sabato 7 gennaio 2012

Roma 07.01.1978 - Acca Larentia

"... Forse è destino che gli uomini di coraggio muoiano, uccisi dai vili. Ricordate i vili e ricordate i coraggiosi. E quando siete felici e godete della libertà che i coraggiosi vi hanno regalato, abbiate un pensiero per coloro che sono passati come passa una carezza nel vento ..."
Roma 07.01.1978 - Acca Larentia, era il nome della madre adottiva di Romolo e Remo, l’antenata più antica della città di Roma. Era il nome di una via, incastonata dentro il reticolo di strade che si intrecciavano nel cuore del quartiere Appio Latino, chiuse fra le due arterie, via Tuscolana e la via Appia. Acca Larentia era il nome di una strada, ma anche di una sezione del Movimento Sociale Italiano aperta intorno alla metà degli anni settanta. Uno stanzone chiuso da una vecchia saracinesca che si affacciava su una piazzetta rettangolare di nemmeno trecento metri quadri. Su uno dei lati lunghi vi era la sezione, sull’altro una cancellata. A sinistra vi era una scalinata che saliva qualche metro per colmare il dislivello con via delle Cave, a destra il confine con il marciapiede della strada delimitato da una serie di piloncini di marmo. Una sezione di estrema periferia ben lontana dall’immagine borghese, capitalista e arrogante che la stampa cercava di additare. Una destra autentica e radicata nei problemi del tessuto sociale, una destra capace di proporre un modello di economia basato sul lavoro e sulla partecipazione sociale. Da giorni i militanti del Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano, erano impegnati a organizzare un nuovo evento, il primo Campo Hobbit, previsto per sabato 11 e domenica 12 giugno presso il campo sportivo di Montesarchio, un piccolo paese in provincia di Benevento. Il primo festival di musica, grafica e spettacolo dell’estrema destra, dal nome di un popolo mitico inventato dallo scrittore inglese di fantascienza Joseph Tolkien. Erano circa le diciotto e ventitre di sabato 7 gennaio del 1978, le feste si prolungavano lente, le bancarelle di Piazza Navona, il freddo asciutto, qualche zampognaro che suonava ancora sui pianerottoli per i bambini, le mille luci della festa, alberi di Natale sui balconi, addobbi tra le insegne dei negozi, quando cinque ragazzi uscirono per ultimi dalla sezione di Acca Larentia per iniziare il volantinaggio e pubblicizzare il concerto di musica alternativa di un gruppo nato proprio a Montesarchio, “Gli amici del vento”. Dovevano raggiungere gli altri camerati a Piazza Risorgimento. Francesco Ciavatta, Franco Bigonzetti, Vincenzo Segneri, Maurizio Lupini e Giuseppe D'Audino iniziarono a chiudere la sezione. I primi tre erano sulla porta, spalle alla strada, quando comparve un commando formato da sei uomini a volto coperto e armi in pugno. L’inferno. Vincenzo Segneri fu colpito al braccio ma riuscì a buttarsi dentro, spingere l’amico e chiudere il battente della porta blindata. Nella sezione calò il buio. All’esterno si sentivano solo le imprecazioni degli aggressori, rammaricati che la loro battuta di caccia non era andata come prevista. Poi il silenzio. Qualcuno era rimasto fuori e quando riaccesero la luce da sotto la soglia della porta entrava un lago di sangue che si allargava lentamente. Era il sangue di Franco Bigonzetti colpito al torace e al volto. Il corpo, senza vita, giaceva proprio davanti alla sezione. Francesco Ciavatta, invece, ferito gravemente al torace, cercò di fuggire attraversando la scalinata, ma fu subito raggiunto dagli aggressori e colpito nuovamente alla schiena. Ancora lucido riuscì a sussurrare alcune frasi prima di perdere conoscenza tra le braccia dei camerati. Morirà in ambulanza durante il trasporto in ospedale. Il commando era munito di pistole a canna corta calibro nove, revolver calibro trentotto e la terrificante mitraglietta Skorpion. Un’arma micidiale capace di sparare venti colpi in pochi secondi e riutilizzata anni dopo per commettere altri omicidi. Gli assassini, probabilmente, dopo l’azione, riuscirono a disperdersi e a confondersi nel flusso di persone che usciva dal cinema “Trianon” poco distante. L’autopsia stabilì che a uccidere Franco Bigonzetti furono due proiettili, uno, centrando la regione ipocondrica destra e l’emitorace sinistro, altro, invece, perforando l’alveolo oculare sinistro per uscire dalla regione auricolare destra. Francesco Ciavatta, per i tre proiettili alla cavità toracica, uno dei quali spaccandogli il cuore. La famiglia Bigonzetti abitava a Torpignattara, uno dei quartieri più rossi e popolari della Capitale. Il padre lavorava alla Stefer come impiegato, era iscritto alla Cgil e aveva idee di sinistra. Franco Bigonzetti, venti anni, era iscritto al primo anno di università presso la facoltà di Medicina e Chirurgia, faceva mille lavoretti per non gravare sulla famiglia, una persona disponibile, affabile, allegro, spiritoso, esuberante e benvoluta da tutti. Frequentava la palestra di judo e da un anno frequentava assiduamente la sezione del Fronte della Gioventù di Acca Larentia. La famiglia Ciavatta, invece, proveniva da un’estrazione popolare, lavoravano entrambi come portieri in uno stabile in via Deruta, e Francesco, diciotto anni, unico figlio, frequentava il quarto anno al Liceo e si era iscritto al Fronte della Gioventù per la passione nell’organizzare qualsiasi attività politica. Dopo la morte di Francesco Ciavatta, Patrizia Walton, dirigente del Movimento Sociale Italiano, fu incaricata di seguire la famiglia Ciavatta. Dopo alcuni mesi la situazione era preoccupante. Nel suo rapporto a Giorgio Almirante, spiegava che il padre, Mario, aveva accusato malissimo il colpo. Chiuso in un preoccupante stato di mutismo: taciturno, silenzioso, un uomo spezzato dal dolore. Mentre la moglie, Angiolina Mariano, piangeva, si disperava ma riusciva ad esternare tutte le sue emozioni. Dopo pochissimi giorni, il padre di Francesco Ciavatta si suicidò bevendo, fino all’ultima goccia, acido muriatico contenuto in una bottiglietta. Fu ritrovato cadavere nei giardinetti pubblici senza labbra. La strage ad Acca Larentia, però, ancora non era terminata. Quando si diffuse la notizia dell’attentato, decine e decine di attivisti missini romani, provenienti dalle altre sezioni, giunsero sul luogo. Tra loro anche un giovane, Stefano Recchioni, diciannove anni. Sulla piazzola davanti alla sezione alcuni camerati adagiarono, accanto alla macchia di sangue di Franco Bigonzetti, un drappo nero con la fiamma del Movimento Sociale Italiano. Altri si raccolsero vicino alla pozza di sangue che si trovava vicino alle scalette dove era caduto Francesco Ciavatta. Qualcuno cercò di improvvisare una veglia, altri gridavano slogan, altri ancora fronteggiavano Polizia e Carabinieri. La tensione era al massimo. La situazione, precipitò nel giro di pochi minuti, quando un operatore del Tg1 gettò, con disprezzo, una cicca di sigaretta nella pozza di sangue di Francesco Ciavatta. A quel punto le forze dell’ordine reagirono per salvare gli inviati della Rai dal linciaggio. Un fitto lancio di lacrimogeni i Carabinieri iniziarono a sparare per aria. Il Capitano dell’Arma, Eduardo Sivori, impugnò la sua pistola di ordinanza ad altezza d’uomo e tentò di sparare. Ma fortunatamente l’arma si inceppò. Allora iniziò il momento di follia. Il Capitano si fece prestare la pistola dal suo attendente e sparò sulla folla. Un ragazzo cadde a terra colpito da una pallottola proprio in mezzo alla fronte. Il suo nome era Stefano Recchioni, militante del Fronte della Gioventù della sezione di Colle Oppio. Trasportato d’urgenza presso l’ospedale San Giovanni, morì dopo due giorni di agonia, il 9 gennaio del 1978. Era già in coma profondo da quarantotto ore, encefalogramma piatto, nessuna speranza. Stefano Recchioni era un ragazzo sicuro di se. Alto, bello, il taglio degli occhi affilato, capelli biondi e sorriso spavaldo. Suonava bene il pianoforte e la chitarra, infatti, era membro di un gruppo di musica alternativa “Janus”. Frequentava assiduamente la sezione di Colle Oppio, spesso, insieme alla fidanzata, Iolanda, dipingevano manifesti con il pennello e insieme li affiggevano per il quartiere. Fino all’ultimo i genitori di Stefano Recchioni sperarono in un probabile espianti di organi, ma il colpo ricevuto li aveva resi inutili. Per giorni i ragazzi missini ritornarono sul piazzale, per giorni la polizia non osò nemmeno avvicinarsi. La lunga veglia di Acca Larentia finì per tutti solo due settimane dopo, con l’arrivo delle prime piogge dell’anno. Solo quando il sangue fu lavato via. La rivendicazione dell’eccidio arrivò alcuni giorni dopo tramite una cassetta audio fatta ritrovare accanto ad una pompa di benzina. La voce contraffatta di un giovane annunciava l’azione ad opera dei “Nuclei Armati di Contropotere Territoriale”. Per quasi dieci anni le indagini da parte della Magistratura romana non portarono a nessuna conclusione. Solo nel 1988 si appurò che la mitraglietta Skorpion fu usata nelle azioni delle Brigate Rosse per gli omicidi dell’economista Ezio Tarantelli, dell’ex sindaco di Firenze Lando Conti e del Senatore Roberto Ruffilli. Grazie ad alcune confessioni di pentiti, furono accusati, per la strage di Acca Larentia, ex militanti di Lotta Continua. Mario Scrocca, Fulvio Turrini, Cesare Cavallari, Francesco De Martiis e Daniela Dolce. Quest’ultima riuscì a fuggire all’estero, rimanendo latitante, mentre Scrocca fu arrestato e interrogato dai giudici. Il giorno dopo fu ritrovato suicida nella sua cella. Gli altri tre imputati, arrestati, furono assolti in primo grado per insufficienza di prove. Per la morte di Stefano Recchioni, invece, fu negato in prima istanza ogni risarcimento. Addirittura, le autorità giudiziarie considerarono il ragazzo missino un attentatore con l’accusa di tentato omicidio. L’ufficiale dei Carabinieri, Sivori, di conseguenza, fu considerato parte lesa. Il 10 marzo del 1989, il giudice istruttore ipotizzò un’ennesima versione. A sparare in quel pomeriggio di gennaio non fu il Capitano Sivori, ma sconosciuti. Il procedimento giudiziario fu archiviato per “morte del reo”. Solo grazie alla testardaggine del fratello di Iolanda, il giovane avvocato Francesco Tallarico, la famiglia Recchioni, riuscì a presentare ricorso per ottenere lo status di vittima. Il Ministero respinse l’istanza, mentre il Tar accorse la richiesta elargendo un risarcimento di duecento milioni nel 1997, diciannove anni dopo. I soldi non furono mai incassati dai coniugi Recchioni. Fu l’avvocato Tallarico a spenderli per una tomba monumentale al Verano di Roma dedicata alla giovane vittima. La madre di Francesco Ciavatta, dopo la morte del figlio e del marito, lasciò Roma per ritornare nel suo paese di origine, a Montavano, in provincia di Campobasso, Francesco fu sepolto nel cimitero comunale. Ogni anno, il 7 gennaio, come da tradizione, si tiene una fiaccolata in onore delle vittime della strage di Acca Larentia. Parte da Piazza San Giovanni, attraversa la via Tuscolana fino ad arrivare al luogo della sparatoria. Oltre i tre ragazzi si onora la memoria dei militanti di destra caduti sul selciato negli anni di piombo. Non sono bastati trentaquattro anni per trovare un solo colpevole.

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