giovedì 17 febbraio 2011

La Turchia non è un modello per Egitto e Tunisia Erdogan vuole "solo" un nuovo nazionalismo turco, stavolta islamista

17 Febbraio 2011
Il premier turco sta portando la Turchia verso oriente
Come non continuare a parlare di Medio Oriente. Dopo le rivolte di “popolo” contro le dittature secolari di Ben Ali in Tunisia e di Hosni Mubarak in Egitto, agli sguardi basiti e pieni di stupore di noi occidentali che sugli schermi ci siamo sorpresi (spesso piacevolmente) dei successi tunisini e egiziani, si unisce oggi uno strano brillio, un misto di paura e ebbrezza, che si fa anche grande interrogativo: quale modello di organizzazione democratica si daranno i regimi, come quello tunisino o egiziano, adesso che i loro rispettivi dittatori non ci sono più?
Tutti a indicare la Turchia come modello. E’ sì perché a sentire i più la Turchia è islamica, come Egitto e Tunisia, ma è una democrazia. In Turchia vige la separazione dei poteri che, da che democrazia moderna è democrazia moderna, è cardine di ogni regime democratico. In Turchia vige la libertà di stampa. La Turchia è filo-occidentale visto che appartiene alla Nato e ambisce a far parte dell’Ue. Insomma la nazione turca le ha proprio tutte per essere un modello. Parrebbe.
Nessuno, però, è più certo che l’assioma “Turchia, paese islamico e democratico” tenga ancora. Infatti dal 2003, anno in cui Recep Erdogan è riuscito a ricevere l’investitura alla carica di primo ministro (grazie a una leggina su misura per scioglierlo dall’ineleggibilità che gli impediva di assumere la carica causa condanna per motivi religiosi), i cardini secolari e democratici consolidatisi nel regime post-kemalista turco degli anni ‘90 si sono lentamente erosi.
E’ difficile ammetterlo, ma quella che va in “onda” in Turchia negli ultimi anni è una silenziosa e silenziata islamizzazione della società turca. Non si tratta solo del velo femminile nelle università. Quello è uno specchietto per le allodole per noi occidentali e le nostre diatribe interne da post-femminismo. In Turchia il processo di islamizzazione e di accentramento sull’esecutivo dei poteri è passato e passa tutt’ora lontano dagli occhi dei clamori della “piazzetta” mediatica internazionale.
Il primo obiettivo (centrato) è stato quello di predisporre il tavolo affinché il partito di Erdogan riescisse a mettere le mani sulla burocrazia, per penetrarla lentamente. Si pensi alla magistratura turca. Da sempre bastione laico e secolarizzato dell’ortodossia kemalista, oggi il potere giudiziario sta cadendo sotto il controllo dell’esecutivo di Erdogan. Quando il primo ministro Erdogan fallì nel tentativo di far introdurre la legislazione tesa all’abbassamento dell’età di pensionamento dei giudici nel 2003, legge che avrebbe permesso all’esecutivo da lui guidato di nominare novemila nuovi giudici, tutti soffiarono un sospiro di sollievo. Ma Erdogan è persistente: lo scorso anno il primo ministro è riuscito a ottenere un risultato che va comunque in quella direzione.
Si ricorderà la vittoria referendaria di Erdogan sulla riforma costituzionale dello scorso anno. Uno degli emendamenti approvati di fatto ha messo in condizione l’esecutivo turco, se non proprio di infornare i “propri” giudici, secondo lo schema fallito del 2003, quantomeno di presiedere al cambiamento generazionale nella magistratura turca.
Altro fronte di islamizzazione è stato quello dell’educazione. Il partito del primo ministro l’Adalet ve Kalkinma Partisi (Akp), il partito per la giustizia e lo sviluppo, è riuscito a inserire all’interno dei curricula scolastici materie religiose. Non solo. Se prima i turchi studiavano i grandi del pensiero occidentale, oggi gli studenti si ritrovano a studiare anche e soprattutto pensatori musulmani. Lo studio scolastico dell’islam è diventato obbligatorio per tutti gli studenti.
L’esecutivo turco ha inoltre concesso, tramite il controllo del ministero dell’istruzione, che i diplomi degli istituti imam hatip (gli istituti di formazione del clero a controllo statale che nel 1924 sostituirono le madrasse islamiche) possano emettere titoli di studio aventi stesso “valore legale” rispetto ai diplomi universitari laici, ai fini dell’accesso a cariche burocratiche. Sino a pochi anna fa vietato (per intenderci è un po’ come se si permettesse a un prete laureato in teologia di accedere a una posizione nel settore pubblico ove fossero necessarie competenze di scienze sociali).  E ancora “discriminazione positiva” per gli studenti degli imam hatip che volessero accedere alle università d’élite.
Non solo l’educazione secondaria. Anche quella superiore è stata presa di mira. Ben note le posizioni di Erdogan quanto a velo islamico nelle strutture statali universitarie. Si ricorderà la sua vittoria nel far passare la legislazione che di fatto aboliva il divieto di indosso del velo nelle università. Non è stata mossa indolore. Erdogan ha incontrato difficoltà con i vertici accademici. Si ricordi il caso del rettore dell’università di Yuzuncu Yil di Van, Yucel Askin.
Quest’ultimo, reo di aver perpetrato il divieto di indosso del velo islamico femminile nel proprio ateneo, si è visto arrestato dalla polizia con l’accusa di traffico illegale di antichità di cui Askin era noto collezionista. Non volendo cedere alle intimidazioni del premier turco, nonostante in galera, Askin si è visto intimidire con altre accuse di corruzione nei suoi confronti, legate, secondo le accuse rivoltegli, a transazioni bancarie durante l’elezione a rettore nella sua università.
Incapace di intimidire il mondo accademico, di cui il caso Askin è stato solo il più emblematico, l’esecutivo di Erdogan ha tentato (riuscendoci) allora di creare terra bruciata attorno al vertice dei rettori turchi. Nell’Alto Consiglio dell’Educazione turco, la nostra conferenza dei rettori, ogni vertice accademico ha diritto a un voto. Erdogan, sfidando l’ostilità culturale e politica dell’organismo, ha creato 15 nuove università per mettere i “veri” rettori in minoranza e far passare la sua linea sul velo islamico nelle università.  E' proprio il caso di scomodare il diplomatico fiorentino il quale decretava: “si habbi nelle cose a vedere il fine e non il mezzo”.
E sui rapporti tra l’esecutivo del premier turco e la stampa, i metodi si fanno anche più aggressivi. Nel 2005,  a soli due anni dal proprio insediamento come primo ministro, Erdogan aveva raggiunto il dubbio record di cause intentate contro giornalisti, editori e vignettisti nella storia di tutta la Turchia repubblicana. La storia del quotidiano Sabah merita breve menzione. Non riuscendo a uniformarsi al nuovo corso in Turchia e a non limitare la “cattiva stampa” nei confronti del governo, il quotidiano si è visto mettere in amministrazione controllata da un giorno all’altro, e la proprietà coattivamente trasferita al genero di Erdogan.
Per non parlare della stangata fiscale toccata al Dogan group, gruppo editoriale indipendente turco, che si è visto recapitare una multa fiscale di 450 mln. di dollari, il cuo versamento allo stato turco è stato bloccato da un tribunale turco solo lo scorso 7 Febbraio.
Insomma non c’è da stare allegri. Soprattutto perché Erdogan - e con lui il suo partito - godono di una grande popolarità politica. Sulle cause di tanto seguito, spicca l’insegnamento del passato. Quando a metà degli anni novanta, Necmettin Erbakan, un altro leader turco con agenda politica islamica, riuscì a ottenere la presidenza del consiglio, fu subito bloccato e spinto alle dimissioni dall’establishment  post-kemalista, forte tanto nelle forze armate che nella magistratura.
Quando Erdogan è arrivato al potere nel 2003, non ha commesso gli stessi errori del suo predecessore Erbakan. Innanzitutto il leader del Akp ha puntato ad accaparrarsi il ceto medio turco, principalmente quello extraurbano. E lo ha fatto facendo partire la locomotiva economica e favorendo i redditi medio-bassi. Forte il suo attacco all’inflazione, il taglio delle tasse e l’abbattimento delle accise sulla benzina. Anche il partito ha fatto la sua parte: gli ordini sono stati quelli di favorire i propri elettori nell’erogazione dei servizi sociali nelle municipalità controllate dall’Akp. Buon vecchio clientelismo.
Ma come ha potuto Erdogan permettersi le “riforme”? Quali gli strumenti? Due principali: il primo è stato il debito. Lo stato turco si è indebitato fortemente engli ultimi sette anni. Il secondo strumento è quello che gli economisti turchi hanno soprannominato “green money”, il denaro verde, ovvero quelle risorse finanziarie provenienti dall’Arabia Saudita e dal Qatar e che dal 2006 a oggi hanno garantito alla Turchia denari per 12 mld. di dollari all'anno. Basti “insinuare” i buoni contatti che il presidente della Repubblica turca Gul, braccio destro di Erdogan, intrattiene con ambienti finanziari e bancari in Arabia Saudita: prima di entrare in politica il capo dello stato turco aveva lavorato all’Islamic Development Bank di Jeddah, nella penisola araba.  
Ma esiste un'opposizio ad Erdogan? Sì che esiste. E più che partitica, essa è burocratica. Di fatto il kemalismo rimane forte, benché non come un tempo, nella magistratura e tra i militari. Per questo l'esecutivo del Akp ha preso di mira proprio questi due poteri. Si ricorderanno gli arresti massicci di militari nel Giugno del 2008, quando furono fermati 86 figure di spicco delle forze armate, del mondo del giornalismo, di quello accademico e tra settori di attivismo della “società civile”, con l'accusa di tentato golpe. Molti furono soggetti a carcerazione senza assistenza legale, oltre che, a generosa intercettazione telefonica illegale da cui poi non emerse molto più che qualche commento negativo contro il governo.
Un altro massiccio arresto di militari, si ricorderà, ebbe luogo nel febbraio dello scorso anno, quando ufficiali militari, tanto in pensione che in servizio, furono arrestati sempre per tentato golpe. Registri degli indagati come liste di proscrizione insomma. La strategia è comunque evidente: impossessarsi sistematicamente delle ultime nicchie di kemalismo ancora forti in Turchia, e sostituirne, neanche troppo gradualmente, i vertici, quadri intermedi e prime file con “fedeli” islamici.
Per non parlare del neo-ottomanesimo di politica estera che il governo Erdogan esprime con sempre maggiore forza da tre o quattro anni a questa parte. La nuova proiezione della nazione turca sta nel medio oriente ma non solo. Si pensi al ruolo che la Turchia vuole giocare in Bosnia, nei Balcani o in Turkmenistan, in Asia centrale. Insomma Erdogan non è un prode alfiere della democrazia e tanto meno un amico dell’Occidente. E’ solo un uomo che sta portando la Turchia verso una nuovo nazionalismo turco, stavolta non secolarizzato o kemalista, bensì islamista.
Egiziani e tunisini farebbero bene a guardarsi da un modello del genere. Quanto a noi europei, burocrati Ue in testa, dovremmo smetterla di far finta di nulla.  
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