Prefazione
La guerra è terminata il 25 aprile 1945 ed in tale data le autorità legittime avevano impartito l’ordine di rispettare i nemici. La fase insurrezionale è una misera e orrenda idea che serve di copertura per le atrocità criminose perpetrate dopo la fine della guerra. Chi non si ricorda la vicenda dei sette “guerriglieri” fratelli Cervi? Non vi è un solo studente che sappia che, dopo la conclusione della guerra, i partigiani hanno ucciso i sette fratelli Govoni, rei d’essere stati – e neppure tutti – militanti fascisti. L’eccidio avvenne ad Argelato, presso il podere Grazia.
Dino, Emo, Augusto, Marino, Giuseppe, Primo e Ida; assassinati da un gruppo di partigiani comunisti, perché colpevoli (a loro dire) di aver accettato rapporti di cordialità ed ospitalità con i militi del fascio ed uno di loro di aver risposto alla chiamata doverosa della Repubblica Sociale.
Ricordavo che il martirio dei fratelli Govoni non è conosciuto nel modo più ampio; mettere in disparte la loro vicenda è episodio ingiusto che solamente i mezzi di comunicazione di massa, appartenenti al regime, sono così disonorevoli e decaduti. Si scrivono libri revisionisti sui fratelli Cervi (trucidati dai nazisti e ricordati e onorati ed, anche a Noceto, una via del paese è intestata a loro), su Stalin e Mao, sul sacrilegio compiuto da Cristo. La storia la fanno loro. Di conseguenza, i pennivendoli del regime non seppero scrivere, né mai scriverebbero alcuni pezzulli a ricordo di sette contadini padani che, stranamente, secondo certe teorie addomesticate, alcuni vestivano in camicia nera; né gli sdilinquiti ricercatori storici, perché scorati e rachitici non presero possesso della tragica ed onorata vicenda… La storia dei fratelli Govoni, invece, quella raccontata esatta e raccolta con testimonianze e fatti documentati, deve essere messa in risalto… Una storia con obbligo ad “apparire” e “vivere”; espanderla, divulgarla, contribuirla notevolmente ad illuminare “i nostri ragazzi e ad aumentare le conoscenze di tutti noi, sulle menzogne dei vincitori, …”
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Grande atto sarebbe di risollevare, alla lode, quei fratelli barbaramente uccisi a guerra ultimata solamente perché il primogenito Dino Govoni, falegname, onorò e servì alla RSI! Non per rinfrescare la memoria, bensì perché dovremmo classificarla ingiusta che “la coltre dell’oblìo sia stata fatta calare sul loro eccidio, quasi a similitudine dell’occultamento dei loro cadaveri”. Per il peggio che si possa conoscere, nella terra emiliana non v’è “impronta” monumentale o musei, né per loro sono stati scritti rappresentativi libri apologetici; neppure una marea di cittadini, né scolaresche, né Autorità o politici (di basso o alto rango) sono convogliati a visitare questi luoghi di martirio; nessuna indicazione turistica per “Casa Govoni”, né sulla casa di campagna è stata posta una scritta che suole avvisare il luogo dove i fratelli Govoni vissero il senso della loro vita, né in quell’aia dove furono presi e portati a morte un cippo commemorativo o fiori e/od oggetti-simboli. Evidentemente tanto scomodo è questo ricordo alla Repubblica Italiana, nata dalla “Resistenza”.
Per infiniti mesi nell’immediato periodo della “liberazione”, nelle zone emiliane ha imperato il lugubre verbo. L’odio di parte e di classe faceva da battistrada. Un uomo con tutti i suoi affetti dietro di sé non contava nulla; bastava “eliminarlo” come fosse uno scantinato ammuffito pieno di ratti.
Correva l’anno 1945. La famiglia Govoni, d’antico ceppo contadino, viveva a Pieve di Cento, un grosso borgo bolognese quasi al confine con la provincia ferrarese. La componevano Cesare Govoni, sua moglie Caterina Gamberini e otto figli: sei maschi e due femmine. Il primogenito, quarantunenne, aveva nome Dino, un artigiano falegname che si era iscritto al Partito fascista repubblichino, assumendosi ruolo di buona creanza in ogni dove, tanto che nessuno, a guerra finita, aveva levato contro di lui la minima accusa. Dopo Dino, veniva Marino, di 33 anni; era coniugato dal 1937 e aveva una figlia. Combattente d’Africa, aveva aderito dopo l’otto settembre alla R.S.I. Contro di lui non pendevano accuse di sorta. Terzogenita era Maria, nata nel 1912; fu l’unica a salvarsi degli otto fratelli perché, dopo sposata, si era trasferita con il marito ad Argelato e i partigiani non riuscirono a rintracciarla. Veniva poi Emo, d’anni 32, un artigiano falegname che non aveva aderito alla R.S.I. e che non si era mai mosso dal paese. Viveva con i genitori. Il quintogenito, Giuseppe, d’anni 30: coniugato da poco, faceva il contadino ed abitava nella casa paterna. Nemmeno lui era iscritto al P.F.R. Quando lo uccisero, era diventato padre da tre mesi. Il sesto e il settimo dei fratelli Govoni erano Augusto, di 27 anni, e Primo, di 22: ambedue celibi, contadini, e vivevano con i genitori. Non si erano mai interessati di politica. L’ultima nata si chiamava Ida, immersa nei suoi meravigliosi 20 anni: sposata da poco ed era mamma di un’incantevole neonata. Abitava ad Argelato; anche lei come il marito mai avevano svolto politica attiva. Va rammentato che la strage dei fratelli Govoni e dei loro compagni di sventura non fu provocata solamente da un’esplosione di pazza criminalità, o da un odio furibondo accumulato da alcuni partigiani nei mesi di lotta fratricida, ma fu la conseguenza di un piano freddamente e cinicamente attuato in base alle direttive emanate dal Partito Comunista con lo scopo di seminare dovunque il terrore per giungere più facilmente al controllo totale della situazione.
«Drago», «Zampo», «Ultimo» e i loro compagni-partigiani furono gli esecutori di queste direttive che insegnavano, tra l’altro, come il terrore si semini maggiormente con i fulminei prelevamenti, le silenziose soppressioni, il segreto assoluto sulla sorte toccata alle vittime e sul luogo della loro sepoltura. Il mistero fomenta la paura. Al tramonto del 10 maggio 1945, i “rossi” iniziarono vigliaccamente i prelevamenti dei fratelli Govoni. Tutta la popolazione della zona era già talmente in preda allo sgomento, che i partigiani avrebbero potuto ammazzare chiunque e seppellirlo in pieno giorno con la sicurezza assoluta che nessuno avrebbe osato denunciarli. La strage dei fratelli Govoni fu preceduta da molti massacri; nessuno però ne commentava, anche se tutti sapevano. Il massacro dell’undici maggio, nel quale trovarono la morte i fratelli Govoni, fu preceduto, 48 ore prima, da un altro eccidio in cui trovarono la morte dodici innocenti in un isolato casolare di Voltareno, nei pressi di Argelato. I trucidati furono: professoressa Laura Emiliani (San Pietro in Casale); ex podestà Sisto Costa (San Pietro in Casale) con la moglie Adelaide ed il figlio Vincenzo; i restanti, tutti cittadini di Pieve di Cento: Enrico Cavallini, Giuseppe Alberghetti, Dino Bonazzi, Guido Tartari, Ferdinando Melloni, Otello Moroni, Vanes Maccaferri ed Augusto Zoccarato (La tredicesima persona, sfuggì alla cattura e al massacro, vide parecchie cose e dopo un periodo d’omertà forzata, parlò, provocando in quel modo l’intervento delle autorità). È indubbio che la strage dei dodici incolpevoli, costituì il preludio al massacro dei fratelli Govoni e dell’altra decina che ne divise la sorte. Dei Govoni, il primo ad essere prelevato fu Marino.
“In realtà, i partigiani contavano di arrestare, quella sera, tutti i fratelli Govoni. In casa, però trovarono solo Marino, il terzogenito. Gli altri, fatta eccezione per le due figlie che abitavano ormai altrove, erano tutti in giro per il paese. I più giovani si erano recati a ballare. I Govoni, infatti, non sospettavano lontanamente d’essere già tutti in “lista”. Nei giorni successivi all’arrivo delle truppe di soldati angloamericani erano stati convocati dal comando partigiano, interrogati e quindi rilasciati perché a carico loro non era emersa alcun’accusa. Il mancato prelevamento degli altri fratelli indusse i partigiani ad accelerare i tempi dell’azione nel timore di vedersi sfuggire le prede dalle mani”. “Riuscirono così, nella notte, a raccogliere tutti gli altri fratelli, compresa la giovane Ida che implorava di non staccarla dalla bambina che doveva allattare, anzi… presero anche il marito che poi fu scaricato dal camion che li trasportava, cammin facendo.”
Era giorno fatto quando il breve convoglio ripartì per Argelato con il suo carico di prigionieri. Ida Govoni implorò che la lasciassero tornare a casa, dalla sua creatura. Non le risposero neppure. Verso le otto, i due automezzi raggiunsero il podere del colono Emilio Grazia, dove già si trovava prigioniero Marino Govoni. In un vasto interno adibito a magazzino, cominciò a sfogarsi la ferocia dei partigiani: pugni, calci e colpi di bastone. Verso le ore undici mattiniere, un fulmineo prelevamento, senza apparente ragione, d’altre dieci vittime, tutte di San Giorgio di Piano. I dieci prelevati andarono tranquilli poiché i partigiani avevano detto loro che si trattava di “comunicazioni” che li riguardavano, presso la caserma dei carabinieri. I loro nomi: Alberto, Cesarino e il diciannovenne Ivo Bonora, nonno, figlio e nipote; Guido Pancaldi; Alberto Bonvicini; Giovanni Caliceti; Vinicio Testoni; Ugo Bonora; Guido Mattioli e Giacomo Malaguti. Tutte persone rispettate in zona per la loro onestà, ma con un difetto imperdonabile per i “rossi”: erano anticomunisti decisi! Raccontare ciò che accadde in quelle ore non è documentabile; basti sostenere che nessuna delle vittime morì per arma da fuoco. Solamente le urla strazianti dei diciassette morituri risuonarono, per molte ore, in una macabra, insensata, furibonda esecuzione che era estasi insaziabile e godibile spettacolo per i “rossi”! Gli infami registi del drammatico atto sanguigno s’incaricarono, pure, di far confluire, sul posto, un buon gruppo di “comparse”, della loro stessa specie, per compiere collettivamente un rituale sanguinario degno delle più orripilanti celebrazioni sataniche.
“Si era sparsa, frattanto, tra i partigiani della 2ª brigata Paolo e delle altre formazioni, la voce che stava per incominciare una “bella festa” nel podere del colono Emilio Grazia. Dapprima alla spicciolata, poi sempre più numerosi, i comunisti cominciarono a giungere alla casa colonica dove erano già prigionieri i sette Govoni. Non è possibile descrivere l’orrendo calvario degli sventurati fratelli. Tutti volevano vederli e, quel che è peggio, tutti volevano picchiarli. Per ore nello stanzone in cui i sette erano stati rinchiusi si svolse una bestiale sarabanda tra urla inumane, grida, imprecazioni. L’indagine condotta dalla Magistratura ha potuto aprire solo uno spiraglio sulla spaventosa verità di quelle ore. La ferrea legge dell’omertà instaurata dai comunisti nelle loro bande ha impedito che si potessero conoscere i nomi di quasi tutti coloro, e che furono decine, che quel pomeriggio seviziarono i fratelli Govoni”. “Si accertò, quando molti anni furono scoperti i corpi, che quasi tutte le ossa degli uccisi presentavano fratture e incrinature”.
Chi erano gli insensati esecutori dei fratelli Govoni e suoi sfortunati compagni? La risposta: trattasi della famigerata e fantomatica “brigata Paolo”, ignota fino allora, non era probabilmente altro che un gruppo della 7ª GAP (Gruppi d’azione patriottica). I partigiani della «2ª Brigata Paolo» infierirono con una crudeltà e sadismo veramente inconcepibili su ogni prigioniero. Ida, la mamma ventenne, che non aveva mai saputo niente di Fascisti o di partigiani, morì tra sevizie orrende, invocando la sua bambina. Quelli che non morirono tra i tormenti furono strangolati; e quando le urla si spensero definitivamente erano le ore ventitré dell’undici maggio. Avvenne, quindi, tra gli assassini, la ripartizione degli oggetti d’oro in possesso dei prelevati, mentre quelli di scarso o nessun valore furono gettati in un pozzo dove, anni avanti, saranno rinvenuti mentre si svolgeva l’indagine istruttoria. I corpi delle vittime furono sepolti subito dopo in una fossa anticarro, non molto distante dalla casa colonica. Per anni interi, sfidando le raffiche dei mitra degli assassini, sempre padroni della situazione, solo i familiari delle vittime cercarono disperatamente di fare luce su quanto fosse accaduto, nella speranza di poter almeno rintracciare i resti dei loro cari, primi fra tutti, i genitori dei fratelli Govoni. Fu una ricerca estenuante, dolorosissima, ma inutile. “Nessuno volle non parlare, nessuno volle aiutarli; molti li cacciarono via in malo modo, coprendoli d’insulti. Ci fu anche chi osò alzare la mano su quella povera vecchia che cercava solo le ossa dei suoi figli. A Cesare e Caterina Govoni, sopravvissuti al più inumano dei dolori, lo Stato italiano, dopo lunghe esitazioni, decise di corrispondere, per i figli perduti, una pensione di 7.000 lire mensili: 1.000 per ogni figlio assassinato!
I resti dei fratelli trucidati furono recuperati sei anni più tardi ed, anche se per quest’orrendo crimine ci fu un processo che si concluse con quattro condanne all’ergastolo, la giustizia non poté fare il suo corso perché gli assassini “rossi”, così come in altri casi, furono fatti fuggire oltre cortina e di loro si perse ogni traccia; successivamente, il crimine fu coperto da amnistia!
********* CATERINA GOVONI, LA MAMMA DEI SETTE FRATELLI
Pieve di Cento (Bologna). Caterina Govoni, la mamma dei sette Fratelli assassinati dai comunisti, che nel 1961 ha compiuto 82 anni, cercò dappertutto per numerosi mesi, i resti dei suoi figlioli. Un giorno, nel 1949, s’imbatté in un partigiano, certo Filippo Lanzoni, che si era vantato di saperla lunga a proposito del massacro: gli si avvicinò e lo supplicò di dirle dove erano sepolti i suoi figlioli. Il Lanzoni le rispose: «Vuoi trovarli? Ti procuri un cane da tartufi.». Per “aggraziare” a modo suo la volgarità, le incitò contro due donne comuniste; queste si lanciarono sulla Govoni, già settantenne, e la picchiarono a sangue.
Tratto da "I GIORNI DELLA STRAGE" di Giorgio Pisanò
N.B. Le vicende dei fratelli Cervi sono raccontate in numerose pubblicazioni della storiografia resistenziale ed alcune sono citate nella bibliografia; pure un film: “I sette fratelli Cervi” (tanto per “raccontarlo eroicamente” come non dovrebbe essere!), realizzato nel 1967 ed interpretato da Gian Maria Volonté. Per i sette fratelli Govoni solamente una ricostruzione nella ponderosa opera di Giorgio Pisanò: “Storia della Guerra civile in Italia”. Null’altro.
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