoggiata anche dai popolari e dai moderati, che la intendevano come un freno al caos socialista. Poi, ovvio, il fascismo prese un’altra strada. Rispetto alle violenze rosse, nel libro di Romanato si legge un ruvido articolo comparso sul giornale dei popolari del Polesine che condanna duramente gli esponenti del partito di Matteotti: «Ci sono poche cose che corrompono tanto un popolo come l’abitudine dell’odio; e voi, capi del socialismo polesano, questo sentimento l’avete fomentato in tutte le guise».
Anche Romanato è estremamente cauto nei giudizi, e il suo libro è tutt’altro che denigratorio nei confronti del deputato socialista, cosa che lo rende ancora più importante e apprezzabile. A proposito delle coperture alla violenza politica, preferisce dire che Matteotti «fu condizionato da avvenimenti che non sempre seppe o poté governare. Il Polesine era una provincia poverissima e marginale», dice a Libero, «dove la lotta politica aveva poche mediazioni e facilmente degenerava nella rissa. Inoltre il socialismo locale fu sempre egemonizzato da spinte massimaliste, cioè rivoluzionarie. I due maggiori leader, prima Nicola Badaloni e poi Matteotti, operarono per moderare tali spinte e incanalarle in un’azione politica organizzata e più disciplinata. Ma dopo la guerra, quando il conflitto si accese, Matteotti ebbe sempre meno spazio per le mediazioni, non avendo neppure più la sponda di Badaloni. È questa la fase, siamo nel cosiddetto “biennio rosso”, in cui Matteotti apparve in Polesine più un piromane che un pompiere. Altra era invece la linea che teneva a Roma, dove il confronto era dialettico e non “pugilistico”. Questa duplicità gli fu rimproverata da tutti i suoi avversari, liberali, cattolici e fascisti».
Lo studioso racconta che nelle terre di Matteotti regnava una «violenza insostenibile», la quale contribuì certo a suscitare una reazione “nera”. «Il clima in Polesine, come anche nelle contigue province di Ferrara, Bologna e Mantova, era pesantissimo, di strisciante guerra civile», dice. «La documentazione che ho portato nel libro conferma l’esistenza di una situazione di violenza insostenibile, sia pure motivata da sacrosante richieste di giustizia sociale. Solo in Polesine ci furono una ventina di morti in poco più di due anni. È questo l’inferno da cui sorse lo squadrismo fascista, che, di suo, aggiunse all’esercizio della violenza una metodo, una disciplina e un’organizzazione che i socialisti non avevano».
Antiborghese
Il problema, come nota Roberto Pertici, è il tipo di riformismo che il partito di Matteotti propugnava. L’orizzonte era sempre quello della rivoluzione socialista, anche se con la convinzione che per realizzarla fosse necessaria una certa gradualità. I dirigenti dello schieramento rosso non si riconoscevano nelle istituzioni dello Stato democratico e borghese, anzi si consideravano estranei ad esse, le combattevano, per un certo periodo anche a costo di fomentare la violenza nelle province. Solo in seguito cambiarono rotta, ma ormai era troppo tardi, l’avvento del fascismo si faceva inarrestabile.
Giacomo Matteotti, prima di morire - come ha scritto ieri Giuseppe Parlato - aveva accentuato le sue posizioni anticomuniste, poi fu ammazzato come tutti sanno. Tentò di combattere la dittatura incipiente, come chiunque gli riconosce. Proprio per questo bisogna raccontare anche come agì in precedenza.

di Francesco Borgonovo

Vende la sua morte in diretta per far ricca la famiglia.

Montagna di soldi ad un malato terminale che contratta i diritti Tv della sua eutanasia.E' la famiglia a fare l'offerta.

Vende la sua morte in diretta  per far ricca la famiglia
Libero-news.it

S

alvo colpi imprevisti (e ce ne potrebbero essere, dati i deuteragonisti della vicenda...) al momento in cui andiamo in stampa un uomo morirà in diretta tv, attraverso un’eutanasia assistita e ben pagata.
L'uomo è un russo malato terminale identificato col nome di Nikolai Ivanisovic, 62 anni. Il suo suicidio verrà trasmesso via web dalla piattaforma internet BattleCam.com, un sito del tipo Reality tv, che trasmette 24 ore su 24, eventi dal vivo. Il sito è di proprietà del miliardario inglese Alki David che aiuterà economicamente la famiglia del povero disgraziato. Ivanisovic, affetto da un tumore al cervello riceverà una iniezione letale somministrata da un medico. Secondo quando riferito dallo stesso David all’altro sito Avn.con, gli spettatori di BattleCam potranno decidere se assistere o no alla trasmissione attarverso un "sistema di voto" incorporato nel sito. Terribile, a sentirsi.
Tanto più che la richiesta di trasmettere l'evento in streaming sarebbe giunta dalla stessa famiglia del paziente, alla quale David aveva già prestato assistenza economica. E lo stesso Nikolai, intervistato nella località - rimasta segreta - dove risiede, ha ringraziato il milardario per la sua generosità: "Dopo la mia morte la mia famiglia potrà continuare a vivere in prosperità". Il luttuoso evento è spacciato come un fatto inedito nella storia delle televisione. Ma basta sfogliare i giornali di un paio d'anni fa per verificare che la stessa cosa era avvenuta a Jane Goody, ex star del Grande Fratello inglese. La quale, gravemente ammalatasi, aveva deciso con il marito di vendere i diritti televisivi e fotografici del proprio calvario e della propria dipartita in esclusiva, allo scopo di mettere da parte quanti più soldi possibili per i bambini, scelta che era stata criticata da molti tabloid e commentatori britannici. E per la verità l'idea del suicidio show, al di là del suo aspetto inevitabilmente orrorifico, non è neppure nuovissima. Ogni forma di autoammazzamento in diretta promana dal film "Quinto Potere" di Sidney Lumet, anno 1976, dove l’attore Peter Finch, anchorman depresso, per far schizzare gli ascolti della sua tv si faceva schizzare il cervello con una revolverata. Ed è stato ripresa, grazie all'avvento dei social network , più volte. Come nel caso della straziante fotosequenza di un giovane svedese che decise di suicidarsi tre anni fa; lo annunciò prima sul web e poi con estrema freddezza riprese il tutto con una telecamerina. Il giovane, Marcus Jannes, comunicatala sua volontà in un forum chiamato "Flashback", mantenne le promesse tra lo sdegno dei mass media che comunque riportarono integralmente l'insano gesto.
Nel 2008 l'americano Abraham K. Biggs, 19 anni, ingerì un cocktail letale di pillole mentre trasmetteva la sua immagine davanti alle webcam della famosa e seguitissima Justin Tv, un sito -anche lì- di live videostreaming. Tutto sotto gli occhi increduli di altri millecinquecento utenti della comunità virtuale che, convinti si trattasse di una messa in scena, addirittura lo incoraggiarono. I siti di live videostreaming tendono a diventare una iattura sociale. Il BattleCam di David aveva già promesso 500 dollari a chiunque si inchiodasse i testicoli ad una scrivania, riprendesse l'impresa e la mandasse in onda. E promise anche un milione di dollari al primo uomo che si fosse spogliato davanti al presidente Obama (lo strip tease ci fu, non il pagamento...).
Vere cialtonerie. Che in questo caso specifico vorrebbero perlomeno riaprire il dibattito sull'eutanasia e sul suicidio assistito. Dovrebbe. Ma è il modo migliore per distruggerne lo spirito.

Mondiali di nuoto a Shangai: oro per il Settebello



La squadra di pallanuoto italiana non vinceva dal lontano 1994. Argento per Luca Dotto nei 50 stile libero

FOTO LAPRESSE
17:04 -
Il settebello italiano è d'oro. L'Italia ha vinto il titolo mondiale nella pallanuoto battendo la Serbia per 8 a 7 al termine di una gara combattuta e che ha richiesto i tempi supplementari. Determinante per la squadra di Franco Campagna è stato il portiere Stefano Tempesti: ha neutralizzato due rigori avversari. La Serbia era la detentrice del titolo mondiale, conquistato due anni fa a Roma, dove peraltro aveva eliminato l'Italia negli ottavi per 7 a 5 e dove gli azzurri avevavo chiuso il torneo all'undicesimo posto.  
L'Italia della pallanuoto torna sul gradino più alto del podio 17 anni dopo l'ultima volta (i Mondiali del '94), e il ct azzurro Sandro Campagna elogia ''cuore, coraggio e compattezza'' della sua nazionale fresca d'oro ai Mondiali di Shanghai. ''La Serbia - il primo commento, ai microfoni RaiSport, - ha individualità eccezionali. Noi li abbiamo battuti con l'atipicità del nostro gioco e l'unione tra di noi. E' stata la vittoria del gruppo. Con la compattezza, gli italiani sono unici al mondo''. Un elogio particolare al portiere Tempesti, che ha parato due rigori alla Serbia: ''E' stato eccezionale, e non solo per quei due penalty''.
50 stile libero: argento per Luca DottoPrima medaglia mondiale nel nuoto nella storia del Corpo Forestale, grazie all'argento di Luca Dotto a Shangai. "Sono molto felice tanto che non so cosa fare, vorrei urlare", ha dichiarato l'atleta dopo aver stabilito anche il nuovo record italiano sui 50m stile libero fermando il cronometro a 21"90.
 "Alla partenza ho perso una bracciata - sottolinea - me ne sono accorto e ho cercato di metterci una toppa, poi ho visto che ero sempre più vicino al brasiliano Cielo e ho pensato che stavo andando forte. L'argento davvero non me l'aspettavo - continua - finché non ho visto scritto il mio nome sul tabellone, in una gara poi che non preparo e che, generalmente, faccio solo nella prospettiva dei 100 metri. Sono felice, dedico questo incredibile risultato ai miei genitori e alla mia ragazza Rossella, spadista della Forestale, oltre che a tutti i miei amici e al gruppo sportivo che, insieme al club civile della Larus, mi ha sostenuto".

venerdì 29 luglio 2011

Amato il politico mai amato

venerdì 29 luglio 2011 Buon Compleanno Eccellenza.

venerdì 29 luglio 2011

Buon Compleanno Eccellenza.

Italia 29.07.2011 - Come ogni anno mi permetto di disturbarLa in occasione del Suo compleanno. Voglia accettare i miei più cari auguri. Le scrivo anche per ringraziarLa di cuore per ciò che ha fatto per l'Italia e per noi Italiani: Le strade, le Bonifiche, l'INAIL, gli aiuti alle famiglie disagiate, le case popolari, La riforma della scuola, l'assegno familiare, la guerra alla mafia e alla massoneria, la carta del lavoro, la refezione scolastica, le scuole professionali...e tante, tante cose! Grazie Eccellenza, grazie!!! Però, Eccellenza, devo darLe delle brutte notizie; da quando Lei e i valorosi uomini che fecero grande l'Italia, avete lasciato il potere, tante cose sono cambiate... Ora gli extracomunitari comandano in Italia, I Sindacati sono diventati partiti politici e non tutelano più i lavoratori, abbiamo l'emergenza case, il tasso di disoccupazione è ad un livello altissimo, le Banche sono diventate usurai legalizzati, le violenze a donne e bambini sono ormai un reato "lieve", gli anziani vengono malmenati regolarmente in ospedale e nelle case di cura, gli asili nido sono gestiti da donne violente, gli Etero Sessuali sono discriminati, la famiglia è allo sfascio, i personaggi dei Reality sono più importanti dei personaggi che hanno fatto la storia, le corna e scappatelle tra veline e i calciatori fanno più notizia di un omicidio, la Mafia la fa da padrona,... e ancora: abbiamo al Governo gestito da cocainomani, ignoranti, mafiosi, trans, puttanieri, pederasti, secessionisti anti-patriottici, massoni, infami, traditori e stronzi! Era questo il progetto di "grande Italia" che avevate immaginato? E la Socializzazione di cui parlavate? Era questo il destino che Lei sognava per noi e i nostri figli?no, non credo assolutamente! E allora Eccellenza, perchè? Perchè è successo tutto questo? Perchè la nostra 2povera Italia è stata ridotta in queste condizioni? di chi è la colpa? E' la punizione che meritiamo per aver tradito? Mi scusi Eccellenza per lo sfogo, Lei non centra nulla, anzi! Ma è a Lei che mi rivolgo per avere risposte, perchè di Lei mi fido, e di Lei solo, come si fidò mio nonno che mai la tradì! Eccellenza, la prego di rispondermi! Io piango scrivendoLe, piango! Per me i miei figli, per gli Italiani...perchè ho paura! paura di un futuro buio ed incerto, paura di un Italia non più Italiana, paura di non avere più la forza di lottare! Come sarebbe bello, Eccellenza, rivederLa da quel balcone, come sarebbe bello risentire i suoi discorsi e gridare tutti insieme:" W l'Italia, W Benito Mussolini"!!! E urlare al Suo passaggio: "W il Duce! A NOI!"; Eccellenza vedrò mai la "grande Italia" di cui Lei parlò? Mi scuso ancora per averLe rubato tempo prezioso e sopratutto scusi questo stupido uomo che crede ancora che è possibile riprendere la strada che Lei ci indicò, i miei son sogni, ma nessuno può levarmeli, son miei e basta! Rinnovo i miei auguri porgendole distinti saluti. Suo devoto...Valerio Arenare.

giovedì 28 luglio 2011

Fine del bavaglio, il Giornale torna su Facebook Grazie a tutti i lettori che ci hanno sostenuto

Ieri la pagina su Facebook del nostro quotidiano è rimasta bloccata per buona parte della giornata, impedendoci e impedendovi di condividere i nostri articoli. Grazie alle vostre segnalazioni oggi siamo di nuovo presenti sul social networ

Milano - Grazie all'impegno dei lettori e alla solerzia dello staff diFacebook il nostro quotidiano, dopo una giornata di black out, è tornato a essere presente sul social network. Sono state fondamentali le vostre segnalazioni con le quali avete permesso di poter pubblicare e condividere i nostri contenuti. Una bella prova di libertà e partecipazione.

Grazie per aver risposto al nostro appello

http://www.ilgiornale.it/interni/fine_bavaglio_giornale_torna_facebook_grazie_tutti_lettori_che_ci_hanno_sostenuto/28-07-2011/articolo-id=537320-page=0-comments=1

Piazza Duomo, i mendicanti chiedono la carità in arabo

Fatima, 12 anni, e la mamma Hadida ieri erano sedute sotto i portici di Corso Vittorio Emanuele. Chador, scritta in arabo. Carità, mia madre deve essere operata alla pancia. Donne, mendicanti, musulmane del Kosovo. Il padre di Fatima è morto in guerra; vivono a Romolo in una capanna lungo la ferrovia. Il cartello è in arabo perché la bimba sa scrivere solo così e spera nel cuore delle molte signore col chador a passeggio per Milano in acquisti di lusso. Ma per Maometto le femmine possono mendicare? Fatima non lo sa. Sotto il velo, il coraggio delle donne è universale.

Dossier Penati,lo scandalo del PD

dossier penatiDossier Penati, tutto quello che c’è da sapere sullo scandalo che sconvolge il Partito Democratico: è questo il titolo di un pdf esclusivo che ci ha inviato un nostro lettore, Giuseppe, e che mettiamo a disposizione di tutti. È un ottimo lavoro, ed è utilissimo per capire come è nato, cosa è, e che strade potrebbe prendere lo scandalo che ha investito Penati e il Partito Democratico.







DOSSIER PENATI

mercoledì 27 luglio 2011

Il portavoce dell'Ana: "Indegno stare coi No Tav col cappello degli alpini"

di Matthias Pfaender

Dopo la denuncia del "Giornale", interviene l’associazione nazionale: "Chi in Val di Susa ha sfruttato i simboli del nostro corpo ne risponderà"

«Scene come quella dell’altra mattina a Susa, con dimostranti che issano la bandiera “No Tav” sul mo­numento ai caduti, là dove deve es­serci il solo tricolore, fanno rabbrivi­dire. E nessun vero alpino vuole ave­re a che fare con gli autori di gesti si­mili ».

Cesare Lavizzari, consigliere e portavoce dell’Associazione na­zionale alpini ( Ana). Eppure mol­te delle penne nere che domenica scorsa hanno partecipato ai cor­tei in Val di Susa rivendicano il lo­ro diritto a portare il cappello quando vogliono e a partecipare a manifestazioni come quelle dei «No Tav» in qualità di alpini.
«Intendiamoci: chiunque abbia servito nelle truppe alpine, in servi­zio di leva o come volontario, ha dirit­to di indossare il cappello. Ma essere un alpino non si riduce a portare un copricapo. Per noi essere alpino vuol dire molto altro. È una questione di spirito, di animo, di rispetto».

Quindi?
«Quindi nessun vero iscritto al­l’Ana, e tra i manifestanti in Val di Su­sa ce n’erano pochissimi, meno di dieci, porterebbe mai, per rispetto al corpo e ai commilitoni, il cappello a un evento simile, consapevole che per forza di cose trascinerebbe tutti gli alpini in una polemica assurda».

C’è chi dice che la vera assurdità sia stata portare 150 militari del­la Taurinense a Chiomonte per presidiare il cantiere. Si è parlato di tradimento, li hanno chiamati «mercenari», «forze di occupa­zione».
«Un attacco ai nostri ragazzi inac­cettabile. Ma stiamo scherzando? Un reparto in armi non può far altro che obbedire e fare ciò che è stato co­mandato. Un rifiuto a un ordine, quello sì che sarebbe un attentato al­la democrazia. Fermo restando che personalmente ritengo sia stato po­co saggio mandare proprio gli alpini in Val di Susa».

Perché?

«Beh, era ben prevedibile che in un territorio montuoso, abitato da moltissimi ex appartenenti al corpo, si sarebbe creato questo tipo di ten­sione. C’è da dire comunque che se le manifestazioni fossero pacifiche non ci sarebbe il bisogno di inviare al­cun soldato a presidiare i lavori».

Ma qual è la posizione ufficiale dell’Ana in tutta questa vicenda?
«Assolutamente nessuna. Non en­triamo nel merito e non diamo indi­cazioni di alcun tipo ai nostri iscritti, che possono manifestare, sempre pa­cificamente e in modo decoroso, il lo­ro sostegno a qualsiasi causa. Solo ri­badiamo che in queste occasioni non possono indossare il cappello con la penna nera».

Eppure c’è chi l’ha fatto .
«E sarà chiamato a risponderne».

A cosa vanno incontro?

«Dipende. Ogni caso è a sé, e sarà esaminato singolarmente. Comun­que, le sanzioni dell’associazione vanno dalla semplice censura al­l’espulsione ».

Alpini che insultano alpini, prov­vedimenti disciplinari, polemi­che. Siamo di fronte alla rottura dello spirito di unità del corpo?

«Assolutamente no,tutt’altro,pen­so che episodi come questi ci com­pattino ancor di più. Il portale dell’as­sociazione e la nostra pagina Face­book stanno ricevendo moltissimi messaggi sia da parte di commilitoni che semplici cittadini. Esprimono so­lidarietà a noi e ai ragazzi schierati a difesa del cantiere e sdegno per la vi­sione delle penne nere tra i fumoge­ni.