L’incontro tra il più grande storico italiano della prima metà del Novecento (Gioacchino Volpe) e lo «stregone» della carta stampata (Indro Montanelli) avvenne nel gennaio del ’66. In quella data, Montanelli inviava a Volpe il volume suo e di Gervaso L’Italia dei secoli bui. Al dono seguiva la lettera di ringraziamento di Volpe, nella quale si riconosceva a Montanelli la qualifica di storico a parte intera, e la replica del giornalista che sosteneva di considerare indispensabile la sua opera di «divulgatore». «La Storia degli storici professionisti apre a tutto, fuorché al lettore», scriveva Montanelli, e questa specie di «baronia culturale» non era più ammissibile di fronte alla richiesta di conoscere il proprio passato che proveniva da strati sempre più larghi dell’opinione pubblica.
Quanto mutata sia l’atmosfera, che aveva consentito questo cavalleresco onore delle armi tra esponenti delle due diverse categorie, lo racconta la cronaca dei tempi recenti. Oggi, infatti, ascoltiamo la petulante lamentela di molti intellettuali che parlano addirittura di «morte della storia», in considerazione del presunto scadimento massmediologico di questa disciplina che tende a ridursi progressivamente a fiction, al solo fine di accattivarsi un pubblico avido di sensazioni. Quest’ultime affermazioni hanno forse influito sulla decisione dei vertici della Rai d’interrompere la bella trasmissione Fratelli d’Italia condotta da Pippo Baudo e Bruno Vespa che proprio nell’ultima puntata, quella di mercoledì, ha dimostrato, invece, di essere all’altezza del modello di public history che ha costituito il vanto della televisione anglosassone. E questo nonostante il pubblico non l’abbia premiata a dovere (meno di tre milioni di spettatori e 12,4 per cento di share, dati molto inferiori al solito per una prima serata di Raiuno).
Analizzando il triennio di piombo 1943-1945, Vespa e Baudo, coadiuvati dai loro ospiti (Mario Pirani, Giampaolo Pansa, Pietrangelo Buttafuoco, Lucio Villari) sono riusciti a evitare lo stereotipo del cosiddetto «secondo Risorgimento» per parlare di una pagina tragica della nostra storia che fu in larga parte conflitto civile, guerra politica, scontro di classe che si sovrappose alla lotta di liberazione contro l’occupazione tedesca. Particolarmente toccante la stretta di mano, propiziata da Vespa negli ultimi minuti del programma, tra i discendenti dei fratelli Govoni e dei fratelli Cervi: due nuclei familiari di diverso orientamento politico trucidati dalla violenza fratricida della guerra italo-italiana che non si arrestò dopo il 25 aprile del 1945. Quella stretta di mano forse non è riuscita ancora a sancire il momento della riconciliazione nazionale, ma sicuramente è servita a ricordarci che un Paese che oggi festeggia i suoi 150 anni di unità deve tributare l’omaggio della pietas e del rispetto anche al «sangue dei vinti».
Quanto mutata sia l’atmosfera, che aveva consentito questo cavalleresco onore delle armi tra esponenti delle due diverse categorie, lo racconta la cronaca dei tempi recenti. Oggi, infatti, ascoltiamo la petulante lamentela di molti intellettuali che parlano addirittura di «morte della storia», in considerazione del presunto scadimento massmediologico di questa disciplina che tende a ridursi progressivamente a fiction, al solo fine di accattivarsi un pubblico avido di sensazioni. Quest’ultime affermazioni hanno forse influito sulla decisione dei vertici della Rai d’interrompere la bella trasmissione Fratelli d’Italia condotta da Pippo Baudo e Bruno Vespa che proprio nell’ultima puntata, quella di mercoledì, ha dimostrato, invece, di essere all’altezza del modello di public history che ha costituito il vanto della televisione anglosassone. E questo nonostante il pubblico non l’abbia premiata a dovere (meno di tre milioni di spettatori e 12,4 per cento di share, dati molto inferiori al solito per una prima serata di Raiuno).
Analizzando il triennio di piombo 1943-1945, Vespa e Baudo, coadiuvati dai loro ospiti (Mario Pirani, Giampaolo Pansa, Pietrangelo Buttafuoco, Lucio Villari) sono riusciti a evitare lo stereotipo del cosiddetto «secondo Risorgimento» per parlare di una pagina tragica della nostra storia che fu in larga parte conflitto civile, guerra politica, scontro di classe che si sovrappose alla lotta di liberazione contro l’occupazione tedesca. Particolarmente toccante la stretta di mano, propiziata da Vespa negli ultimi minuti del programma, tra i discendenti dei fratelli Govoni e dei fratelli Cervi: due nuclei familiari di diverso orientamento politico trucidati dalla violenza fratricida della guerra italo-italiana che non si arrestò dopo il 25 aprile del 1945. Quella stretta di mano forse non è riuscita ancora a sancire il momento della riconciliazione nazionale, ma sicuramente è servita a ricordarci che un Paese che oggi festeggia i suoi 150 anni di unità deve tributare l’omaggio della pietas e del rispetto anche al «sangue dei vinti».
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