lunedì 16 aprile 2012

I sinceri democratici cedono alla tentazione dell’anti democrazia


Che strano se è la sinistra progressista (non la destra "golpista") a criticare la sovranità popolare, il Parlamento e il principio di maggioranza...

Aboliamo la democrazia? È la tentazione che scorre, dissimulata, in Occidente, e in particolare in Europa, e più in particolare in Italia. Ad accarezzare l’idea non è una residua setta di biechi reazionari e golpisti e nemmeno una consorteria di aristocratici ed elitari, figli di Mosca e Pareto.

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Ma una corte di democratici progressisti, riveriti professori e ossequiati circoli di intellettuali, in gran parte provenienti da sinistra se non addirittura dal comunismo.
Nel prossimo numero de Il Mulino , la rivista diretta da Michele Salvati, economista liberal della sinistra postcomunista, apparirà un saggio sulla crisi della democrazia di Alessandro Pizzorno, autorevole sociologo e politologo che ha insegnato a New York ma anche a Teheran, passando per Oxford e Milano. Se ne parlerà domani in un dibattito alla New York University di Firenze, dove interverranno tra gli altri lo stesso Pizzorno e Nadia Urbinati che ha pubblicato un saggio sull’argomento ( Democrazia rappresentativa. Sovranità e controllo dei poteri , Donzelli) che secondo Daniela Coli capovolge le tesi della versione americana del suo stesso saggio. Il promotore dell’incontro fiorentino è William E. Klein, estimatore di Toni Negri e delle Coop rosse.
Il filo conduttore è ripensare la democrazia dopo la crisi economica, che impone più governance e meno parlamento, più esperti e meno politici, più tecnici e meno popolo. Se l’avesse sostenuto un autore o un club di destra, nota la Coli, «si sarebbe scatenato il mondo intero » . Ho letto in anteprima il saggio di Pizzorno, In nome del popolo sovrano? che ne costituisce il riferimento di base. Pizzorno confessa di essere infastidito dalle polemiche sui tecnici e dagli appelli a tornare al popolo sovrano e alla politica. Il suo saggio è una dura requisitoria contro la democrazia rappresentativa fondata sulla maggioranza e sul suffragio universale. Una critica alla democrazia in chiave elitaria nel contesto del capitalismo avanzato. Una critica alla democrazia, analoga a quella di Salvati, che pur partendo da premesse differenti approda a esiti simili a quelli di autorevoli intellettuali comunisti come lo storico Luciano Canfora e il letterato Asor Rosa.
Fino a ieri la critica alla democrazia era travestita in una critica alla deriva populista; ora si fa esplicita, si estende alla democrazia rappresentativa, e si invocano gli esperti, le élite. Tecnocrati del Capitale e giacobini di ritorno combaciano nel maledire la democrazia fondata sulla sovranità popolare e nazionale. La democrazia e la sovranità popolare appaiono a Pizzorno un mito e il voto stesso ha per lui solo un valore simbolico e rituale per uscire dalla solitudine sociale. Dove vige il criterio di maggioranza peggiora la qualità delle decisioni, soprattutto in temi economici e sociali. La democrazia sancisce a suo dire il primato delle masse incompetenti sulle élite competenti. E produce governi affetti da «miopia» che danno vantaggi immediati ai propri elettori ma danneggiano l’economia e società dei Paesi. Le società più avanzate, nota Pizzorno, tendono ormai a trasferire alla governance dei tecnici, decisioni e poteri sottratti alla democrazia, alla sovranità popolare e al parlamento.
Il Mulino è da anni un importante laboratorio e crocevia fra tre culture: tecnocratica, cattodemocratica e liberal- radicale. Insomma è la sintesi culturale del centro-sinistra, una tecno- sinistra che lascia alle spalle Gramsci e il nazionalpopolare per sposare capitalismo e progressismo, procurandosi pure una benedizione cristiana di tipo dossettiano: Romano Prodi fu frutto di quell’ambiente. Traspare nel saggio di Pizzorno,e nell’ humus che lo esprime, la preferenza per il principio di competenza rispetto al principio di maggioranza. Oligarchie illuminate contro democrazie oscurantiste. Esperti contro Plebi. Visto lo spettacolo recente, l’ipotesi potrebbe tentare anche realisti conservatori e liberali. Ma la domanda sorge: a chi rispondono gli esperti, chi li certifica e li nomina, nel nome di cosa governano, chi stabilisce la scala di priorità delle loro scelte? Le aziende di riferimento o di provenienza che badano ai loro interessi? Le agenzie di rating?
Le università in crisi, dominate da mafie demeritocratiche e nepotiste? Dall’altra parte, i partiti sono discreditati e incapaci, raccolgono appena il 4 per cento della fiducia dei cittadini, sono corrotti e avvitati su se stessi. Siamo in effetti tra la brace dei tecnici-esperti e la padella dei partiti- corrotti. Due caste dominanti, non dirigenti. Sappiamo bene del resto che la sovranità popolare è soprattutto un mito e il voto è soprattutto un rito, magari necessario ma certo non sufficiente a fondare un buon governo, una vera osmosi tra eletti ed elettori.
Non esistono governi delle moltitudini: le buone democrazie sono governi di pochi nell’interesse di molti, le cattive sono governi di pochi nell’interesse di pochi. Sul piano dei principi, il buon governo di un Paese, non mi stancherò di ripeterlo, nasce da un buon equilibrio fra tre fattori: l’esperienza, la competenza e la maggioranza;ossia l’esempio della storia e gli usi della tradizione, il ruolo e il giudizio degli esperti, il consenso popolare espresso per via democratica. Ma sul piano dei fatti come realizzarlo?
Penso a un’inevitabile doppia via: da un verso l’elezione diretta di chi governa una città, una nazione (e perfino l’Unione europea), che res ponsabilizza chi comanda, travalica i partiti, fonda leadership decisioniste. Dall’altra la formazione e la selezione di élite qualificate in appositi laboratori, scuole, istituti, fondazioni, a cui segue tirocinio e pratica nelle pubbliche amministrazioni. Decisori politici eletti dal popolo ma circondati da aristocrazie selezionate dagli studi e sul campo che costituisconol’ossatura dello Stato, la continuità e la competenza. Partecipazione popolare in basso, decisione in alto, selezione e competenza nel mezzo. Facile a dirsi... Se la democrazia non funziona, non si può chiedere all’economia o alla tecnica di sostituirla, non si possono negare gli interessi generali, le comuni priorità e i valori.
Ma se i parlamenti non funzionano, non si può pensare a una scorciatoia plebiscitaria e populista per evitare la deriva oligarchica. La via da percorrere, ardua ma inevitabile, è quella di una democrazia comunitaria, selettiva e decisionista. Il compito gigantesco dei nostri anni.

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