martedì 22 marzo 2011

E insieme a lui Mugabe, Castro e Kim Jong il Perché Gheddafi se ne deve andare

22 Marzo 2011

La questione in Libia non è tanto se dobbiamo intervenire oppure no per salvare delle vite umane. Questo lo scopo, umanitario, della missione, che ha determinato un consenso quasi unanime fra i grandi attori internazionali, Nazioni Unite, Stati Uniti, Europa, Lega Araba, e così via. Ma come sappiamo le guerre umanitarie sono un ossimoro. Ben presto inizierà la triste conta dei morti provocati dai raid dei "volenterosi", come ha dimostrato l'Afghanistan, dove per quanto intelligenti possano essere le bombe sganciate dagli aerei americani continuano a mietere vittime fra la popolazione civile. In ogni caso, nonostante la tempesta di fuoco scatenata su Tripoli e la Libia dal cielo e dal mare, non abbiamo notizie di stragi di massa provocate dalla coalizione occidentale.

Se è vero che negli ultimi due giorni le truppe di Gheddafi hanno fatto almeno 40 morti e 300 feriti a Misurata, secondo fonti mediche locali, è anche vero che le fosse comuni e le 10.000 vittime evocate all'inizio della guerra civile erano numeri in libertà. Sappiamo che - prima che scattasse l'intervento - l'assedio di Bengasi aveva già provocato, sempre secondo fonti locali, almeno trecento morti e che, come ha detto il primo ministro David Cameron, "la missione è servita ad evitare un massacro". La storia non si fa con i "se" ma di massacri perpetrati da pazzoidi al potere, dal Ruanda ai Balcani, ne abbiamo conosciuti parecchi. Quindi è sempre meglio evitarli. Si chiama prevenzione e fino a qualche anno fa era il perno della politica estera americana.

La questione della Libia non può neanche essere derubricata ai soliti, noti, "interessi economici", visto che qualsiasi guerra nasconde una logica del genere (sarebbe strano il contrario): in questo caso la ghiotta porzione di petrolio che le grandi multinazionali anglo-francesi potranno spartirsi una volta che il nuovo governo libico, già riconosciuto da Sarkozy, dovesse insediarsi al potere. Anche dell'Iraq si è detto che era una guerra per il petrolio, che l'America voleva depredare le ricchezze della Mesopotamia, mentre invece, come sappiamo, una buona parte di quel tesoro oggi è tornata nelle mani del governo e, si spera (è proprio il caso di dirlo), del popolo irakeno. Dopo l'invasione americana ci sono state aste e fruttuosi accordi economici, di sicuro Washington ci ha guadagnato qualcosa, ma non si può certo dire che l'oro nero era il "casus belli". Non lo erano, ma si è scoperto dopo, neppure le armi di distruzioni di massa. No, il problema era proprio lui, Saddam Hussein.

E qui veniamo alla vera questione per cui oggi si combatte, o perlomeno si dovrebbe combattere in Libia. Non sappiamo ancora bene chi sono i nostri interlocutori, i "ribelli di Bengasi". Costoro vogliono l'aiuto occidentale ma non vogliono truppe di terra straniere in Libia (i SAS però vanno benissimo). Ignoriamo le complicate logiche claniche e tribali che si nascondono dietro la rivolta ma sappiamo che i "nuovi" sono vecchi arnesi del regime, ministri e generali che hanno capito che era il momento di cambiare casacca e cercarsi un nuovo padrone, magari a Londra o a Parigi. Così come sappiamo poco e niente degli studenti dell'università di Sanaa, nello Yemen, che in questi giorni si stanno ribellando al governo locale, anch'esso amico dell'Occidente, che finora ha ammazzato decine di manifestanti. L'Occidente sta tollerando regimi che si professano alleati del mondo libero e poi fanno i porci comodi loro ricevendo al massimo qualche "sgridata" dalla Casa Bianca.

La questione dunque è questa, se e come sia giusto rovesciare dei governi illiberali e autocratici, liberticidi e antidemocratici. Una vecchia storia. Gheddafi è solo il primo. Kim Jong il, Fidel Castro, Rober Mugabe e tutti gli altri despoti in fila davanti al tribunale della storia dovrebbero essere giudicati e condannati. Se vogliamo davvero che questo sia lo scopo, ideale, della missione, è bene capire fin da subito che non basterà una "guerra umanitaria", cioè un giro di parole liberal per mascherare mezze sconfitte con un vanaglorioso successo, com'è accaduto nella ex-Jugoslavia. La strategia di usare caccia e missili per sconfiggere il nemico è costata cara all'Occidente: su quella illusione si è fondata la propaganda di Al Qaeda: gli americani sono buoni solo a colpire dal cielo, perché hanno paura di affrontarci sulla terra. Dal Kosovo alla Somalia, ai missiletti lanciati da Clinton in Sudan per ammazzare Bin Laden, questo genere di azioni militari si è sempre rivelato un fallimento.

Obama ha avuto la guerra che cercava (ma non voleva), una guerra sotto l'egida delle Nazioni Unite, con l'Europa che finalmente sembra assolvere ai suoi doveri (o meglio l'asse anglo-francese), e addirittura la Lega Araba che fra mille mal di pancia sembra approvare, per poi dissentire e contestare, l'attacco (il Qatar e altri Paesi del Golfo fanno parte dei "volenterosi"). Ma questo non sarà sufficiente a fermare la repressione di Gheddafi, né a sconfiggerlo. Per farlo, evitando di ritrovarcelo ancora in piazza a Tripoli fra un paio di mesi, occorre mandare (tante) armi ai ribelli (e tanti altri SAS), prepararsi a un nuovo voto alle Nazioni Unite che convalidi l'intervento di truppe terrestri (contractor, non solo Ong, saranno sempre meglio dei mercenari di Gheddafi), e lavorare di fino (se già non lo si è fatto) con l'intelligence per scoprire se il Rais ha in mente pianistay behind, come in Iraq, evitando, per quanto possibile, una futura insorgenza.

L'obiettivo dev'essere il cambio di regime, chiaro e tondo. Conviene che i governi impegnati in questa guerra lo dicano, invece di trincerarsi dietro le fumisterie onusiane. Rovesciare Gheddafi è la priorità. La struttura di comando libica è nelle mani del Rais. Tolto di mezzo lui avremo azzerato anche ciò che resta della sua forza militare. Ci saranno problemi, errori, complicazioni. Potrebbe esserci il rischio di ritorsioni terroristiche, un nuovo massiccio afflusso di migranti sulle coste dell'Italia e verso l'Europa, una guerra di tutti contro tutti fra i successori del Colonnello, cioè la fine della integrità territoriale della Libia e infine la creazione di uno o più staterelli islamisti. Non è facile togliere di mezzo un dittatore al potere da 40 anni. Ora che si è deciso di farlo, però, l'importante è muoversi, non dargli tregua, costringerlo alla macchia. Se sarà furbo, si arrenderà o cercherà di fuggire. Se vorrà giocare, fino in fondo, la parte del leone, morirà. In un modo o nell'altro, la Libia sarà stata liberata, anche se il prezzo di queste guerre di liberazione non è mai troppo basso.

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