di Nicola Porro
La situazione media di un lavoratore italiano è quella di sfacchinare i primi sei mesi dell’anno per lo Stato e poi per se stesso. Circa metà del reddito che produce se ne va infatti in tasse. Grazie alla manovra Monti, che si somma a quelle estive del governo Berlusconi, la libertà degli italiani si restringe ora ancora di più.
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Dal punto di vista strettamente politico, si può dire che la nostra libertà sia vigilata. Non spetta a noi decidere come impiegare il frutto del nostro lavoro.
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Da un punto di vista individuale ed economico, la riduzione del reddito liberamente disponibile da parte dei cittadini agisce sul meccanismo degli incentivi. Chiunque lavori e percepisca un reddito mette in relazione il sacrificio del proprio tempo libero con il riconoscimento economico. Perché lavorare di più o meglio, quando il frutto del proprio lavoro non viene riconosciuto? Anzi, al contrario, più si lavora e più si paga pegno.
Per rendere la società più giusta ed equa, potrebbe rispondere un illuminato pianificatore. Sì, certo. Resta il fatto che è difficile trovare un italiano che creda alla barzelletta di una burocrazia statale in grado di spendere bene la grande massa di quattrini che arriva dai privati. Ridurre l’incentivo a lavorare (e a intraprendere) è il modo migliore per fare appassire una società dinamica. Il drammatico fenomeno degli imprenditori che si uccidono testimonia come tra le pretese dello Stato e le ragioni della propria azienda e dipendenti, l’imprenditore in difficoltà non sia più in grado di fare una scelta. Se non quella di scomparire.
Da un punto di vista sociale, un’economia di finto mercato come la nostra è il massimo dell’ingiustizia. Si finge di vivere in un mondo competitivo, ma i riconoscimenti non sono basati sul merito della competizione. Ci spieghiamo meglio. Poiché gran parte del lavoro dei cittadini alimenta la macchina statale, è quest’ultima a gestire gran parte delle risorse prodotte. Il criterio con cui le redistribuisce (dopo averne trattenuta una buona fetta per fare i propri affari) è inevitabilmente politico e relazionale. Vince chi spiega meglio le proprie ragioni, chi è organizzato in maniera più efficiente per fare lobby, chi è in grado di interdire il regolare funzionamento del vivere civile, e non chi se lo merita maggiormente. La parola equità vuol dire assolutamente nulla. Gli economisti e i filosofi sono duecento anni che cercano di definirla inutilmente. L’equità risponde solo ad una arbitraria scelta politica. E la cosa è tanto più ingiusta quanto maggiore è la fetta di risorse che un Paese alloca per fini equitativi. Il massimo dell’ingiustizia e dell’equità sarebbe quella di prelevare tutto a tutti e redistribuirlo secondo criteri appunto di «equità».
Insomma una follia
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