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martedì 23 ottobre 2012

El Alamein, la battaglia che gli italiani sono fieri di aver perso


Il 23 ottobre del 1942 le truppe degli alleati attaccarono le forze dell’Asse Le sconfissero, ma le nostre divisioni Ariete e Folgore entrarono nel mito

Ricordo ancora che nel 1985 Storia Illustrata usci con allegato alla copertina un dono per i lettori: un sacchettino di sabbia di El Alamein. Mi affascinò pensare a quale immensa buca era stata scavata nel deserto per portare in Italia quella sabbia. Ma ancora di più era suggestivo considerare quale culto ci fosse, dopo 43 anni, per quella battaglia, peraltro perduta.
È un culto che sopravvive, oggi, che di anni ne sono passati 70, e i superstiti si contano forse sul caricatore di una pistola. L'importanza di quello scontro, tanto più epico perché avvenuto per giorni e giorni, nel deserto, non basta a spiegare tanta emozione.
Fino all'autunno del 1942 le forze dell'Asse sembravano avere ancora il predominio militare. Fra settembre e novembre, però, inizia la battaglia di Stalingrado, che segna la fine dell'avanzata italo-tedesca in Russia; in ottobre la battaglia di El Alamein, nel deserto egiziano, ferma l'avanzata dell'Asse verso il Canale di Suez. In novembre, con l'accerchiamento di von Paulus a Stalingrado e la ritirata di Rommel a El Alamein, quella che doveva essere una morsa per conquistare il Medio Oriente e i suoi pozzi di petrolio diventa lo spasimo di due moncherini. Ed è inutile chiedersi cosa sarebbe accaduto “se” Rommel avesse vinto: sarebbe stata una guerra diversa, ma avrebbe portato lo stesso alla vittoria finale degli Alleati, perché fu una vittoria soprattutto di mezzi. Tuttavia gli italiani non lo potevano sapere. Il Nord Africa era lo scenario di guerra che li appassionava di più, per ragioni geografiche, storiche, sentimentali. Ma quello libico-egiziano era il fronte che procurava più dolori, oltre ai più gioiosi entusiasmi. Appena iniziata la guerra, il 28 giugno 1940, il maresciallo Italo Balbo era stato abbattuto per errore dalla contraerea italiana. Il suo successore, maresciallo Rodolfo Graziani, non si era distinto per intraprendenza e il 19 gennaio 1941 Mussolini dovette chiedere aiuto a Hitler. Nei mesi successivi sbarcò sulla costa libica l'Afrikakorps del generale Erwin Rommel. L'offensiva continuò nel gennaio 1942 finché, in maggio, le truppe italo-tedesche arrivarono ad El Alamein, a circa 100 chilometri da Alessandria d'Egitto. La campagna sembrava vinta, e il successo rese più sopportabile agli italiani le loro pesanti condizioni di vita.
Figurarsi con quale passione e sgomento seguirono le sorti dello scontro finale quando, dopo mesi di inattività italo-tedesca, furono gli inglesi a prendere l'iniziativa. Il generale Harold Alexander, comandante delle truppe inglesi in Egitto e Medio Oriente, affidò l'attacco al generale Bernard Montgomery, che aveva a disposizione tre divisioni corazzate e l'equivalente di sette divisioni di fanteria. Benché per numero le truppe dell'Asse potessero contrastarle, gli inglesi disponevano di una netta superiorità aerea, di nuovi cannoni anticarro e dei nuovi carri armati Sherman. La sera del 23 ottobre '42, nel silenzio della luna piena, quasi mille pezzi di artiglieria inglese spararono contemporaneamente per circa venti minuti. Alla fine del 24 l'offensiva aveva aperto profonde sacche nello schieramento italo-tedesco, ma non era riuscita ad aprire una vera breccia. Nelle prime ore del 25, Montgomery ordinò un nuovo attacco prima dell'alba, ma dovette affrontare violenti contrattacchi, in particolare della 15ª divisione corazzata tedesca e dell'Ariete. E Rommel? Non c'era. Alla fine di settembre era stato ricoverato in ospedale in Germania e sostituito dal generale Stumme che però era morto d'infarto ventiquattr'ore dopo l'inizio della battaglia. Hitler non esitò a chiedere a Rommel di riprendere il comando, ma era già tardi. Il 27 e il 28 ottobre la 15ª e la 21ª divisioni corazzate tedesche scatenarono una violenta offensiva, invano.
A questo punto fu deciso l'attacco finale, ovvero l'operazione Supercharge. L'operazione iniziò all'una antimeridiana del 2 novembre. Tutti i carri armati italo-tedeschi superstiti attaccarono il saliente britannico su due fronti, ma vennero respinti. Il 3 iniziava la ritirata, nonostante Hitler l'avesse assolutamente proibita. «Ma la decisione», commenta Winston Churchill nella sua Storia della Seconda Guerra Mondiale, «non era più nelle mani dei tedeschi».Churchill annota anche un comportamento tedesco che dopo El Alamein sarebbe diventato una prassi: «Rommel si trovava ormai in piena ritirata, ma vi erano mezzi di trasporto e carburante sufficienti soltanto per una parte delle sue truppe e i tedeschi... si arrogarono la precedenza nell'uso dei mezzi. Parecchie migliaia di uomini appartenenti alle sei divisioni italiane, furono così abbandonate nel deserto... senz'altra prospettiva che quella di essere circondati». Il campo di battaglia era disseminato surrealmente di cannoni e automezzi distrutti. L'aviazione inglese, superiore per tutta la battaglia, attaccava senza tregua e senza contrasto lunghe colonne di uomini in ritirata verso ovest. Per gli italiani era finito, ancora una volta, il sogno d'Africa. E al nemico si apriva la possibilità di invadere l'Europa dall'Italia, dalla Francia o dalla Grecia. Sarebbe toccato all'Italia. Dove, intanto, le notizie sempre più sconfortanti, invano occultate dalla propaganda, aggravavano le condizioni di vita del popolo.
Oggi chi si emoziona ancora a leggere della battaglia di el Alamein non è necessariamente nostalgico, né tantomeno fascista o folgorato da furore bellico. Alla memoria di un popolo, sconfitto in guerra, fa bene il ricordo di avere combattuto con onore, e di avere perso perché mancavano le armi, non il coraggio.

mercoledì 28 marzo 2012

“IN TRENO PER LA MEMORIA”: OLTRE 600 STUDENTI, GIOVANI LAVORATORI E PENSIONATI SI PREPARANO A PARTIRE PER AUSCHWITZ DAL BINARIO 21

GIUNTO ALLA SESTA EDIZIONE IL PROGETTO DI CGIL E CISL LOMBARDIA. 4MILA STUDENTI COINVOLTI DAL 2005 A OGGI

MERCOLEDI' 28 MARZO, ORE 14.15, STAZIONE CENTRALE DI MILANO

Milano, 15.3.2012. Mancano meno di due settimane alla partenza del "treno per Auschwitz 2012", promosso da Cgil e Cisl della Lombardia. Giunto alla sesta edizione, il nuovo viaggio per la memoria diretto al campo di sterminio polacco vedrà la partecipazione di 620 persone, tra studenti, insegnanti, giovani lavoratori e pensionati, provenienti da tutta la regione. Dal 2005 a oggi il progetto “In treno per la memoria” ha coinvolto più di 4000 studenti di quarta e quinta superiore. Quest'anno sono 21 le scuole partecipanti, 34 le classi, 35 i docenti e 325 gli studenti. Partecipano inoltre 42 studenti, 3 insegnanti e 5 sindacalisti francesi della zona di Lione. Contrariamente al passato, per l'edizione 2012 non è stato possibile fissare la partenza in concomitanza con il Giorno della memoria (27 gennaio) a causa dell'indisponibilità di Trenitalia a fornire i convogli charter. Il treno della memoria dei due sindacati lombardi partirà dunque dal binario 21 della stazione Centrale di Milano il prossimo 28 marzo.
“Il progetto ‘Un treno per Auschwitz’ è un’opportunità importante e significativa per creare un sistema di rete tra tutti i partecipanti che contribuisce a mantenere viva la consapevolezza di valori fondamentali come la libertà, la democrazia e la dignità umana – commenta Gigi Petteni, segretario generale Cisl Lombardia -. La visita ai campi di sterminio è solo una tappa del percorso di approfondimento che per tutto l'anno ha coinvolto gli studenti, anche attraverso momenti di formazione organizzati dal sindacato, perché i cittadini d'Europa non si sentano spettatori di una storia confezionata, ma attori di un destino condiviso che ha anche radici comuni nella tragica esperienza di Auschwitz”.
Il viaggio è stato preparato con iniziative e incontri nelle singole scuole e con assemblee cui hanno partecipato tutti gli studenti coinvolti e che hanno visto la presenza di testimoni, docenti, studiosi. Approfondimenti e incontri che proseguiranno anche durante le lunghe ore trascorse in treno con momenti di riflessione comune tra gli studenti e gli insegnanti.
“Sono ormai alcuni anni che l’iniziativa del “treno per Auschwitz” - ha dichiarato Nino Baseotto, segretario generale della Cgil Lombardia - offre un’occasione di incontro tra generazioni per mantenere viva la memoria dello sterminio del popolo ebraico e dell’eccidio, nei campi di concentramento nazisti, di milioni di persone, tra le quali migliaia di militanti antifascisti e di lavoratori che avevano partecipato agli scioperi insurrezionali. L’emozione che dà la visita al “campo” scuote le coscienze, spinge a chiedersi come l'orrore sia stato possibile, e come si possa impedirne il ripetersi. Con questa iniziativa, rivolta in modo particolare alle ragazze e ai ragazzi, il sindacato lombardo vuole tener viva la memoria del periodo più buio della storia d’Europa, come monito contro l’odio razziale, etnico e religioso, e contro la violenza, per costruire un futuro ed una cultura di pace”.
Il treno per Auschwitz partirà mercoledì 28 marzo 2012, alle ore 14.15, dal binario 21 della stazione centrale di Milano. L'esperienza per gli studenti prevede un programma di 5 giorni denso di appuntamenti e di visite: dalle città di Cracovia e Oswiecimin, fino ai campi di Auschwitz e Birkenau, dove il pomeriggio del 30 marzo si terrà la commemorazione davanti al monumento della Shoah. La mattina di sabato 31 è previsto un incontro di tutti i partecipanti, durante il quale tutte le classi presenteranno i lavori di ricerca e approfondimento realizzati durante l'anno. Oltre alle visite guidate, il viaggio sarà infatti l'occasione per confrontare e scambiarsi ricerche e testimonianze, visitare centri culturali e per assistere anche a spettacoli di musica dal vivo. La "Comunità di viaggio" farà il suo ritorno a Milano alle ore 14 di domenica 1° aprile.

lunedì 5 marzo 2012

Così Solgenitsyn si svegliò dall’incubo comunista

Un libro inedito a quattro anni dalla morte. In Ama la rivoluzione!, datato 1948, lo scrittore comincia il lungo percorso verso Arcipelago Gulag


«Sono infinitamente difficili tutti gli inizi, quando la semplice parola deve smuovere l’inerte macigno della materia. Ma non c’è altra strada se tutta la materia non è più tua, non è più nostra. Anche un grido può provocare una valanga in montagna».

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Da ragazzo leggevo e annotavo queste parole di Alexander Solgenitsyn, il dissidente venuto dall’Est.
Le ritrovai alcuni anni fa e pensai con commosso stupore al grido di Solgenitsyn e alla valanga che aveva creato. Dopo la sua denuncia, il mondo seppe dell’arcipelago gulag, poi fu eletto il Papa venuto dall’Est comunista, poi Gorbaciov avviò la perestrojka, poi cadde il Muro di Berlino e infine crollò il comunismo. Non dirò che quel grido abbia provocato quell’immenso terremoto; ma in principio fu la parola, la fragile, inerme parola di un dissidente russo che aveva vissuto e descritto sulla propria pelle quel calvario di orrore. Non solo lui, ma lui fu certamente il caso più clamoroso. Mi rincuorò pensare che le parole, le idee, la cultura, non sono inutili; a volte, muovono le montagne...
A quattro anni dalla sua morte esce ora da Jaca Book un libro inedito di Solgenitsyn, curato da Sergio Rapetti, Ama la rivoluzione!, che sarà presentato giovedì alla Biblioteca Ambrosiana a Milano dal figlio dello scrittore, Ignat. È un libro che annuncia il cammino di una lunga sofferenza: risale infatti al ’48 e Solgenitsyn, giovane capitano pluridecorato, è già detenuto da tre anni per aver criticato Stalin in una lettera a un amico mentre combatteva valorosamente contro i nemici della Russia. Ma non è stato ancora avviato al gulag; la sua testimonianza di allora è la fine di un sogno, ma non ancora il risveglio in un incubo. È la fine della palingenesi rivoluzionaria, il presagio d’inferno visto con gli occhi di un giovane idealista, Gleb Nerzin, alter ego dello scrittore; ma c’è ancora la freschezza di un giovane che continua a sperare nella vita, non sa che lo aspetta un percorso terribile da cui miracolosamente uscirà vivo. Il romanzo restò incompiuto. Poi, dopo gli anni del gulag, Solgenitsyn sarà riconosciuto nel mondo, consacrato nel 1970 dal Premio Nobel, amato in Russia, dove fece ritorno dopo una parentesi infelice nel «materialismo d’occidente», come egli disse, in America. Poi il ritorno alla gloriosa solitudine della natura, i suoi incontri con i potenti e con Putin, ricevuto un paio di volte nella sua dacia. Lui, la bandiera della Grande Madre Russia, spirituale e religiosa, figlio della tradizione e martire del comunismo che incontra un uomo di potere venuto dall’Apparato.
Ma gli ultimi anni della sua vita furono all’insegna di un diffuso e infastidito oblio, soprattutto in occidente. Per metà dovuto a chi voleva cancellare in Solgenitsyn le proprie trascorse passioni per il comunismo, e per metà dovuto a chi voleva rimuovere con Solgenitsyn la sua critica all’occidente sazio e disperato, spiritualmente non migliore dell’Unione Sovietica. A volte gli occidentalisti fanatici di oggi erano i comunisti fanatici di ieri, gli stessi, e Solgenitsyn era per loro due volte molesto e insopportabile, perché ricordava la loro duplice miseria e il loro viaggio da un materialismo all’altro, uno pauperistico, repressivo e messianico, l’altro opulento, permissivo e nichilista.
Oggi fioccano da noi gli elogi del moralismo in funzione antiberlusconiana; ma il moralismo di Solgenitsyn contro il degrado permissivo dell’occidente era considerato insopportabile sia dai progressisti sessantottini che dagli «edonisti reaganiani». E poi il suo spirito patriottico aveva alimentato i movimenti nazional-religiosi della Russia e dell’Est ex-sovietico; la vittima dei gulag rischiava di passare per un cattivo maestro. Eppure lo stesso Solgenitsyn non mancò di criticare il rinato imperialismo panrusso, la deriva fanatica del nazionalismo e prese le distanze dai movimenti sciovinisti e razzisti.
Solgenitsyn ha vissuto gli ultimi anni della sua vita in una prigione dorata, in un gulag ovattato, riverito dai potenti ma dimenticato dal mondo. La persecuzione dei gulag cedeva il posto all’oblio. Morte civile, questa volta, anziché repressione incivile. Assordante silenzio e imbalsamazione da vivo, per non sentire la sua voce. Fu monumentalizzato in vita per renderlo inoffensivo.
Ora la riemersione di un testo giovanile è un sasso lanciato nello stagno, sordo a ogni risveglio dell’anima, incupito dal dominio della tecnica e del mercato, più residui tossici del vecchio comunismo e del vecchio radicalismo giacobino.
Anni prima che morisse, Solgenitsyn era già morto nella coscienza del nostro tempo, e non solo dei russi volgari e danarosi, mafiosi e lenoni, che conosciamo in vacanza da noi; ma anche nella coscienza di quell’occidente che un tempo lo aveva inneggiato come icona dell’anticomunismo e della libertà. Penso anche ai nouveaux philosophes francesi, che lo usarono come un taxi per uscire dal radicalismo gauchiste di cui erano infatuati; ma poi, finita la corsa, lo abbandonarono quando Solgenitsyn pose il problema del vuoto spinto dei valori occidentali e riaprì il tema religioso, patriottico e popolare.
Ma la lezione di Solgenitsyn assume compiutezza proprio quando con lui si coglie il mondialismo come sintesi del materialismo occidentale, individualista, consumista e utilitarista e del materialismo sovietico, collettivista, pauperista e utopista. Certo, la sua resta una lettura apocalittica, che oppone il mondo a Dio e l’anima al denaro. Ma l’apocalissi di Solgenitsyn non nasce dall’odio e non predica odio, ma sorge dall’amore ferito per gli uomini, per il mondo reale, per Dio. La catastrofe suscita in lui un cuore pietoso. Fu uno dei più grandi e sofferti testimoni del Novecento e del suo male ereditato nel secolo presente: la perdita dell’anima.

lunedì 6 febbraio 2012

Dall’amore alla tragica fine Vite parallele di Eva e Clara

Nate nel febbraio del 1912, conquistarono Hitler e Mussolini nel ’32. Morirono accanto ai loro uomini a pochi giorni di distanza nel ’45: Braun e Petacci accomunate dalla stessa sorte
di -
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Cent’anni or sono nascevano due donne che non tanto furono fatali quanto vittime della fatalità. Votate entrambe a una fine terribile che avevano consapevolmente o inconsapevolmente inseguito, rimanendo accanto ai loro amanti. Le due donne sono Eva Braun, nata il 9 febbraio del 1912, e Claretta Petacci, nata il 28 febbraio.
Le loro vite furono segnate, a vent’anni, dal legame con uomini la cui volontà e le cui decisioni hanno inciso profondamente sulle vicende del mondo. Quando Eva tentò il suicidio per amore di Adolf Hitler, questi era soltanto avviato verso un ruolo prima d’onnipotenza e poi di rovina. In quello stesso 1932 Claretta, sposata giovanissima a un ufficiale che presto uscì di scena, incontrò per la prima volta sulla rotonda di Ostia Benito Mussolini, che era già il Duce e che sarebbe diventato il suo Ben. Né Hitler né Mussolini erano vecchi. Adolf aveva 23 anni più di Eva, Benito 29 più di Claretta, nessuno dei due aveva superato la cinquantina anche se nelle valutazioni dell’epoca un quarantenne era già passatello e un sessantenne decrepito.
Non è facile individuare e descrivere l’apporto che le due favorite hanno dato all’ascesa e alla caduta dei due dittatori. Per il misogino e quasi ascetico Hitler, la presenza di Eva Braun - con i suoi gai vestiti similtirolesi - era una concessione agli ideali maschi della razza eletta. Per il Duce, che nascondeva Claretta nell’appartamento Cybo di Palazzo Venezia, quella tresca era un classico del matrimonio all’italiana, con un sovrappiù di «sveltine» occasionali.
In realtà Mussolini - almeno il Mussolini di Villa Torlonia - non aveva una vita sociale. Stare con altri lo annoiava, tollerava a fatica che alcuni gerarchi - Italo Balbo in particolare - gli dessero del tu. Non si circondava d’amici. Se ne circondava invece Hiter (così come se ne circondava Stalin, brindando con qualcuno di cui subito dopo decideva la messa a morte). Dove si veda che la cordialità conviviale può essere feroce e la solitudine musona - alla Mussolini - piuttosto bonaria sul metro dei totalitarismi.
Né Benito né Adolf erano particolarmente generosi con le loro donne. Per entrambi il denaro non aveva interesse, possedevano - ciascuno - una grande nazione intera dai destini millenari, perché avrebbero dovuto occuparsi di miserie come la vile moneta? Semmai erano i familiari delle concubine - se vogliamo usare un termine desueto e in effetti improprio - che ricavavano vantaggi. Si malignò - Montanelli ne trasse un racconto straordinario - che Mario Missiroli, alto suggeritore non allineato del Messaggero in tempo fascista, avesse un giorno preso in mano la bozza d’un articolo medico e cominciato a inveire contro l’autore, secondo lui incapacissimo. Si bloccò solo quando seppe che l’autore, il professor Petacci, era il padre di quella figlia, e non si fece più vedere. Qualcuno, mandato a casa sua per vedere che fine avesse fatto lo trovò a letto. Tra le sue mani teneva la mano del Petacci padre e gli sussurrava: «professore solo lei poteva salvarmi».
Claretta ebbe la villa alla Camilluccia. Robetta. Le mantenute e abbandonate d’oggi, se sono di quel calibro, mettono da parte ben altro. I ménages pruriginosi se non peccaminosi lasciarono poi il posto alle tragedie, con i milioni di vittime d’una guerra atroce e di persecuzioni spietate. Anche le favorite persero la cornice smagliante in cui la loro esistenza era stata inserita e vennero avviate verso un’immeritata pena capitale. Claretta fu falciata il 28 aprile 1945 mentre stava accanto al suo Ben, lei sì irriducibile e indomabile.
Eva Braun si tolse la vita ingoiando una compressa di acido prussico nel bunker di Berlino dove furono incenerite, con demoniaca e nibelungica grandezza, le ambizioni e le abbiezioni d’uno degli esseri più terrificanti che hanno calcato il suolo del pianeta.
Non so fino a qual punto Eva e Claretta sarebbero state dichiarate incolpevoli davanti a tribunali umani. Di sicuro lo sono davanti al Tribunale della storia.
 

venerdì 27 gennaio 2012

GIORNO DELLA MEMORIA “La Storia, Gli Eventi, I Lager”

AuschwitzIl Giorno della Memoria è una ricorrenza introdotta con la Legge n. 211 del 20 luglio 2000 dal Parlamento italiano che ha in tal modo aderito alla proposta internazionale, istituendo per il 27 gennaio di ogni anno una giornata in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.

mercoledì 30 novembre 2011

Corneliu Zelea Codreanu.

Tancabesti 30.11.1938 - Nacque il 13 settembre del 1889 a Iasi, piccola città della Moldavia settentrionale romena, immensa in una natura aspra e severa, da padre di origine rutena e da madre di etnia tedesca. Cornelius Zelinski, poi con il nome di battaglia, Corneliu Zelea Codreanu, all’età di undici anni entrò in una scuola militare dove ricevette un’educazione rigida e severamente religiosa. Maturò fin dall’adolescenza grande interesse per la causa nazionale. Esagerato senso dell’onore, rispetto per la gerarchia, amore per la disciplina, nazionalismo esasperato e misticismo religioso. Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, anche la Romania fu scossa dalle lotte politiche tra nazionalisti di destra e comunisti. Corneliu Zelea Codreanu tentò di arruolarsi, pur non avendo ancora l’età consentita, aumentando a dismisura i sentimenti nazionalisti ai quali si aggiunsero, dopo la rivoluzione bolscevica, l’avversione all’Unione Sovietica e le comunità ebraiche della Moldavia. Si iscrisse all’Università presso la Facoltà di Giurisprudenza iniziando la carriera politica, che in quel periodo significava soprattutto scontri di piazza e azioni dimostrative. Frequentò prima, Alexandru Cuza, leader nazionalista, poi, fondò la “Guardia della Coscienza Nazionale”. Dopo alcuni studi effettuati come studente presso l’Università di Berlino e di Jena, ritornò in patria nel 1922, fondando con l’amico Cuza, la “Lega per la Difesa Cristiano – Nazionale”. Un’organizzazione molto più battagliera rispetto alla prima, basata soprattutto sulla lotta violenta contro il comunismo e gli ebrei, visti come i capi della sinistra in Romania. Infatti quando il Re, Ferdinando I, il 28 marzo del 1923, modificò la Costituzione consentendo agli ebrei di ottenere la cittadinanza romena, Corneliu Zelea Codreanu, progettò l’assassinio del politico Bratianu, fallito, poi, per un tradimento interno al gruppo. Nell’ottobre del 1923 fu arrestato e rinchiuso nel carcere di Bucarest. In quel periodo sviluppò l’idea di creare la “Legione dell’Arcargelo Michele”, organizzazione paramilitare, e autoproclamandosi “Capitano” sostenendo di aver avuto una visione mistica dell’Arcangelo Michele e la convinzione della rinascita della Romania solo dopo la scomparsa degli ebrei dal paese. Al termine del periodo di reclusione, riprese intensamente l’attività politica, accettando la candidatura nella città di Focsani, senza però ottenere risultati eclatanti. Corneliu Zelea Codreanu decise di dare una drastica reimpostazione all’azione di propaganda muovendosi per le zone rurali più profonde del paese, facendo leva sui principi del cristianesimo ortodosso e sui sentimenti nazionalisti di molti contadini. Con la morte del Re Ferdinando I, il debole governo di reggenza, la denuncia della corruzione diffusa tra i politici, e soprattutto la salita al trono dell’inetto Re Carol II, nel 1930, la popolarità di Corneliu Zelea Codreanu crebbe ulteriormente tanto da diventare un eroe popolare. Al contrario, i gruppi di potere, lo guardavano con ostilità e sospetto sempre maggiore. Il 20 giugno del 1930 nacque il braccio armato della legione ossia la “Guardia di Ferro”. L’obiettivo era quello di contrastare il bolscevismo che mirava i confini dello Stato, e il capitalismo degli ebrei che controllavano la vita economica e politica del paese. Corneliu Zelea Codreanu sosteneva che bolscevismo e capitalismo erano due facce della stessa medaglia e che la rivoluzione spirituale era ancora più importante e necessaria di quella sociale per la creazione di un uomo nuovo in grado di edificare una grande Romania libera e sovrana. I legionari si impegnarono per migliorare le condizioni di vita dei contadini e degli operai, costruendo dighe, avviando raccolte di fondi, iniziando battaglie pacifiche ma anche violente. Il primo giugno del 1931 il movimento del Capitano Codreanu partecipò per la prima volta alle elezioni politiche raccogliendo soltanto poco più di quarantatremila voti e non riuscendo ad eleggere nessun deputato al Parlamento. Alle elezioni parziali, nel distretto di Neamt, invece, riuscì a farsi eleggere deputato. Nel marzo del 1932 il governo di Carol II sciolse la Guardia di Ferro, ma Corneliu Zelea Codreanu e i suoi legionari si presentarono alle elezione dell’estate dello stesso anno cogliendo il primo significativo successo elettorale e riuscendo a portare in Parlamento cinque deputati. Nonostante l’entrata in Parlamento, il Capitano Codreanu non modificò gli atteggiamenti politici della Guardia di Ferro che continuarono azioni di violenza contro gli oppositori. Il Re Carol II comprese che il movimento di Corneliu Zelea Codreanu poteva rappresentare una pericolosa alternativa al suo potere. Il 10 dicembre del 1933 il governo del Primo Ministro Duca, grazie ad una nuova Costituzione, sciolse per la seconda volta l’organizzazione paramilitare, arrestando e perseguitando miglia di legionari in tutta la Romania e costringendo Corneliu Zelea Codreanu ad agire in clandestinità. In quel periodo, il Capitano Codreanu comprese la necessità di affiancare alle Guardie di Ferro, un partito nazionalista legalizzato in grado di presentarsi alle elezioni. Tra il 1934 e il 1937 Corneliu Zelea Codreanu, impressionato dalla crescita di nuovi aderenti e dalla presa di potere della Germania nazista, tentò di accelerare la trasformazione del movimento. Il primo passo fu la creazione del partito denominato “Tutto per la Patria” dove la presidenza venne affidata all’ex Generale Gheorghe Cantacuzino. Il processo di legalizzazione si sviluppò con un maggior collegamento con il fascismo italiano e il nazismo tedesco. I fondi provenienti dall’Italia e dalla Germania, furono la carte vincente per l’elezioni che si tennero il 20 dicembre del 1937. Infatti il partito di Corneliu Zelea Codreanu ottenne il sedici per cento dei consensi e sessantasei seggi al Parlamento. Il governo fu costituito tra il partito “Nazional Cristiano”, dell’amico Alexandru Cuza, e il partito “Nazionale Contadino” di Octavian Goga. Il nuovo governo operò, in politica estera, un riavvicinamento alla Germania e all’Italia, varando una politica antisemita togliendo la nazionalità romena a quasi duecentomila ebrei. Ma il governo Goga rimase in carica per soli quarantaquattro giorni, presentando le dimissione il 10 febbraio del 1938 al Re Carol II che incaricò di formare il nuovo governo al Patriarca Miron Cristea. Dopo due giorni, con un colpo di stato, il Re Carol II istituì una dittatura reale annullando la Costituzione, sopprimendo i partiti e creando un partito unico il “Fronte della Rinascita Nazionale”. L’obiettivo era di avvicinarsi alla Francia e alla Gran Bretagna temendo che l’Ungheria, entrata nell’orbita delle potenze fasciste, poteva chiedere ed ottenere la Transilvania. Il 17 aprile del 1938, Corneliu Zelea Codreanu fu arrestato e dopo un processo sommario, condannato ad un lunghissimo periodo di detenzione con l’accusa di aver tradito la Patria in favore di potenze straniere. La repressione del movimento trovò il suo apice nel novembre dello stesso anno, quando Corneliu Zelea Codreanu, insieme ad altri tredici legionari, furono trasferiti in un nuovo penitenziario e durante il tragitto furono strangolati contemporaneamente da altrettante guardie carcerarie. I corpi furono sfigurati con sostanze acide e poi occultati in una fossa comune in aperta campagna. La versione ufficiale, diramata dalle forze governative, fu di tentata fuga collettiva messa in atto durante il trasferimento, ma le ricostruzioni successive e varie testimonianza, tra cui alcuni secondini, fu di strage premeditata. Intanto la guida della Guardia di Ferro fu affidata al nuovo leader Horia Sima, un uomo certamente poco carismatico rispetto al Capitano Codreanu, ma capace di governare brevemente il paese insieme al Generale Antonescu dal 6 settembre del 1940 al 23 gennaio del 1941. In quel periodo, Horia Sima, non fu in grado di trasformare il movimento in un partito di governo. Lo stesso Generale Antonescu, stanco ormai delle violenze interne al paese causate dalla Guardia di Ferro, decise di sciogliere e sgominare definitivamente il movimento. Molti rappresentati furono costretti a fuggire in esilio e dopo la caduta del regime di Ceausescu, fu proibita la ricostituzione dalla Costituzione romena.

venerdì 21 ottobre 2011

BUTTAFUOCO FA FUOCO: “ONORE E ARMI IN PUGNO. COME SANNO MORIRE I NOSTRI NEMICI, NESSUNO”

BUTTAFUOCO FA FUOCO: “ONORE E ARMI IN PUGNO. COME SANNO MORIRE I NOSTRI NEMICI, NESSUNO”
ven, ott 21, 2011Politica



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Pietrangelo Buttafuoco per “il Foglio“
Foto di Buttafuoco
il corpo di gheddafi nell’ospedale di Sirte
Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Come ha saputo morire il rais, armi in pugno, lo sapevano fare solo i nostri. Come a Bir el Gobi quando con onore, dignità e coraggio sorridevano alla morte. Fosse pure per fecondare l’Africa. Sarà tutto tempo perso, dunque, sporcarne gli ultimi istanti, gravarne di dettagli i resoconti e anche quel disumano reportage sul volto fatto strame – tra sangue e calcinacci – non potrà spegnere il crepitare della mitraglia. Perché come ha saputo morire Muammar Gheddafi – così ridicolo, così pacchiano e così a noi ostile – come ha saputo farsi trovare, straziato come un Ettore, solo il più remoto degli eroi dimenticato nell’Ade l’ha saputo fare.
Gheddafi ultimi istanti
Come i nostri eroi. Come nel nostro Ade. Proprio come seppe morire Saddam Hussein che se ne restò sprezzante sul patibolo. Come neppure la più algida delle principesse di Francia davanti alla ghigliottina. Incravattato di dura corda al collo, l’uomo di Tikrit, degnò qualche ghigno al boia, si prese il tempo di deglutire il gelo della forca per poi gridare la sua preghiera: “Allah ‘u Akbar”. E fu dunque fatto morto. E, subito dopo, impudicamente fotografato. Come nel peggiore degli Ade. Per quel morire che non conosciamo più perché gli stessi che fino a ieri stavano a fianco del rais, dunque Sarkozy, Cameron, lo stesso Berlusconi, tutto potranno avere dalla vita fuorché un ferro con cui fare fuoco.
La nostra unica arma è, purtroppo, il doppio gioco. I nemici di oggi sono i nostri amici di ieri – amico fu Gheddafi, ancor più amico fu Saddam Hussein – e quando li portiamo alla sbarra, facendone degli imputati, dobbiamo scrivere la loro sentenza di morte con l’inchiostro della menzogna perché è impossibile reggere il ghigno dei nemici. Perché – si sa – i nemici che sanno come morire, poi la sanno sempre troppo lunga su tutto il resto del Grande gioco. Ed è un lusso impossibile quello di stare ad ascoltarli in un’udienza. Come sanno morire i nostri nemici, nessuno.
Gheddafi ultimi istanti
L’unica cruda verità della vita è la guerra e solo i nostri nemici sanno creparci dentro. E’ veramente padre e signore di tutte le cose, il conflitto, ma l’impostura è così forte in noi da essere riusciti a muovere guerra alla Libia dandola per procura, lavandocene le mani, mandando avanti gli altri perché a forza di non sapere morire con le armi in pugno, se c’è da sparare, preferiamo dare in appalto la sparatoria. Giusto come un espurgo pozzi neri da affidare a ditta specializzata. Come sanno morire i nostri nemici, nessuno.
Quando gli eserciti dello zar ebbero ragione del loro più irriducibile nemico, Shamil il Santo – l’imam dei Ceceni, il custode della prima Repubblica islamica nella storia – nel vederselo venire avanti, finalmente sconfitto, non lo legarono a nessun ceppo, a nessuna catena, piuttosto gli fecero gli onori militari per accompagnarlo in un lungo viaggio fino al Palazzo reale dove lo zar, restituendo a Shamil il proprio pugnale, lo accolse quale eroe e lo destinò all’esilio, a Medina, affinché tutta quella guerra, spaventevole, diventasse preghiera e romitaggio.
Gheddafi ultimi istanti
Come c’erano una volta i nemici, non ce ne saranno più. Ed è per la vergogna di non sapere morire come loro che scacazziamo sui loro cadaveri. Ne facciamo feticcio e se fosse cosa sincera la memoria di ciò che fu, invece che produrre comunicati stampa di trionfo, se solo fossimo in grado di metterci sugli attenti, invece che mettere la morte in mostra, dovremmo concedere loro l’onore delle armi, offrire loro un sudario. Sempre hanno saputo morire i nemici.
Gheddafi ultimi istanti
E tutti quei corpi, fatti poltiglia dalla macelleria della rappresaglia, nel film della nostra epoca diventano tutti uguali: Benito Mussolini, Che Guevara, Gesù Cristo, Salvatore Giuliano. E con loro, anche i nemici morti ma fatti assenti, tutti uguali: da Osama bin Laden a Rudolph Hess. Fatti fantasmi per dare enfasi al feticcio, come quel Gheddafi armato e disperato che nel suo combattere e urlare, simile a un selvaggio benedetto dal coraggio e dalla rabbiosa generosità, mette a nudo la nostra menzogna.
Gheddafi ultimi istanti
A ogni pozza di sangue corrisponde l’onta della nostra vergogna e un Pupo che parla a Radio Uno e annunzia “una notizia meravigliosa” e si rallegra di Muammar Gheddafi, morto assassinato, è solo uno che si trova a passare e molla un calcio al morto. Pupo è come quello che sabato scorso, dalle parti di San Giovanni, vede la Madonnina sfasciata appoggiata a un muro e non sapendo che fare le dà un’altra pestata, non si sa mai. Così come il black bloc, anche Pupo, è una comparsa chiamata a raccolta nella montante marea del nostro essere solo canaglie.
Gheddafi ultimi istanti
La signora Lorenza Lei, direttore generale della Rai, dovrebbe cacciarlo lontano dai microfoni della radio di stato uno così ma siccome il nostro vero brodo è la medietà maligna, figurarsi quanto può impressionare l’offesa al morto. Pupo, infatti, è l’eroe perfetto per il peggiore degli Inferi, l’Ade cui destinare quelli che non sanno darsi uno stile nel morire.

sabato 15 ottobre 2011

Dresda, dopo sette anni riapre il museo di storia militare


L'opera è costata 62 milioni di euro e ospita un grande «cuneo» di vetro e cemento dell'architetto americano Libeskind, l'autore della nascente Freedom tower di Ground Zero. Il ministro della Difesa tedesco: il museo ci aiuterà a riflettere sulla natura umana e sulla violenza

Un museo di storia militare per riflettere sulla guerra e sulla natura umana. Questo è l'obiettivo con cui riaprirà domani sabato 15 ottobre il museo di storia militare di Dresda, dopo sette anni di lavori e una spesa complessiva di cira 62 milioni di euro. In occasione dell'inaugurazione il ministro della difesa tedesco, Thomas de Maiziere, ha affermato che «i dubbi e le problematiche suscitate dalla legittimazione della forza militare sono profondamente attuali». De Maiziere ha sottolineato che lo scopo del museo è di stimolare i visitatori a riflettere sull'essere umano, sui motivi che lo spingono a usare la forza e sui modi con cui la violenza può essere tenuta sotto controllo. I visitatori saranno quindi invitati a riflettere sull'alto costo della guerra, e a chiedersi se mettere un freno all'uso della forza possa essere considerato eticamente accettabile per prevenire le violenze.
Nel museo sono anche esposti vecchi cimeli militari, fino alle armi usate nei conflitti contemporanei. In molti si sono chiesti se il museo sia adatto alle famiglie: le immagini che mostrano gli orrori della guerra potrebbero, secondo alcuni, impressionare i bambini.
E la spettacolare scultura di vetro e cemento piazzata nel museo è già stata ribattezzata «Libeskind's Wedge», il cuneo di Libeskind. Dal mome dell'architetto americano, padre della nascente Freedom Tower di Ground Zero, che l'ha usata per rendere spettacolare il museo rinnovato. I recensori angolsassoio definiscono, felicemente, «sharp», la singolare struttura, senza che nessuno dei sinonimi italiani (affilato, tagliente, aguzzo, ma anche forte e intenso, netto e nitido) riesca, da solo, a essere altrettanto mirato. Il cuneo seca le due parti del magnifico palazzo neoclassico edificato 135 anni fa, ai tempi del Kaiser Guglielmo I. Alto 30 metri, il cuneo offre una suggestiva terrazza panoramica. Il museo ospita come 10.500 pezzi di memoria e di vita militare.
Un motivo in più per visitare Dresda, città a 190 km a sud di Berlino e ricca di architettura barocca e neoclassica. Nonch´ città martire della Seconda guerra mondiale, soprattutto a causa del bombardamento aereo alleato del 13 e 14 febbraio del 1945: un'iniziativa senza motivazioni strategiche che provocò la morte di oltre 25mila persone e la distruzione di gran parte del centro storico. Gli stessi analisti militari inglesi e americani parlarono di «terrorismo aereo».

http://www.ilgiornale.it/

lunedì 10 ottobre 2011

La sinistra nostalgica ora celebra il Che anche dalle pagine di Repubblica


LA VERA STORIA SU ERNESTO CHE GUEVARA

Se quella che segue sia la vera storia su Ernesto Che Guevara possiamo anche avere dei dubbi, ma sicuramente questo personaggio non è sicuramente quello che tutti credono. Difatti a supporto della crudeltà del Che abbiamo la testimonianza di un un certo Felix Rodriguez che ha avuto modo di conoscerlo.
Purtroppo nelle manifestazioni pacifiste viene sfoggiato da persone che non conoscono la storia, le stesse persone che inneggiano al comunismo senza sapere che il comunismo ha fatto molti più morti del nazismo e del fascismo messi insieme. Basta andare a leggere "il libro nero del comunismo" per capire quanto i regimi sia di destra che di sinistra siano negativi.
E anche un eroe della rivoluzione e della libertà come Che Guevara non è quello che sembra.
Prendendo sempre il tutto con il beneficio del dubbio leggete quanto segue e dopo forse quando vedrete una maglietta o una bandiera con la faccia del Che vi verrà voglia di evitare quelle persone.




Ernesto "Che" Guevara: la verità rossa e la verità vera

La storia dovrebbe essere oggettiva, ma in realtà alcuni aspetti vengono da sempre distorti e adattati alle convinzioni ideologiche di chi li tratta. In un paese che si definisce antifascista (ma non evidentemente anticomunista...) certi aspetti "scomodi" del Comunismo sono da sempre ignorati. La Storia ne è piena: i massacri delle Foibe, i massacri dei 20.000 soldati italiani nei Gulag Sovietici su ordine di Togliatti, ecc...
La storia di Ernesto Guevara rappresenta forse il più grande falso storico mai verificatosi. Tutti conoscono la storia "ufficiale" del Che. Chi non ha mai sentito parlare del "poeta rivoluzionario?" Del "medico idealista"? Ma chi conosce le reali gesta di questo "eroe"?

Da tempo immemore il volto leonino di Ernesto “Che” Guevara compare su magliette e gadgets, in ossequio all’anticonsumismo rivoluzionario. La fortuna di quest’eroe della revoluçion comunista è dovuto a due coincidenze: 1) – “Gli eroi son sempre giovani e belli” (La locomotiva – F. Guccini); come ironizzò un dirigente del PCI nel ’69, se fosse morto a sessant’anni e fosse stato bruttarello di certo non avrebbe conquistato le benestanti masse occidentali di quei figli di papà “marxisti immaginari”. 2) – l’ignoranza degli estimatori di ieri e di oggi. Il “Che”, infatti, viene associato a tutto quanto fa spettacolo nel grande circo della sinistra: dal pacifismo antiamericano alle canzoni troglodite di Jovanotti «sogno un’unica chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa».

Meglio allora fare un po’ di chiarezza sulla realtà del personaggio: Ernesto Guevara De la Serna detto il “Che” nasce nel 1928 da una buona famiglia di Buenos Aires. Agli inizi degli anni 50 si laurea in medicina e intanto con la sua motocicletta gira in lungo e in largo l’America Latina. In Guatemala viene in contatto con il dittatore Jacobo Arbenz, un approfittatore filosovietico che mantiene la popolazione in condizioni di fame e miseria, ma che gira in Cadillac e abita in palazzotti coloniali. A causa dei forti interessi economici degli Usa in Guatemala, viene inviato un contingente mercenario comandato da Castillo Armas a rovesciare il dittatore. Il “Che”, anziché sacrificarsi a difesa del “compagno”, scappa e si rifugia nell’ambasciata argentina; di qui ripara in Messico dove, in una notte del 1955, incontra un giovane avvocato cubano in esilio che si prepara a rientrare a Cuba: Fidel Castro. Subito entrano in sintonia condividendo gli ideali, il culto dei “guerriglieri” e la volontà di espropriare il dittatore Batista del territorio cubano. Sbarcato clandestinamente a Cuba con Fidel, nel 1956 si autonomina comandante di una colonna di “barbudos” e si fa subito notare per la sua crudeltà e determinazione. Un ragazzo non ancora ventenne della sua unità combattente ruba un pezzo di pane ad un compagno. Senza processo, Guevara lo fa legare ad un palo e fucilare. Castro sfrutta al massimo i nuovi mezzi di comunicazione e, pur a capo di pochi e male armati miliziani, viene innalzato agli onori dei Tg e costruisce la sua fama.

Dopo due anni di scaramucce per le foreste cubane, nel ’58 l’unità del “Che” riporta la prima vittoria su Batista. A Santa Clara un treno carico d’armi viene intercettato e cinquanta soldati vengono fatti prigionieri. In seguito a ciò Battista fugge e lascia l’Avana sguarnita e senza ordini. Castro fa la sua entrata trionfale nella capitale accolto dalla popolazione festante. Una volta rovesciato il governo di Batista, il Che vorrebbe imporre da subito una rivoluzione comunista, ma finisce con lo scontrarsi con alcuni suoi compagni d'armi autenticamente democratici. Guevara viene nominato “procuratore” della prigione della Cabana ed è lui a decidere le domande di grazia.

Sotto il suo controllo, l’ufficio in cui esercita diventa teatro di torture e omicidi tra i più efferati. Secondo alcune stime, sarebbero stati uccise oltre 20.000 persone, per lo più ex compagni d’armi che si rifiutavano di obbedire e di piegare il capo ad una dittatura peggiore della precedente.

Nel 1960 il “pacifista” GUEVARA, istituisce un campo di concentramento ("campo di lavoro") sulla penisola di Guanaha, dove trovano la morte oltre 50.000 persone colpevoli di dissentire dal castrismo. Ma non sarà il solo lager, altri ne sorgono in rapida successione: a Santiago di Las Vegas viene istituito il campo Arca Iris, nel sud est dell’isola sorge il campo Nueva Vida, nella zona di Palos si istituisce il Campo Capitolo, un campo speciale per i bambini sotto i 10 anni. I dissidenti vengono arrestati insieme a tutta la famiglia. La maggior parte degli internati viene lasciata con indosso le sole mutande in celle luride, in attesa di tortura e probabile fucilazione.

Guevara viene quindi nominato Ministro dell’Industria e presidente del Banco Nacional, la Banca centrale di Cuba. Mentre si riempie la bocca di belle parole, Guevara sceglie di abitare in una grande e lussuosa casa colonica in un quartiere residenziale dell’Avana. E' facile chiedere al popolo di fare sacrifici quando lui per primo non li fa: pratica sport borghesissimi, ma la vita comoda e l’ozio ammorbidiscono il guerrigliero, che mette su qualche chilo e passa il tempo tra parties e gare di tiro a volo, non disdegnando la caccia grossa e la pesca d’altura. Per capire quali "buoni" sentimenti animassero questo simbolo con cui fregiare magliette e bandiere basta citare il suo testamento, nel quale elogia «l’odio che rende l’uomo una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere». Sono queste le parole di un idealista? Di un amico del popolo? Se si, quale popolo? Solo quello che era d'accordo con lui?

Guevara si dimostra una sciagura come ministro e come economista e, sostituito da Castro, viene da questi “giubilato” come ambasciatore della rivoluzione. Nella nuova veste di vessillifero del comunismo terzomondista lancia il motto «Creare due, tre, mille Vietnam!». Nel 1963 è in Algeria dove aiuta un suo amico ed allievo, lo sterminatore Desirè Kabila (attuale dittatore del Congo) a compiere massacri di civili inermi! Il suo continuo desiderio di diffusione della lotta armata e un tranello di Castro lo portano nel 1967 in Bolivia, dove si allea col Partito comunista boliviano ma non riceve alcun appoggio da parte della popolazione locale. Isolato e braccato, Ernesto De La Serna viene catturato dai miliziani locali e giustiziato il 9 ottobre 1967.

Il suo corpo esposto diviene un’icona qui da noi e le crude immagini dell’obitorio vengono paragonate alla “deposizione di Cristo”. Fra il sacro e il profano la celebre foto del “Che” ha accompagnato un paio di generazioni che hanno appeso il suo poster a fianco di quello di Marylin Monroe. Poiché la madre degli imbecilli è sempre incinta, ancora oggi sventola la bandiera con la sua effige e i ragazzini indossano la maglietta nel corso di manifestazioni “contro la guerra”. Come si fa a prendere come esempio una persona così? Possibile che ci siano migliaia di persone (probabilmente inconsapevoli della verità) che sfoggiano magliette con il suo volto? In quelle bandiere e magliette c'è una sola cosa corretta: il colore. Rosso, come il sangue che per colpa sua è stato sparso.

In un film di qualche anno fa Sfida a White Buffalo, il bianco chiede al pellerossa: «Vuoi sapere la verità rossa oppure la verità vera?». Lasciamo a Gianni Minà la verità rossa, noi preferiamo conoscere la verità vera.

Felix Ismael Rodriguez: «l’uomo che catturò Che Guevara» 

Verso la fine dell’estate del 1967, un agente della Central Intelligence Agency con base a Miami convocò sedici dissidenti cubani per selezionare un volontario da mandare in missione segreta in Sud America. L’obiettivo dell’operazione era un pezzo grosso: Ernesto «Che» Guevara de la Serna, all’epoca il leader rivoluzionario più famoso al mondo, nascosto con i suoi guerriglieri nella boscaglia boliviana. Vi era arrivato dopo aver lasciato Cuba e al termine di un lungo viaggio in Africa, deciso a riportare il verbo della rivoluzione in America Latina. Gli americani avevano bisogno di qualcuno che aiutasse l’esercito boliviano nella caccia all’uomo.
Al termine di ogni colloquio, ai candidati veniva posta una domanda chiave: «Se ti scegliessimo subito, quando saresti disposto a partire?». La maggior parte chiese qualche giorno di tempo. Poi toccò a un 26enne laureato in ingegneria: «Se mi lasciate tornare a casa, prendo le mie cose, saluto mia moglie, torno qui e andiamo. Se siamo di fretta datemi un telefono, così la avviso che devo partire. Se non c’è tempo nemmeno per questo, ecco il suo numero, chiamatela voi e inventatevi che sono dovuto andare via all’improvviso».
Impressionato dalla risposta, l’agente della Cia trascrisse il nome del candidato: Felix Ismael Rodriguez. Benché giovane, il cubano aveva già un curriculum di azioni sotto copertura. Rodriguez aveva svolto attività di intelligence nell’operazione che doveva anticipare l’invasione americana della Baia dei Porci.

Quasi settantenne, appesantito dagli anni e da un lungo esilio lontano da Cuba, questo ex della Cia - o «guerriero dell’ombra», come l’hanno soprannominato - non lascia trapelare emozioni. La sua voce, cavernosa e atona, velata ancora da un forte accento ispanico, snocciola con freddezza gli aneddoti di una vita tra oscure missioni segrete in un mondo diviso dalla Guerra Fredda. Rodriguez ha aiutato i governi di Venezuela, Bolivia, Perù ed El Salvador a combattere le guerriglie, volato più volte sopra la guerra del Vietnam e fatto da tramite per la vendita di armi ai Contras in Nicaragua. E’ amico personale di George Bush senior e di altri alti quadri di passati governi Usa. Oggi è presidente della Brigada 2506, che a Miami raccoglie i veterani della Baia dei Porci e altri esuli anti-Castro. Ma per la storia, rimarrà sempre «l’uomo che ha catturato Che Guevara».Ma a guidare Rodriguez alla cattura dei guerriglieri fu anche José Castillo Chavez, detto Paco.Eppure a dare la staffilata finale alla guerriglia fu un colpo di fortuna. Uno dei boliviani addestrati dalla Cia ottenne informazioni da un contadino, che aveva sentito voci non lontano da casa sua. Il 7 ottobre, la compagnia comandata da Gary Prado circondò l’area. «Era una domenica, mi trovavo nella zona di Valle Grande», ricorda Rodriguez. «Alle 10 di mattina arrivò il Maggiore Arnaldo Saucedo. “Mi capitan! - mi disse - abbiamo informazioni dal campo: papa cansado!” (papà è stanco), un termine in codice per indicare che il leader della guerriglia era ferito e catturato. La mattina seguente arrivai a La Higuera a bordo di un elicottero». Nel villaggio, Rodriguez trovò quello che restava della guerriglia boliviana: un gruppo di uomini feriti e stremati. Guevara era da solo in una stanza, seduto sotto la finestra, le mani legate dietro alla schiena, una gamba insanguinata. «Era la peggiore guerriglia che abbia mai visto», commenta il guerriero dell’ombra. «In un anno non erano riusciti a reclutare un solo contadino boliviano.Rodriguez ha sempre negato di aver voluto la morte di Guevara, sostenendo che in realtà gli americani lo preferissero vivo per interrogarlo. Ma mentre spulcia tra le carte e i diari del Che, il cubano riceve una chiamata. Una voce dall’altra parte del telefono ordina: «Capitano: 500-600». «Capii. 500 era il codice che indicava Che Guevara. 700 significava vivo. 600 morto. Passai l’ordine all’esercito, ma cercai di prendere tempo. Erano le 11 di mattina. Mi diedero tempo fino alle 2 del pomeriggio. Tornai da lui e scattammo la foto famosa che ci ritrae insieme. Nell’immagine lui appare imbronciato. Un attimo prima, però, rideva: gli avevo detto di guardare l’uccellino nell’obiettivo. Alle 12.30 la radio dette la notizia che Guevara era già morto. Tornai da lui. Gli dissi che avevo fatto del mio meglio, ma c’era un ordine dall’alto comando boliviano. Il Che diventò bianco come un pezzo di carta. Poi commentò che forse era meglio così». Guevara consegna a Rodriguez la sua pipa. L’uomo della Cia riesce anche a entrare in possesso del suo Rolex. Oggi li conserva in una cassaforte. Si abbracciano in segno di saluto. «Mi chiese di dire a sua moglie di risposarsi e di cercare di essere felice. Poi uscii. Ordinai ai soldati di sparare dal petto in giù, perché sembrasse morto in combattimento. Qualche minuto dopo, all’una e dieci, sentii il fragore degli spari».
Rodriguez rimane freddo, impassibile. Rimorsi? «No. E nessuno su Che Guevara. Era un assassino a sangue freddo. Faceva fucilare la gente per i motivi più futili. Ne ho sentite, di storie su di lui». Perché è diventato un mito? «È stata la propaganda castrista. Altrimenti Castro avrebbe dovuto ammettere di aver fallito con Che Guevara.


La vera storia di ernesto che guevara di babbo
http://fabryunitech.blogspot.com/2011/03/la-vera-storia-su-ernesto-che-guevara.html

venerdì 23 settembre 2011

Cern conferma: "Superata la velocità della luce" Sconfessata la teoria della relatività di Einstein?

Un risultato che rivoluzionerà l'attuale concezione dell'universo. Rompe infatti uno dei capisaldi della fisica contemporanea, quello dell'impossibilità di superare la velocità della luce, previsto dalla Teoria della Relatività Generale di Einstein. I neutrini sono più veloci della luce di circa 60 nanosecondi.SCHEDA: Cosa sono i neutrini

domenica 11 settembre 2011

11/9: la Rabbia e l’Orgoglio di Oriana Fallaci


Questo articolo è apparso sul quotidiano Il Corriere della Sera il 29 settembre 2001.

Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l’altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. «Vittoria! Vittoria!». Uomini, donne, bambini. Ammesso che chi fa una cosa simile possa essere definito uomo, donna, bambino. Ho saputo che alcune cicale di lusso, politici o cosiddetti politici, intellettuali o cosiddetti intellettuali, nonché altri individui che non meritano la qualifica di cittadini, si comportano sostanzialmente nello stesso modo. Dicono: «Bene. Agli americani gli sta bene». E sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d’una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso. (…)
Mi chiedi anche di raccontare come l’ho vissuta io, quest’Apocalisse. Di fornire insomma la mia testimonianza. Incomincerò dunque da quella. Ero a casa, la mia casa è nel centro di Manhattan, e alle nove in punto ho avuto la sensazione d’un pericolo che forse non mi avrebbe toccato ma che certo mi riguardava. (…) Ero a New York, perbacco, in un meraviglioso mattino di settembre, anno 2001. Ma la sensazione ha continuato a possedermi, inspiegabile, e allora ho fatto ciò che al mattino non faccio mai. Ho acceso la Tv. Bè, l’audio non funzionava. Lo schermo, sì. E su ogni canale vedevi una torre del World Trade Center che bruciava come un gigantesco fiammifero. Un corto circuito? Un piccolo aereo sbadato? Oppure un atto di terrorismo mirato? Quasi paralizzata son rimasta a fissarla e mentre la fissavo, mentre mi ponevo quelle tre domande, sullo schermo è apparso un aereo. Bianco, grosso. Un aereo di linea. Volava bassissimo. Volando bassissimo si dirigeva verso la seconda torre come un bombardiere che punta sull’obiettivo, si getta sull’obiettivo. Sicché ho capito. Ho capito anche perché nello stesso momento l’audio è tornato e ha trasmesso un coro di urla selvagge. Ripetute, selvagge. «God! Oh, God! Oh, God, God, God! Gooooooood! Dio! Oddio! Oddio! Dio, Dio, Dioooooooo!» E l’aereo s’è infilato nella seconda torre come un coltello che si infila dentro un panetto di burro.
Erano le 9 e un quarto, ora. E non chiedermi che cosa ho provato durante quei quindici minuti. Non lo so, non lo ricordo. Ero un pezzo di ghiaccio. Anche il mio cervello era ghiaccio. Non ricordo nemmeno se certe cose le ho viste sulla prima torre o sulla seconda. La gente che per non morire bruciata viva si buttava dalle finestre degli ottantesimi o novantesimi piani, ad esempio. Rompevano i vetri delle finestre, le scavalcavano, si buttavano giù come ci si butta da un aereo avendo addosso il paracadute, e venivano giù così lentamente. Agitando le gambe e le braccia, nuotando nell’aria. Sì, sembravano nuotare nell’aria. E non arrivavano mai. Verso i trentesimi piani, però, acceleravano. Si mettevano a gesticolar disperati, suppongo pentiti, quasi gridassero help-aiuto-help. E magari lo gridavano davvero. Infine cadevano a sasso e paf! Sai, io credevo d’aver visto tutto alle guerre. Dalle guerre mi ritenevo vaccinata, e in sostanza lo sono. Niente mi sorprende più. Neanche quando mi arrabbio, neanche quando mi sdegno. Però alle guerre io ho sempre visto la gente che muore ammazzata. Non l’ho mai vista la gente che muore ammazzandosi cioè buttandosi senza paracadute dalle finestre d’un ottantesimo o novantesimo o centesimo piano. Alle guerre, inoltre, ho sempre visto roba che scoppia. Che esplode a ventaglio. E ho sempre udito un gran fracasso. Quelle due torri, invece, non sono esplose. La prima è implosa, ha inghiottito se stessa. La seconda s’è fusa, s’è sciolta. Per il calore s’è sciolta proprio come un panetto di burro messo sul fuoco. E tutto è avvenuto, o m’è parso, in un silenzio di tomba. Possibile? C’era davvero, quel silenzio, o era dentro di me?(…)
Non lo conosceremo mai, il numero dei morti. (Quarantamila, quarantacinquemila…?). Gli americani non lo diranno mai. Per non sottolineare l’intensità di questa Apocalisse. Per non dar soddisfazione a Usama Bin Laden e incoraggiare altre Apocalissi.
E poi le due voragini che hanno assorbito le decine di migliaia di creature son troppo profonde. Al massimo gli operai dissottèrrano pezzettini di membra sparse. Un naso qui, un dito là. Oppure una specie di melma che sembra caffè macinato e invece è materia organica. Il residuo dei corpi che in un lampo si polverizzarono. Ieri il sindaco Giuliani ha mandato altri diecimila sacchi. Ma sono rimasti inutilizzati.

(di ORIANA FALLACI, La rabbia e l’orgoglio)