Nel 1995 la pubblicazione del saggio-intervista di Renzo De Felice intitolato Rosso e Nero riaprì improvvisamente, con grande clamore, un giallo storico che non era mai stato risolto: l’uccisione di Benito Mussolini e di Claretta Petacci il 28 aprile 1945. Nel corso del cinquantennio seguito a quei tragici avvenimenti, le versioni e le illazioni sui mandanti, sugli esecutori e sulle modalità stesse della “esecuzione” del Duce e della sua amante erano state molte, spesso discordanti e poco convincenti.
La versione ufficiale, diffusa già all’indomani dei fatti, era quella che indicava nel «colonnello Valerio», nome di battaglia di Walter Audisio, l’uomo che aveva materialmente “giustiziato” Mussolini. Peraltro, soltanto nel 1947, in un’intervista rilasciata al giornalista Vitantonio Napolitano, Audisio aveva dichiarato ufficialmente di essere il «colonnello Valerio» e, quindi, l’uomo che, a raffiche di mitra, aveva fatto «giustizia per tutti». In seguito l’autoaccusa di Audisio venne messa in discussione a causa di contraddizioni e incongruenze rilevate in diversi resoconti fatti dallo stesso Audisio in occasioni diverse, e si cominciò a pensare che quella versione, ufficializzata dal Partito comunista, dovesse servire di copertura. Si parlò di altri possibili esecutori materiali, a cominciare da Luigi Longo e da Aldo Lampredi, nome di battaglia «Guido». Emersero anche altre ipotesi, come quella di una “doppia fucilazione”.
De Felice, in verità, non affrontava dettagliatamente la questione, in quel suo libro-intervista, ma faceva una allusione precisa al fatto che l’uccisione di Mussolini non sarebbe stata soltanto una questione italiana decisa dai capi della Resistenza, cioè dal Cln, ma il risultato di una azione clandestina più complessa studiata, pianificata e portata avanti dai servizi segreti inglesi in collaborazione con esponenti della Resistenza locale. Anzi, disse di più. Parlò di uno scontro tra inglesi e americani. Sostenne che «gli americani volevano Mussolini vivo» perché «progettavano di portare anche il Duce alla sbarra, senza preoccuparsi di cosa avrebbe potuto dire», mentre «gli inglesi, che formalmente perseguivano gli stessi scopi degli americani, Mussolini a Norimberga non ce lo volevano proprio». E precisò che «fu molto facile per gli inglesi evitare che gli americani mettessero le mani sul Duce» perché «fecero tutto i partigiani».
L’affermazione era clamorosa e fece scalpore. Tuttavia, Renzo De Felice, morto improvvisamente, non poté portare a compimento la biografia mussoliniana e a scrivere, così, l’ultima pagina della vita del Duce. Il mistero rimase un mistero e il giallo rimase un giallo irrisolto. Adesso, a distanza di tanti anni, uno storico francese, Pierre Milza, in un volume dal titolo Gli ultimi giorni di Mussolini, in uscita il 21 aprile per i tipi di Longanesi, riprende la questione. Milza è uno specialista di storia italiana, autore di una biografia di Mussolini, che si muove lungo la linea interpretativa del grande lavoro biografico di De Felice col quale aveva intrattenuto un ventennale rapporto di amicizia. In questa biografia, egli aveva osservato che sarebbe stato opportuno lasciare a coloro che «fanno commercio degli enigmi della storia» la verifica dell’ipotesi della «pista inglese».
La versione ufficiale, diffusa già all’indomani dei fatti, era quella che indicava nel «colonnello Valerio», nome di battaglia di Walter Audisio, l’uomo che aveva materialmente “giustiziato” Mussolini. Peraltro, soltanto nel 1947, in un’intervista rilasciata al giornalista Vitantonio Napolitano, Audisio aveva dichiarato ufficialmente di essere il «colonnello Valerio» e, quindi, l’uomo che, a raffiche di mitra, aveva fatto «giustizia per tutti». In seguito l’autoaccusa di Audisio venne messa in discussione a causa di contraddizioni e incongruenze rilevate in diversi resoconti fatti dallo stesso Audisio in occasioni diverse, e si cominciò a pensare che quella versione, ufficializzata dal Partito comunista, dovesse servire di copertura. Si parlò di altri possibili esecutori materiali, a cominciare da Luigi Longo e da Aldo Lampredi, nome di battaglia «Guido». Emersero anche altre ipotesi, come quella di una “doppia fucilazione”.
De Felice, in verità, non affrontava dettagliatamente la questione, in quel suo libro-intervista, ma faceva una allusione precisa al fatto che l’uccisione di Mussolini non sarebbe stata soltanto una questione italiana decisa dai capi della Resistenza, cioè dal Cln, ma il risultato di una azione clandestina più complessa studiata, pianificata e portata avanti dai servizi segreti inglesi in collaborazione con esponenti della Resistenza locale. Anzi, disse di più. Parlò di uno scontro tra inglesi e americani. Sostenne che «gli americani volevano Mussolini vivo» perché «progettavano di portare anche il Duce alla sbarra, senza preoccuparsi di cosa avrebbe potuto dire», mentre «gli inglesi, che formalmente perseguivano gli stessi scopi degli americani, Mussolini a Norimberga non ce lo volevano proprio». E precisò che «fu molto facile per gli inglesi evitare che gli americani mettessero le mani sul Duce» perché «fecero tutto i partigiani».
L’affermazione era clamorosa e fece scalpore. Tuttavia, Renzo De Felice, morto improvvisamente, non poté portare a compimento la biografia mussoliniana e a scrivere, così, l’ultima pagina della vita del Duce. Il mistero rimase un mistero e il giallo rimase un giallo irrisolto. Adesso, a distanza di tanti anni, uno storico francese, Pierre Milza, in un volume dal titolo Gli ultimi giorni di Mussolini, in uscita il 21 aprile per i tipi di Longanesi, riprende la questione. Milza è uno specialista di storia italiana, autore di una biografia di Mussolini, che si muove lungo la linea interpretativa del grande lavoro biografico di De Felice col quale aveva intrattenuto un ventennale rapporto di amicizia. In questa biografia, egli aveva osservato che sarebbe stato opportuno lasciare a coloro che «fanno commercio degli enigmi della storia» la verifica dell’ipotesi della «pista inglese».
Il gusto della ricerca, però, e alcune pubblicazioni uscite nel frattempo hanno spinto Milza a riprendere il tema e, pur non producendo una documentazione inedita, a individuare e sistematizzare tutti gli aspetti oscuri che circondano la fine del Duce, i cosiddetti «misteri di Dongo», e a presentarli in un racconto appassionante. L’arresto di Mussolini, gli intrighi che ruotano attorno alla sorte da riservare al Duce, la “missione” del “colonnello Valerio”, il ruolo di Luigi Longo, la tesi della “doppia fucilazione”, l’ipotesi delle torture e della violenza inflitta a Claretta, le tracce del cosiddetto “tesoro di Dongo” sono tutti temi di un racconto che si sviluppa in una trama affascinante. Il punto centrale dell’analisi di Milza ruota però attorno alla “pista inglese” o, più esattamente, alla piccola guerra dei servizi segreti. Egli sostiene che, pur senza farne il nome, le allusioni di De Felice facevano riferimento alle rivelazioni, emerse un anno prima della pubblicazione di Rosso e Nero, di un ex partigiano, Bruno Lonati. Questi raccontò di aver fatto parte, insieme a un agente dell’Intelligence britannica con il nome di copertura di capitano John, di un commando incaricato di uccidere Mussolini e la Petacci e raccontò in dettaglio l’operazione. Lo storico francese, pur facendo appello alla prudenza, mostra, anche contro le liquidatorie affermazioni in contrario di alcuni storici inglesi, di ritenere che questa ipotesi non sia del tutto inverosimile e che, anzi, presenti elementi di sincerità. Il rammarico di Milza è che De Felice non abbia potuto concludere la sua ricerca. Ed è un giusto rammarico. Ma è anche vero che i materiali preparatori raccolti da De Felice per il suo libro qualche cosa, letti in controluce, raccontano...
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