Barack Hussein Obama dice che si candiderà alle elezioni presidenziali del 2012 e noi giù a farci servizi giornalistici con toni da breaking news. Perché, vi pare possibile che un presidente federale in carica dica al Paese: “Scusate, ho il mal di testa, non se ne fa più niente”, un presidente per di più come Obama? Va da sé, cioè, che un Obama in carica si ricandidi per il secondo round, anche se non ne avesse la voglia, anche se fosse stanco, anche se fosse sicuro di non farcela. Se non si ripresentasse alle elezioni, Obama condannerebbe infatti il proprio partito alla dannazione per sette generazioni. Chi sarebbe infatti disposto a credere più in chi dice in pubblico di non credere in se stesso?
Fa dunque ridere la solennità con cui Obama ha annunciato la propria candidatura (anche se la mossa è comprensibile sul piano propagandistico, il piano che si fonda su quel patto non scritto tra soggetto e oggetto della propaganda in base al quale l’oggetto, colui che la propaganda la riceve, noi, è disposto a una temporanea sospensione della propria dignità, accettando di farsi dare dello stupido per stare al “grande gioco”). Piangere fa invece il vedere come un mucchio di gente abbia accolto la non-notizia con euforia e “stupore” (le lacrime non sgorgano perché quella gente tifa Obama, ma perché fa la finta tonta). Incomprensibile, in ultimo, il motivo per cui certa stampa abbia strombazzato ai quattro venti l’ovvio.
La notizia vera, semmai, è la fretta (alcuni hanno scritto l’anticipazione sui tempi canonici) con cui Obama ha dato al mondo detta non-notizia, contribuendo con questo ‒ ma solo con questo – a travestirla da news. Come se a Obama scappasse la terra sotto i piedi, come se cercasse aria televisiva fresca, come se cercasse una scusa per riaffacciarsi sul proscenio pubblico.
La popolarità di Obama, infatti, è in costante calo ‒ nemmeno questa è una notizia ‒, il suo “mito” è appannato da tempo, ma soprattutto è l’opposizione Repubblicana a vivere il proprio momento magico. Qualcuno dice che in Obama vi sono segni di ripresa. Possibilissimo, anzi pure probabile; ma una rondine non fa primavera. Obama si è rivelato una delusione enorme per moltissimi cittadini, diversi suoi elettori compresi, e non da ora; per una moltitudine di americani si è dimostrato un uomo inadatto al ruolo assegnatogli. Giorno dopo giorno non fa alcunché ‒ rectius non riesce a fare alcunché ‒ per convincere il pubblico del contrario, e ogni e qualsiasi eventuale impennata dei suoi consensi è velocissima a smorzarsi. Va avanti così da due anni, nulla vieta di pensare che la situazione non cambi di qui all’inizio del novembre 2012 che ci separa dal prossimo presidente federale.
Certo, ci distanziano dalle presidenziali così tanti mesi che ogni pronostico sarebbe temerario. Noi che davamo Obama per sconfitto prima ancora che egli scendesse in campo nel tardo autunno 2009 ci siamo poi risvegliati un dì assolutamente scornati. Ma che il Partito Repubblicano le elezioni del 2012 possa solo perderle in prima persona, consegnandole cioè al detestato avversario, è un fatto incontrovertibile sin d’ora.
Ovviamente, anche questo è possibile. E lo sarà del resto sempre di più se i Repubblicani tarderanno a confluire su una candidatura univoca, unitaria, forte, spendibile. Faranno invece quasi sicuramente meno fatica, oramai, a racimolare i moltissimi denari necessari alle campagne elettorali statunitensi, e questa è già una buona notizia. Il buco abissale, per esempio, dei conti federali statunitensi, per colpa del quale alcuni servizi pubblici non essenziali rischiano la serrata, ma forse lo smagrimento persino quell’assistenzialismo costoso, inefficace e per le persone deresponsabilizzante che da sempre è la bandiera agitata demagogicamente dalle Sinistre “moderne”, fra i primi proprio da Obama, sta lavorando in favore dei Repubblicani, i quali, con la Commissione Bilancio della Camera presieduta da quel Paul Ryan del Wisconsin che già ebbe l’incarico ufficiale di fare le pulci in diretta tivù al discorso obamiano sullo Stato dell’Unione, hanno presentato l’unico serio piano di rientro, che però costerà la testa alla famosa riforma sanitaria. Dal canto proprio, il presidente Repubblicano della Camera, John Boehner, tiene la barra sulla linea dura, in accordo con le richieste dei “Tea Party” dentro e fuori il Congresso federale. Già lo si era notato che, dopo il 2 novembre, dentro la Camera federale di Washington sarebbe stata tutta una gara fra l’ala destra dei Repubblicani e la loro ala ancora più a destra…
Cosa resterà adesso ai Democratici per battere gli avversari? Il novembre 2012 è sì lontano, ma davvero le elezioni i Repubblicani possono solo perderla per colpa propria.
Marco Respinti è presidente del Columbia Institute e direttore del Centro Studi Russell Kirk.
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