Era stato condannato a 22 anni. Però il marchio di omicida non gli ha mai precluso lavori e onori
di Mario Cervi
Adriano Sofri
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Di questo, sia chiaro, mi rallegro. Il carcere è sempre motivo di inquietudine, lo è particolarmente quando per tutta una serie di processi viene affacciata e sostenuta la teoria dell’errore giudiziario. Comunque il marchio d’omicida non è stato d’impaccio per Adriano Sofri. Ha collaborato assiduamente a un quotidiano dell’importanza di Repubblica; e la sorte ha voluto che, pagato il suo debito con la legge, se ne sia subito andato all’isola del Giglio, e di là abbia inviato un reportage sul naufragio della Costa Concordia. Un vero scoop in gergo giornalistico. Nell’occasione Sofri s’è dimostrato disposto a scrivere non a colloquiare. Ha congedato i giornalisti che volevano porgli domande con un «Come sto? Sto a modo mio ma non parlo. Magari tornate tra qualche giorno, ma solo per offrirvi un caffè, mi spiace».
Comprensibile la sua riservatezza, ma prevedo che lascerà presto il posto a una ancor più intensa attività pubblicistica. E al riemergere di mai veramente sopiti motivi di polemica. Un colpevole che ha espiato la sua pena non deve essere soggetto a discriminazioni, il passato è passato. Abbiamo visto del resto con quale rapidità e abilità si siano riaffacciati alla ribalta, redenti e contenti, alcuni truci protagonisti degli anni di piombo. Ma la loro situazione presenta una differenza fondamentale in confronto alla situazione di Sofri. Loro sono stati riconosciuti colpevoli - da tutti i mezzi d’informazione indicati come tali - e colpevoli si riconoscono.
Sofri si proclama estraneo al crimine che avrebbe compiuto, secondo la sentenza definitiva di condanna, insieme con Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi, e Salvatore Marino. Le rivendicazioni d’innocenza sono quasi una regola, nell’universo giudiziario. Ma per Adriano Sofri quella rivendicazione è fatta propria da uno schieramento trasversale che include buona parte della sinistra e anche, per citare un nome, Giuliano Ferrara. Per tanti, direi per troppi, il Sofri che si toglie di dosso gli ultimi lacci penali non è un omicida da recuperare alla società: perché proprio la società è colpevole delle sue sofferenze. Fin dal primo momento non c’è stato nessuno più recuperato di lui, sui quotidiani e in televisione. Ha acquisito una invidiabile caratura culturale. Per i suoi estimatori è un povero Fornaretto dei tempi moderni.
L’insistenza e l’arroganza con cui questa tesi è stata ed è declamata mi sembrano eccessive. Lo sembrano soprattutto se vengono da chi grida che le sentenze devono essere rispettate e che la Procura di Milano - cui spettò inizialmente di indagare e incriminare - rappresenta di solito, ma non per Sofri, un insuperabile modello di struttura giudiziaria. Non che siano mancati, in questo groviglio processuale, elementi inquietanti a cominciare dalla tardività della incriminazione, venuta 16 anni dopo l’assassinio del commissario. Negli anni della P 38 i valori umani e morali subirono una sorta di collasso sanguinario, di sicuro il Sofri di oggi non ispira né apprensione né avversione. Il non aver mai chiesto la grazia - invocata invece da Bompressi e concessa, Pietrostefani ha asilo in Francia - attesta in lui una fierezza e coerenza straordinarie.
La cupa stagione del terrorismo è remota, il terrore attuale viene dallo spread. Sarei tentato di augurare a Sofri che si goda questo momento, ma non lo faccio perché è superfluo. Sta già godendo da tempo.
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