giovedì 16 dicembre 2010

Quando Brancaleone eravamo noi..



Luigi G. de Anna
La morte di Mario Monicelli ci ha profondamente rattristato. L’uomo che aveva lanciato la “commedia all’italiana” ci ha lasciato compiendo un gesto tragico. In realtà, in una delle ultime interviste, aveva dichiarato di sperare di poter morire senza dover soffrire e senza una lunga attesa. Era il concetto espresso da Brancaleone da Norcia nel film Brancaleone alle crociate, quando la Morte, che parla con il marcato accento toscano (e Monicelli era toscano), si presenta al Cavaliere e gli dice «preparati a morire». «Lo come? sull’istante?» chiede contrariato Brancaleone «E che t’aspetta? Io ci sono, te ci sei. Ti fo’ scegliere. Un coccolone? Peste improvvisa? Ovvero un fulminante sciogliersi del corpo?». E qui Brancaleone risponde con grande nobiltà: «Ah, le misere proposte! Brancaleone da Norcia debbe avere gloriosa morte, con l’arme in pugno et per causa giusta. Questo mi spetta. Son cavaliere».
Dunque non a caso, nella stessa intervista, Monicelli, alla domanda quale dei suoi film gli fosse più caro, aveva ammesso che era proprio Brancaleone, e questo era il personaggio cui più si sentiva vicino. L’Armata Brancaleone, uscito nel 1966, divenne subito un mito, tanto che l’espressione “armata Brancaleone” è entrata da tempo nel linguaggio comune. Spesso, parlando di questo glorioso eroe di un medioevo tra il reale e il fantastico, ci dimentichiamo che il primo film ebbe un seguito, appunto Brancaleone alle crociate uscito giusto quaranta anni fa. Quaranta anni nella storia del cinema sono molti, ma a rivederlo, questo Brancaleone conserva tutta la sua freschezza e la sua bellezza. Rispetto al primo, è più “denso”, più “filosofico”, intercalato com’è dai dialoghi dell’eroe con se stesso, o con la luna, o con la Morte. Sono dialoghi in cui ritroviamo, oltre ad Age e Scarpelli che collaborarono alla sceneggiatura, proprio il Mario Monicelli più profondo e sentito.
Del ciclo brancaleonesco si apprezza, oltre alla storia, ricca di comicità come di tragicità picaresca, la geniale invenzione linguistica. È un italiano ancora in formazione, che sbanda dal latino («lo malo caballo Aquilante») perfino inventato (il «cribbius» più volte pronunciato dal cavaliere) ai dialettismi (come dice il veneziano Panigotto «Cognosséu voaltri le tette de donna? Quele ciotolone grande, qua sul davante, co’ uno bigolo in punta»), agli arcaismi («dinci chi tu sie») alle macedonie cui in seguito ci abituerà il Salvatore del Nome della rosa («fecimo pena tempo ci buttar cum tutta la crapa», detto dal capraio Rozzone). Ma non sono che alcuni esempi tratti dal saggio di Giuliano Pirotti, La lingua di Brancaleone: il gioco e la finzione pubblicato come introduzione alla sceneggiatura uscita nel 1989. Libretto utilissimo per seguire la vicenda del secondo Brancaleone, il quale, unico superstite della primigenia Armata, continua ad accompagnare il monaco Zenone verso la Terrasanta.
Il senso di un medioevo reale viene colto proprio nell’apertura, quando i pellegrini attraversano un lago credendolo il mare che li separa dalla Palestina. È, appunto, l’orizzonte geografico di un mondo che non dispone di carte geografiche, ma che vede nella città santa l’onfalos mundi e come tale la rappresenta. Devo però subito dire che noi amici fiorentini che ci precipitammo a fare di Brancaleone il “nostro” eroe eponimo, pur appassionati di medioevo, lo interpretammo senza esitazione in chiave moderna. Quell’armata eravamo noi, sopravvissuti all’emigrazione politica nell’ambito di una destra che nel sessantotto aveva perso una sua identità e ne stava cercando una nuova. Questi penitenti che si avviavano verso nuove conquiste erano «sanza armatura / sanza paura /sanza calzari / sanza dinari soli con deo», una solitudine che avvertimmo quasi come una liberazione dopo aver lasciato il Msi per entrare in una nuova organizzazione, la Giovane Europa di Jean Thiriart. Lui, il nostro Brancaleone? Per molti versi sì. Perché quando venne a Firenze per incontrarci viaggiava su uno sgangherato pulmino, in compagnia di francesi, belgi e inglesi. Credemmo che tutto potesse essere cambiato alla fine dei quei fatidici anni sessanta, e come il monaco Zenone non dubitavamo che «Dispariranno piaghe e palloni [le ernie] , riavrà la vista lo cieco, tornerà vergine l’adultera e liscio lo cornuto».
La palingenesi dell’umanità corrispondeva a quella della società. Sapevamo che «longo è il cammino ma grande la speme». Fummo vittime di qualche illusione: «Già terra Santa a le viste? Tanto veloci fummo?», ma in realtà era solo uno scalo provvisorio. Thiriart aveva cercato in Italia quanto invocò Brancaleone sbarcato sulla sperduta costa africana «a me una pattuglia ardita!» e certamente la trovò, peccato che sia restata, appunto, una pattuglia, anche se a noi appariva come un’Armata. Il nuovo terreno politico che avevamo trovato non era facile, lontani come eravamo da una destra tradizionale e non entrati per nostra volontà in una sinistra da terra promessa. Infatti giustamente Rozzone aveva detto di quella terra dove erano sbarcati “macara fusse santa, frate meo! Ista è terra maladitta! Tutta sasse e zeppaglie, ci cresce solo erba strulla”. Rozzone è uno degli “armati” che Brancaleone ha l’abitudine di raccogliere per via. Presto incontrerà Thorz l’alemanno, la cui fedeltà purtroppo è assai vacillante, vagando da un potente all’altro secondo la convenienza, ma sempre fedele a «über alles, grosse lealtà alemanna». Infatti al termine dell’avventura, quando i Mori vincitori faranno strage dei cristiani, facendosi Infedele passerà al più conveniente nuovo alleato. Chi resterà fedele avrà invece il suo premio, se non in questa vita, nell’altra, come Brancaleone disse nel primo film ad Abacucco giudio e nel secondo al nano Cippa morente.
Ma il discorso del Capo è pieno di promesse: «Miei reduci! Vi veggo assai malconci e strapazzati, ma per ciò istesso temprati ad ogni evento». E questo basta a rincuorare gli indecisi che stanno per compiere il grande passo. Lungo il cammino, l’Armata si può imbattere anche in personaggi femminili. C’è una bella e bionda gentildonna, che si finge lebbrosa. Il suo percorso che l’ha portata lontano dalla natia Francia è stato però irto di pericoli, perché «durante lo voiage jò perdù ma servitude e ma vertù per causa dei predoni bergamasch». Questi predoni fanno lega con altri che le fanno patire «nouvelli oltraggi» da «Turin a Bologne, Naple, Avellin e Battipaille». Le contrade sono piene di streghe e ad esse bisogna fare attenzione e, come recita la filastrocca dei villici che portano al rogo la streghetta «mala striga fitentona /figlia introcchia, la Maronna all’inferno ti sprofonne».
L’altro giorno gli studenti che protestavano contro il ddl Gelmini si sono fermati a cantare: «Branca / Branca / Branca / Leon / Leon / Leon...». Del resto, quello di Brancaleone sembra essere un messaggio politico molto attuale: «L’ignoranzia è matre d’ogni intolleranza! L’Anno Mille passo e, semo omini moderni». Bisogna insomma rinnovare il messaggio politico anche nelle contrade italiche. Certo, l’eroe deve resistere alla propaganda, ma saggio è il Capo: «Non odo fiabe dall’età di bimbo. Fui subito omo». Il disincantato condottiero diventerà ancor più conscio dei mali del suo tempo quando si troverà di fronte all’albero degli impiccati, summa summarum delle ingiustizie e dei pregiudizi. Si appalesa così la sua compassione per i “diversi”. I componenti dell’Armata saranno consolati da uno degli impiccati che dice loro: «Viandanti siate lieti! Lo mondo non sarà per sempre intollerante». «Non vi saranno né schiavi né padroni» conclude il misero. Il viaggio fisico e simbolico del Nostro continua e quando incontra un contadino che non gli vende fave perché soldi Brancaleone non ne ha, il cavaliere commenta: «Contrade ostili. Non avrete una fava». Anche noi amici fiorentini incontrammo contrade ostili. Oggi quelle contrade vengono attraversate da altri coraggiosi crociati della politica. Riusciranno, loro, a raggiungere la Gerusalemme splendente di luce? Ce lo auguriamo di cuore.
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