Cinisello Balsamo, 21 maggio 2011 - Nei loro occhi ci sono ancora i chiaroscuri di storie mai raccontate, di tragedie, uccisioni di massa e violenze. Nella loro mente e nel cuore un unico desiderio: tornare a casa e impugnare di nuovo, se ce ne fosse bisogno, le armi per difendere le famiglie e il popolo.
I racconti dei feriti libici ospitati dalla Croce rossa regionale hanno il sapore amaro della novità: Idris, Nabil, Isham e compagni si lasciano andare a racconti che in Italia si sono sentiti poche volte. Loro sono solo tre dei 25 feriti di guerra della Libia ospitati dalla Cri, giunti nel Bel Paese con un’operazione umanitaria coordinata dal ministero degli Esteri: un primo gruppo di 13 è stato già rimpatriato; lunedì partiranno anche gli ultimi arrivati.
Ferite da arma da fuoco, fratture, lesioni al volto e alla testa: qui in Italia per curarsi e poi di nuovo a casa. Nonostante casa significhi ancora guerra, ancora dolore. E non solo perché il loro visto è temporaneo: perché loro, Nabil, Idris, Isham e come loro tutti gli altri, hanno una voglia matta di tornare in patria. Per lottare, per sconfiggere il nemico Gheddafi che ha sparato contro i fratelli: «Non è una lotta per il pane la nostra; è una lotta per la libertà».
Perché è scoppiata la guerra civile in Libia? Quello che abbiamo visto noi, da qui, è solo la punta di un iceberg, di un fermento lungo un decennio. «Nel 1996 furono giustiziate in massa oltre 1.200 persone, mai ritrovate. Da allora, ogni anno, si teneva una manifestazione di protesta contro il regime: quella di quest’anno ha visto l’arresto di un avvocato che si batteva per i diritti umani. E poi le milizie di Gheddafi hanno sparato sulla folla». Da lì è cominciato tutto: quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Loro c’erano, hanno visto e raccontano: «Abbiamo visto morire bambini; abbiamo visto il lato più oscuro della guerra. Un giorno, in piena battaglia, è arrivata un’ambulanza che cercava donatori di sangue: ma era un’imboscata. Una volta saliti, i fratelli sono stati uccisi». Hisham, 34 anni, è imprenditore in Libia: è pronto a tornare, a dare la sua vita ma anche a mettere risorse per ricostruire la sua nazione. «Una volta il figlio di Gheddafi, che ama il calcio, è stato preso in giro in uno stadio da un gruppetto di tifosi perché era scivolato sul pallone: si è arrabbiato e ha sparato sulla folla».
Ricordi di una vita sotto dittatura; e ricordi più indelebili degli ultimi mesi di battaglia. Due giovani si sono ritrovati in Italia dopo aver combattuto fianco a fianco a Bengasi: si passavano le bombe a mano, sono stati feriti, qui si sono riabbracciati. «Ringraziamo la Croce rossa per l’accoglienza — concludono, con un pizzico di polemica — Ringraziamo un po’ meno il governo perché spesso siamo stati usati come uno show per le tivù».
di Andrea Guerra
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