Un errore di notifica. La Procura che sbaglia al momento di chiudere l’indagine. La corsa contro il tempo per non far scarcerare 12 elementi di spicco del clan Parisi. Succede a Bari dove la giustizia rimedia in extremis allo sbaglio e gli agenti di polizia fanno trapelare sulla rete la loro indignazione per l’incidente, l’ennesimo, sfiorato. «Se io faccio scadere i termini di consegna di atti che necessitano di convalida - scrive un poliziotto - anche se ho la scrivania piena di fascicoli, alla procura mi fanno un c...o come una scimmia. Ad uno, ad una di loro lo/la giustificano». È evidente che l’investigatore ce l’ha con i magistrati che se la cavano sempre. Una soluzione, una via d’uscita, un «salvacondotto» alla fine salva il magistrato superficiale, il magistrato distratto, il magistrato che ha combinato un disastro e magari ha sbagliato le procedure o ha fatto dormire per mesi un fascicolo delicatissimo.
Gli agenti che sbagliano pagano, le toghe, invece, no. Basta leggere le sentenze della Sezione disciplinare del Csm per trovare assoluzioni sconcertanti, quasi surreali, o pene leggerissime a fronte di comportamenti che altre categorie professionali giudicherebbero, probabilmente, con la massima durezza. Ma gli agenti, che vivono sul campo e rischiano quotidianamente la vita contro la criminalità, non hanno bisogno delle statistiche per sapere che quel che a loro non viene perdonato viene invece tollerato se l’errore è firmato da una toga. «Come ha detto qualcuno su queste pagine, - è lo sfogo di un altro ispettore - tu sei solo uno sbirro. Io aggiungo che loro sono il Potere che, come tale, si autotutela».
Càpita, purtroppo, ai quattro angoli del Paese, è successo più di una volta anche in Puglia, terra in cui la criminalità organizzata fa paura, terra della Sacra Corona Unita e di tante altre mafie. Questa volta l’allarme viene lanciato in tempo. Nel corso dell’udienza preliminare contro dodici affiliati al clan Parisi gli avvocati fanno notare che le notifiche non sono state compiute a regola d’arte. Il gip è costretto a bloccare l’udienza preliminare e a restituire le carte al pm che deve riformulare l’avviso di chiusura delle indagini. Un intoppo tecnico. O, se si preferisce, una negligenza che rischia di ridare la libertà a persone accusate di reati gravissimi: l’usura, l’estorsione, il riciclaggio, l’associazione per delinquere. Che fare?
Questa volta il pm si precipita a riscrivere le pagine «sbagliate» e trova la soluzione per accelerare i tempi e fermare il conto alla rovescia. Con una mossa ardita chiede il rito immediato e dunque il salto dell’udienza preliminare. A razzo il Gip dà l’ok e fissa l’inizio del dibattimento. Il pericolo è scongiurato, la miccia è disinnescata, i detenuti restano in carcere.
È andata bene, ma non sempre è così. Due anni fa, il 16 aprile 2009, ventuno boss e picciotti pugliesi del clan Strisciuglio furono scarcerati per l’esasperante lentezza con cui il giudice aveva scritto le motivazioni della sentenza di condanna che li riguardava. I termini di custodia cautelare erano scaduti e in ventuno lasciarono le celle. Uno scandalo, accompagnato da polemiche furibonde.
Oggi va meglio, ma la frustrazione e qualche volta la rabbia degli agenti è la stessa. «Noi - racconta con orgoglio un’altra divisa - raramente i termini per un arresto li facciamo scadere, a costo di lavorare 23 ore e 59 minuti senza mangiare e dormire. Perciò siamo diversi dagli altri». Gli altri, quelli che i termini li fanno scadere, sono i magistrati. Una piccola minoranza, ci mancherebbe, ma rovinosa per le istituzioni. E quel che è peggio, spesso – di più in passato in verità – i riflessi corporativi hanno la meglio e una mano lava l’altra. «È vero siamo diversi - replica al collega un altro poliziotto scosso dai fatti di Bari - quello che veramente non capisco è perché siamo scivolati così in basso». E non si capisce se sia una constatazione rassegnata o una domanda gonfia d’ira. «Siamo capaci di affrontare qualsiasi camorrista pronto ad uccidere. Poi però chiniamo il capo (purtroppo e consapevolmente) al funzionarietto di turno e all’onnipotente magistrato. Guarda caso entrambi sono stati creati per vanificare il tuo operato».
Gli agenti che sbagliano pagano, le toghe, invece, no. Basta leggere le sentenze della Sezione disciplinare del Csm per trovare assoluzioni sconcertanti, quasi surreali, o pene leggerissime a fronte di comportamenti che altre categorie professionali giudicherebbero, probabilmente, con la massima durezza. Ma gli agenti, che vivono sul campo e rischiano quotidianamente la vita contro la criminalità, non hanno bisogno delle statistiche per sapere che quel che a loro non viene perdonato viene invece tollerato se l’errore è firmato da una toga. «Come ha detto qualcuno su queste pagine, - è lo sfogo di un altro ispettore - tu sei solo uno sbirro. Io aggiungo che loro sono il Potere che, come tale, si autotutela».
Càpita, purtroppo, ai quattro angoli del Paese, è successo più di una volta anche in Puglia, terra in cui la criminalità organizzata fa paura, terra della Sacra Corona Unita e di tante altre mafie. Questa volta l’allarme viene lanciato in tempo. Nel corso dell’udienza preliminare contro dodici affiliati al clan Parisi gli avvocati fanno notare che le notifiche non sono state compiute a regola d’arte. Il gip è costretto a bloccare l’udienza preliminare e a restituire le carte al pm che deve riformulare l’avviso di chiusura delle indagini. Un intoppo tecnico. O, se si preferisce, una negligenza che rischia di ridare la libertà a persone accusate di reati gravissimi: l’usura, l’estorsione, il riciclaggio, l’associazione per delinquere. Che fare?
Questa volta il pm si precipita a riscrivere le pagine «sbagliate» e trova la soluzione per accelerare i tempi e fermare il conto alla rovescia. Con una mossa ardita chiede il rito immediato e dunque il salto dell’udienza preliminare. A razzo il Gip dà l’ok e fissa l’inizio del dibattimento. Il pericolo è scongiurato, la miccia è disinnescata, i detenuti restano in carcere.
È andata bene, ma non sempre è così. Due anni fa, il 16 aprile 2009, ventuno boss e picciotti pugliesi del clan Strisciuglio furono scarcerati per l’esasperante lentezza con cui il giudice aveva scritto le motivazioni della sentenza di condanna che li riguardava. I termini di custodia cautelare erano scaduti e in ventuno lasciarono le celle. Uno scandalo, accompagnato da polemiche furibonde.
Oggi va meglio, ma la frustrazione e qualche volta la rabbia degli agenti è la stessa. «Noi - racconta con orgoglio un’altra divisa - raramente i termini per un arresto li facciamo scadere, a costo di lavorare 23 ore e 59 minuti senza mangiare e dormire. Perciò siamo diversi dagli altri». Gli altri, quelli che i termini li fanno scadere, sono i magistrati. Una piccola minoranza, ci mancherebbe, ma rovinosa per le istituzioni. E quel che è peggio, spesso – di più in passato in verità – i riflessi corporativi hanno la meglio e una mano lava l’altra. «È vero siamo diversi - replica al collega un altro poliziotto scosso dai fatti di Bari - quello che veramente non capisco è perché siamo scivolati così in basso». E non si capisce se sia una constatazione rassegnata o una domanda gonfia d’ira. «Siamo capaci di affrontare qualsiasi camorrista pronto ad uccidere. Poi però chiniamo il capo (purtroppo e consapevolmente) al funzionarietto di turno e all’onnipotente magistrato. Guarda caso entrambi sono stati creati per vanificare il tuo operato».
Eccolo il nemico da battere. Il magistrato onnipotente, che fa e disfa, accostato al funzionario perfido o ottuso, non importa... Tutti e due creano solo intralci a chi combatte in prima linea contro le bande criminali. Ma alla fine il magistrato una giustificazione la trova sempre.
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