Si sa, gli italiani sono un popolo di guelfi e ghibellini. Riuscirono a dividersi anche nella guerra civile americana, i garibaldini a fianco di Lincoln, i borbonici sotto le insegne del generale Lee. E l’eroe dei Due Mondi? Rischiò seriamente di essere nominato generalissimo delle Giubbe Blu.
I libri bisognerebbe avere la pazienza di leggerli. “La rabbia e l’orgoglio” è stato derubricato a pamphlet antislamico quando invece contiene tante storie che spiegano di che pasta era fatta Oriana Fallaci e quanto amava il nostro Paese. Il libro parla dell’Italia antica e moderna, di Salvemini che sbarca a New York per mettere in guardia gli americani dal Fascismo, e dei volontari italiani che lottarono sui fronti opposti della Guerra di Secessione. Da una parte i garibaldini convinti di sconfiggere lo schiavismo, dall’altro i borbonici filopapisti che sposarono la causa confederata. La memorialistica garibaldina è uno dei più vitali (e divertenti) documenti storico-letterari del nostro Risorgimento. Sono frammenti di vita quotidiana, considerazioni sulla vita, l’amore e la guerra, una testimonianza che a volte può ammalarsi di retorica ma conserva sempre un fondo di verità diventando Tradizione e motivo d’insegnamento per le nuove generazioni.
La storia degli italiani nella Guerra di Secessione ha solide basi nel lavoro di ricerca svolto da George Waring che nel 1893 pubblica il primo dettagliato memoriale sulle “Garibaldi Guard”, i volontari schierati con l’Unione.
Lo storico Frederick Phisterer riprende la questione nel saggio “New York in the War of the Rebellion”, uscito nel 1912, in cui descrive la comunità degli italiani a New York nella seconda metà del XIX secolo. Erano arrivati in America spinti dalla povertà, in cerca di pace e libertà. Avevano le loro scuole e i loro giornali (“L’Eco d’Italia”), una fitta rete solidale che si sviluppò anche grazie a un garibaldino più lungimirante di altri – Francesco Casale – capace di promuovere l’istruzione infantile e difendere i diritti dei lavoratori italoamericani. Tutto questo materiale è stato raccolto e approfondito da John Pellicano nel 1996 in “Conquer or Die: The Thirty-Ninth New York Volunteer Infantry”, un saggio dedicato alle camicie rosse che in America lottarono al grido di “Vincere o morire”.
Torniamo a New York. Garibaldi c’era già stato negli anni Cinquanta, prima della Guerra di Secessione. In America era considerato un mito vivente, quasi una reincarnazione del Generale Washington. Visse in casa di Antonio Meucci, lo scienziato toscano inventore del telefono. Piacevano la sua vita avventurosa e il repubblicanesimo convinto. L’editore Horace Greeley scrisse sul “Tribune” di New York: “Garibaldi è conosciuto in tutto il mondo come l’eroe di Montevideo e il difensore della Repubblica romana. È un uomo di carattere che si è messo al servizio della libertà”.
Nell’estate del 1861 l’Unione credeva di avere la vittoria in tasca e a Washington si viveva ancora in modo spensierato quando arrivò come una mazzata la notizia della sconfitta di Bull Run. I confederati avevano messo in rotta l’esercito del generale McDowell e marciavano spediti verso la capitale. Tra i vincitori della prima battaglia di Bull Run troviamo ex garibaldini come il maggiore Wheat, un avventuriero virginiano che comandava le intrepide “Tigri della Louisiana”. Tra gli sconfitti invece ci sono gli italiani del Trentanovesimo, le Garibaldi Guard, che avevano combattuto a fianco dei primi afroamericani liberati. Garibaldi non avrebbe esitato a guidare questa truppa mista visto che in Sudamerica aveva già avuto ai suoi ordini soldati di tutte le razze.
Durante la Guerra di Secessione il Trentanovesimo perse 9 ufficiali e 269 soldati, in azione, tra i feriti, ma soprattutto a causa delle malattie e delle infezioni. Un gran numero di essi finirono prigionieri e si ricorda del Conte Luigi Palma di Cesnola il quale, finito nelle galere sudiste, lottò per vedere riconosciuti i diritti dei prigionieri di guerra. Un monumento a Gettysburg ha dato lustro alle imprese del Trentanovesimo, “questo reggimento – dice l’iscrizione – verso le sette del pomeriggio del 2 luglio 1863 ricevette l’ordine di dare supporto alla linea del generale Sickles incaricato di riprendere le armi al nemico. Una lapide marca il luogo dove questo avvenne”. Purtroppo circolano altre storie meno gloriose. Giovanni Falaci e Giuseppe Rionese erano due giovani emigranti sbarcati a New York e arruolati in Pennsylvania. Dopo uno processo sbrigativo vennero accusati di diserzione e condannati a morte. Erano innocenti ma servirono a dare l’esempio, anticipando il tragico destino di Sacco e Vanzetti.
I volontari italiani dell’esercito confederato erano sbarcati a New Orleans da tre navi provenienti dall’Europa, la “Charles & Jane”, la “Oliphant” e la “Elisabeth”. Erano in maggioranza soldati borbonici ex prigionieri di guerra dei Piemontesi. Trecento furono inquadrati nella “Legione italiana” conosciuta anche come la “Milizia della Louisiana”. A Winchester i confederati incrociarono ancora le baionette con i fratelli-coltelli del Trentanovesimo. Li sconfissero di nuovo e da allora li avrebbero chiamati sprezzantemente “home made yankees”, yankee fatti in casa. I borbonici seguirono il generale Lee tra repentine vittorie e drammatiche sconfitte fino alla resa di Appotomax. Tra loro c’era anche il Sergente John Garibaldi, del Ventisettesimo Virginia, che alla sua morte fu seppellito nel cimitero monumentale di Lexington accanto alla tomba di Lee. Era genovese e conserviamo decine di lettere scritte alla fidanzata rimasta in Italia ad aspettarlo. John riuscì a sposarla ma questo lieto fine fu un caso isolato: del Quattordicesimo Louisiana, il battaglione confederato in cui avevano militato la maggior parte degli italiani, dopo la guerra sopravvissero solo due ufficiali e una ventina di soldati.
All’inizio della Guerra di Secessione Lincoln era disperato. Non riusciva a trovare ufficiali in grado di motivare le truppe: “Se il generale McClellan non intende usare l’esercito – sbottò davanti allo Stato Maggiore, “gradirei averlo in prestito, nella speranza di capire come indurlo a fare qualcosa”. Forse per questo il presidente pensava a Garibaldi come a uno splendido capataz dell’Unione. I contatti diplomatici tra Washington, Torino e Caprera furono lunghi e complessi, durarono circa un paio d’anni, ma alla fine l’eroe dei due mondi non prese parte al conflitto. Garibaldi aveva intuito che la guerra dichiarata dall’Unione non aveva come obiettivo, unico ed irrinunciabile, la liberazione degli schiavi. Era piuttosto una strategia, portata avanti da alcuni Stati americani, per difendere (ed estendere) il sistema federale uscito dalla Costituzione del 1789.
La guerra impose agli sconfitti il modello industriale del Nord e un apparato politico più ‘statalista’, mentre i confederati avevano preso alla lettera lo spirito della Dichiarazione d’Indipendenza del 1776: “Queste Colonie Unite sono, e per diritto devono essere, Stati liberi e indipendenti… e come Stati liberi e indipendenti essi hanno pieno potere di fare la guerra, stipulare la pace, contrarre alleanze, stabilire commercio e compilare tutti gli altri atti che gli Stati indipendenti possono fare a buon diritto”. A tutte queste ragioni storiche si aggiunse l’egocentrismo di Garibaldi, la richiesta, fatta senza mezzi termini a Lincoln, di assumere in pieno le funzioni di comandante in capo dell’esercito unionista. Il presidente americano non avrebbe mai ceduto tutto questo potere a un generale straniero.
“Qualche giorno dopo Bull Run fu messa a punto una delle più strane e avventurose missioni diplomatiche nella storia degli Stati Uniti”, ha scritto il New York Times ricordando i protagonisti e le comparse di quel carteggio tra la Casa Bianca e Caprera. Gli attori di questa spy-story sono framassoni americani e vecchi garibaldini, compagni d’arme del Generale e le alte sfere del gabinetto presidenziale. Il segretario di stato americano Seward in persona cercò di convincere Garibaldi ad accettare l’offerta, ricordandogli che era “un cittadino con passaporto americano” e “un amico della libertà”. La “North American Review” pubblicò un editoriale dal tono entusiasta intitolato “Giuseppe Garibaldi”. Il generale, lusingato, chiese al suo vecchio amico Augusto Vecchi di scrivere una lettera di ringraziamento al giornale. Il colonnello Vecchi superò se stesso annunciando agli americani che il risultato più importante della vittoria di Lincoln sarebbe stata l’emancipazione dei neri “dall’America alle Antille”.
A questo punto entra in scena il console James Quiggle, avvocato e politico della Pennsylvania in odore di massoneria. In Italia con la moglie, Quiggle spedisce stucchevoli lettere a Garibaldi paragonandolo al marchese di LaFayette (uno dei simpatizzanti europei che si batterono con le Colonie contro l’Inghilterra durante la Guerra d’Indipendenza americana). “Ci sono centinaia di migliaia di italiani e di ungheresi che seguiranno i suoi passi” scrive il console invitando Garibaldi a partire per gli Usa. Nella visione di Quiggle il Risorgimento italiano, i movimenti di liberazione balcanici, la causa dell’Unione, appartenevano tutti alla stessa temperie storica e culturale. Erano eventi che segnavano la nascita degli stati moderni creati da un elite politica colta e liberale grazie all’apporto decisivo delle masse popolari. Il console e il generale si scambiarono diverse lettere sull’argomento ma la domanda di Garibaldi era sempre la stessa: “James, mi dica se questa guerra porterà all’emancipazione dei negri oppure no”.
Garibaldi ammirava John Brown e gli abolizionisti che si erano ribellati con le armi alla schiavitù: “Ogni uomo è come me stesso – diceva il generale – io sono come ogni altro uomo”. Brown invece è stato descritto dagli storici come uno squilibrato che credeva di essere lo strumento di Dio sulla Terra per estirpare lo schiavismo. Il 16 ottobre del 1859, a capo di una bandi di seguaci, occupò l’arsenale di Harper’s Ferry sperando di provocare una sollevazione su vasta scala degli schiavi neri. Il piano fallì e Brown fu catturato e giustiziato. Salito sul patibolo, fece un ultimo appello in favore dell’emancipazione dalla schiavitù. Secondo il filosofo e poeta Ralph Waldo Emerson la sua morte rese “la forca gloriosa come la Croce” e Brown “un nuovo santo in attesa di martirio”.
Lincoln, Seward e i maggiorenti del partito repubblicano non erano della stessa idea. Temevano quelli come Brown e li consideravano semplici criminali. In una missiva del 4 giugno 1861 Quiggle scrive a Garibaldi “l’emancipazione non è nelle intenzioni del governo federale”. Il 22 luglio la Casa Bianca promulgò la “Crittenden Resolution” affermando che l’obiettivo della guerra era il mantenimento dell’Unione (non la sovversione antischiavista). Un anno prima Lincoln era diventato presidente sulla base di una piattaforma che riconosceva a ogni stato dell’Unione il diritto di controllare le sue istituzioni interne, schiavismo compreso. Le cose sarebbero cambiate gradualmente. Alla fine del ‘61 passarono alcuni emendamenti contro lo schiavismo che venne abolito nel Distretto della Columbia e negli Stati del West. Nel 1862 il “Confiscation Act” concesse la libertà agli schiavi che appartenevano ai proprietari sudisti sconfitti. Il primo gennaio del 1863 Lincoln proclamò l’emancipazione vera e propria. Garibaldi benedì il presidente americano chiamandolo “Pilot of the Liberty”.
La Guerra di secessione scoppiò per interessi materiali più che per ragioni ideali e non avrebbe risolto la questione dell’integrazione razziale. Vincerla fu comunque un passo determinante nella modernizzazione economica e sociale degli Stati Uniti. La secessione aveva minato uno dei principi cardine degli Usa, l’ideale jacksoniano che identifica l’Unione con la Nazione, la libertà e la democrazia. Nel discorso di Gettysburg, Lincoln ripropose questo schema con toni misticheggianti: preservare l’integrità territoriale gli Stati Uniti avrebbe dimostrato al mondo che l’esperimento di governo iniziato nel 1776 era ancora valido, malconcio ma funzionante.
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