Manhattan è lo specchio del pianeta. Non è una città e nemmeno un quartiere, è una collezione di tanti paesi diversi che imitano gli originali sparsi nei quattro angoli del mondo. Ora, però, il paese che imita l’Italia non c’è più. Lo ha certificato il censimento dell’anno scorso: a Little Italy nessuno tra i residenti è nato nella Penisola. Nel 2000 i nati oltreoceano erano ancora 44. Cinquant’anni prima 2.149. Un declino lento, ma continuo e inarrestabile. A mascherarlo non bastavano i simboli esibiti di un folklore sempre più pacchiano e lontano dalla vita vera della comunità italo-americana.
Al cinema Little Italy è finita negli anni 50: quando, alla morte di Don Vito Corleone, il figlio Michael (Al Pacino) trasferisce la Famiglia a Las Vegas e a Reno, i nuovi centri pulsanti dell’economia e del crimine americano. Nella realtà l’agonia è stata molto più lunga. Ancora nel 2005 Vincent Gigante, boss della famiglia Genovese, passeggiava in ciabatte e accappatoio, urlando frasi senza senso, per le strade del quartiere, tra Mulberry e Grand street. L’unico modo, spiegava la polizia, per farsi passare per folle ed evitare la condanna. Ma poche settimane fa, quando l’Fbi ha arrestato 100 soldati di Cosa Nostra nella più grande retata contro il crimine organizzato da decenni, nessuno di loro abitava a Little Italy.
Gli italiani che arrivano oggi dalla Penisola stanno nei quartieri eleganti, vicino alle sedi delle banche o delle università: sono finanzieri, professionisti o studenti. Gli italo-americani, invece, si sono trasferiti da tempo a Bensonhurst, nel borough (così si chiamano le divisioni amministrative della città) di Brooklyn, con le sue villette allineate, sogno di ogni famiglia piccolo-borghese. Oppure hanno traslocato un po’ più in là, a Staten Island, dove il 44% degli abitanti ha radici italiane.
Vengono da qui gli italo-americani che vanno in tv e magari diventano i protagonisti di reality e serie tv di successo. Come i protagonisti di «Jersey Shore», programma culto di Mtv, ormai trasmesso in mezzo mondo: veri «truzzi», simpatici ed estroversi come forse solo gli italiani sanno essere, ma che con tutta probabilità l’Italia non sanno nemmeno dov’è.
Quanto a Little Italy, come certi palazzi del vicino Lower East side, culla della cultura yiddish americana, ormai è diventata un museo. E a visitarla sono per lo più gli italo-americani che vivono negli altri quartieri e che di tanto in tanto hanno voglia di fare un tuffo nella tradizione. L’anno scorso il National Park service, l’ente che gestisce i parchi e i monumenti, l’ha innalzata al rango di «Distretto storico». Nella delibera ha però unito nella stessa area la Little Italy vera e propria e Chinatown, senza alcun confine tra di loro. Così, accanto al Columbus day e alla festa di San Gennaro, i due giorni gloriosi della comunità tricolore, il quartiere ha iniziato a organizzare un Marco Polo day e una marcia di Natale dal burocratico nome: «L’Occidente incontra l’Oriente».
Nulla di cui meravigliarsi: oggi i residenti della zona, in tutto meno una trentina di isolati, sono 8.600 e tra di loro circa 4.400 sono nati all’estero. L’89% di questi ultimi arriva dall’Asia. Solo una trentina i bimbi di origini tricolori battezzati ogni anno. Due anni fa l’associazione dei negozianti italiani organizzò una gara di canto. Il repertorio prevedeva solo canzoni nella migliore tradizione del Bel canto. A vincere fu un tenore coreano. Quasi contemporaneamente si tennero le elezioni per la carica di consigliere comunale. In questo caso ad avere la meglio fu una americana con origini a Shanghai. Si è compiuta così la conquista iniziata ormai 40 anni fa, quando il vicino quartiere degli immigrati cinesi iniziò ad espandersi a spese della comunità italiana. Come in Italia le vie sono ora piene di pubblicità di centri di messaggi e di rosticcerie asiatiche. New York però è sempre un passo avanti: anche i cinesi di Chinatown si stanno imborghesendo e hanno iniziato a traslocare in zone più eleganti. Lasciando posto ai cugini poveri malesi e vietnamiti.
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