L’inverno del 1946 fu per Berlino il primo di pace, ma si rivelò più gelido degli inverni di guerra che l’avevano preceduto. Bombardata, distrutta, divisa e occupata, la città era popolata di eserciti invasori e di eserciti infantili: migliaia di bambini e di ragazzi, orfani, sbandati, smobilitati, accampati fra le macerie dei palazzi. Man mano che la rete ferroviaria riprendeva a funzionare, le stazioni della città scaricavano sulle pensiline una moltitudine di profughi straccioni, i rimasugli militari del Reich millenario mischiati all’esodo di una nazione: contadini, operai, borghesi in fuga e in cerca d’aiuto, Berlino come una gigantesca calamita... Allo scopo di denazificare un popolo, era stato approntato un questionario in cui quello stesso popolo doveva spiegare dove, come, quando, quanto e perché fosse stato nazista o fosse rimasto soltanto tedesco. Era un confine sottile, e non così facile da stabilire.
Divisa in venti sezioni, otto delle quali in mano russa, le restanti spartite fra inglesi e americani, l’economia postbellica di una capitale occupata vendeva e acquistava ciò che il mercato dei vincitori e dei vinti si industriava a creare: prostituzione, contrabbando, piaceri, miserie, informazioni, tradimenti, documenti veri e documenti falsi, delitti in proprio e per conto terzi. Attendendo di capire se l’alleato di ieri sarebbe stato anche l’alleato di domani, gli stati maggiori delle potenze occupanti si spiavano a vicenda e nell’attesa flettevano i muscoli: c’era sempre un segreto da carpire, uno scienziato nazista da riciclare pro domo propria, un deposito militare, una lista di criminali di guerra, un caveau di sicurezza pieno di beni preziosi su cui mettere per primi le mani. Come un indifeso corpo femminile, Berlino giaceva a gambe aperte, violata e umiliata, troppo impegnata a cercare di sopravvivere per permettersi il lusso di pensare.
L’uomo di Berlino (Longanesi, pagg. 260, euro 18,60), romanzo di esordio di Dan Vyleta, prende le mosse proprio da qui, da un inverno di morte in una città di morti viventi, «con la gente che crepa di freddo negli appartamenti senza riscaldamento, ridotta in miseria, affamata, costretta a sopravvivere con le briciole che cadevano dalla tavola degli occupanti». Nessuno è quello che sembra, o forse sarebbe meglio dire che nessuno sa fino a dove la sospensione delle regole può condurre l’essere umano. Sonia è una pianista straordinaria, eppure non vende il proprio talento, ma il proprio corpo. Il colonnello inglese Stuart Melchior Fosko è in patria un padre affettuoso con una moglie devota, ma all’estero è un sadico e un torturatore... Poi c’è Pavel Richter: ha il passaporto americano, parla alla perfezione quattro lingue, compreso il russo, si commuove leggendo Dickens, ma è pronto a custodire un cadavere e a farlo a pezzi per nasconderlo meglio...
È questo stato allucinatorio quello the Vyleta racconta meglio, gli spettri che si aggirano sotto il cielo plumbeo di una Berlino in attesa del miracolo che apra le porte della speranza. Nessuno è innocente, tutti nascondono qualcosa, tutti sono pronti a tutto, e se qui e là appare un barlume di umanità, spesso si spegne nella certezza che si resterà delusi. Costruito su più piani (un io narrante, ma anche il racconto in terza persona) L’uomo di Berlino ha il pregio della ricostruzione accurata (l’autore è uno storico di formazione) e di un’atmosfera che non fa rimpiangere i classici del genere, Graham Greene in primis. Pavel Richter è un tipico eroe stanco alla Greene, uno i cui ideali sono andati in pezzi, il combattente di una causa persa che però va onorata sino in fondo. E anche gli altri personaggi di contorno risultano credibili e insieme romanzeschi, ovvero in grado di restare nella mente di chi legge per una serie di particolari fisici e psicologici resi con stile asciutto. Se proprio si vuole trovare un difetto, sta in un eccesso di trama, ovvero di mistero, che lascia alla fine un po’ delusi perché, e qui Greene era un maestro, nel cosiddetto noir storico il «non detto» non deve mai costringere il lettore a immaginare troppo rispetto all’autore, pena il venir meno dell’intera architettura narrativa. Ma forse pretendiamo troppo e L’uomo di Berlino segna l’ingresso di uno scrittore di cui sentiremo ancora parlare.
Divisa in venti sezioni, otto delle quali in mano russa, le restanti spartite fra inglesi e americani, l’economia postbellica di una capitale occupata vendeva e acquistava ciò che il mercato dei vincitori e dei vinti si industriava a creare: prostituzione, contrabbando, piaceri, miserie, informazioni, tradimenti, documenti veri e documenti falsi, delitti in proprio e per conto terzi. Attendendo di capire se l’alleato di ieri sarebbe stato anche l’alleato di domani, gli stati maggiori delle potenze occupanti si spiavano a vicenda e nell’attesa flettevano i muscoli: c’era sempre un segreto da carpire, uno scienziato nazista da riciclare pro domo propria, un deposito militare, una lista di criminali di guerra, un caveau di sicurezza pieno di beni preziosi su cui mettere per primi le mani. Come un indifeso corpo femminile, Berlino giaceva a gambe aperte, violata e umiliata, troppo impegnata a cercare di sopravvivere per permettersi il lusso di pensare.
L’uomo di Berlino (Longanesi, pagg. 260, euro 18,60), romanzo di esordio di Dan Vyleta, prende le mosse proprio da qui, da un inverno di morte in una città di morti viventi, «con la gente che crepa di freddo negli appartamenti senza riscaldamento, ridotta in miseria, affamata, costretta a sopravvivere con le briciole che cadevano dalla tavola degli occupanti». Nessuno è quello che sembra, o forse sarebbe meglio dire che nessuno sa fino a dove la sospensione delle regole può condurre l’essere umano. Sonia è una pianista straordinaria, eppure non vende il proprio talento, ma il proprio corpo. Il colonnello inglese Stuart Melchior Fosko è in patria un padre affettuoso con una moglie devota, ma all’estero è un sadico e un torturatore... Poi c’è Pavel Richter: ha il passaporto americano, parla alla perfezione quattro lingue, compreso il russo, si commuove leggendo Dickens, ma è pronto a custodire un cadavere e a farlo a pezzi per nasconderlo meglio...
È questo stato allucinatorio quello the Vyleta racconta meglio, gli spettri che si aggirano sotto il cielo plumbeo di una Berlino in attesa del miracolo che apra le porte della speranza. Nessuno è innocente, tutti nascondono qualcosa, tutti sono pronti a tutto, e se qui e là appare un barlume di umanità, spesso si spegne nella certezza che si resterà delusi. Costruito su più piani (un io narrante, ma anche il racconto in terza persona) L’uomo di Berlino ha il pregio della ricostruzione accurata (l’autore è uno storico di formazione) e di un’atmosfera che non fa rimpiangere i classici del genere, Graham Greene in primis. Pavel Richter è un tipico eroe stanco alla Greene, uno i cui ideali sono andati in pezzi, il combattente di una causa persa che però va onorata sino in fondo. E anche gli altri personaggi di contorno risultano credibili e insieme romanzeschi, ovvero in grado di restare nella mente di chi legge per una serie di particolari fisici e psicologici resi con stile asciutto. Se proprio si vuole trovare un difetto, sta in un eccesso di trama, ovvero di mistero, che lascia alla fine un po’ delusi perché, e qui Greene era un maestro, nel cosiddetto noir storico il «non detto» non deve mai costringere il lettore a immaginare troppo rispetto all’autore, pena il venir meno dell’intera architettura narrativa. Ma forse pretendiamo troppo e L’uomo di Berlino segna l’ingresso di uno scrittore di cui sentiremo ancora parlare.
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