LA MEMORIA DIVISA Quel no di Pisapia ai fiori per tutti i caduti. I repubblichini (come Dario Fo) ragazzi ai quali la vita non concesse di essere eroi partigiani. LA STORIA DI MIO PADRE Il pane caldo portato ai prigionieri e quella fuga con i carcerieri che tifano per te
La riconciliazione ha il suo prezzo, come tutto. I bei gesti lasciano il tempo che trovano. Se non c'è dramma (quello, per esempio, di Giovanni Paolo II in Israele) meglio andarci piano con i simboli.
Credo che Giuliano Pisapia, rifiutando di rendere omaggio ai caduti della Rsi, avesse in mente un pensiero del genere. Se c'è stato uno sgarbo, non è certo nei riguardi di quei poveri ragazzi, quanto della Rsi.
Ma qui sta, secondo me, il suo sbaglio.
Mi spiegherò con una piccola storia vera. Mio padre, classe 1925, quando ancora non aveva compiuto i diciott'anni fu chiamato a prestare il servizio militare sotto la Rsi.
Giravano a quel tempo brutte voci, per esempio che i coscritti sarebbero finiti sul fronte russo a dare man forte ai tedeschi. Mio padre allora si diede alla fuga, tanto che il regime lo condannò a morte per renitenza alla leva.
Dal paese del bresciano dove viveva, dopo qualche tempo passato in un campanile, se ne andò in giro per l'Italia del Nord, nascondendosi un po' dappertutto.
Le ricerche del fuggitivo non dovevano essere frenetiche. Una volta fu perfino arrestato, a Milano, e imprigionato nella caserma di Corso Italia. Mi raccontò che quelli furono i giorni migliori della sua avventura, perché i suoi carcerieri erano ragazzi come lui, che gli portavano tutte le mattine il pane fresco (merce rara, a quel tempo). In cella aveva perfino un letto.
Venne il momento di scappare. Mio padre saltò dalla finestra del primo piano sotto gli occhi divertiti dei repubblichini, che reagirono sparando in aria
Credo che Giuliano Pisapia, rifiutando di rendere omaggio ai caduti della Rsi, avesse in mente un pensiero del genere. Se c'è stato uno sgarbo, non è certo nei riguardi di quei poveri ragazzi, quanto della Rsi.
Ma qui sta, secondo me, il suo sbaglio.
Mi spiegherò con una piccola storia vera. Mio padre, classe 1925, quando ancora non aveva compiuto i diciott'anni fu chiamato a prestare il servizio militare sotto la Rsi.
Giravano a quel tempo brutte voci, per esempio che i coscritti sarebbero finiti sul fronte russo a dare man forte ai tedeschi. Mio padre allora si diede alla fuga, tanto che il regime lo condannò a morte per renitenza alla leva.
Dal paese del bresciano dove viveva, dopo qualche tempo passato in un campanile, se ne andò in giro per l'Italia del Nord, nascondendosi un po' dappertutto.
Le ricerche del fuggitivo non dovevano essere frenetiche. Una volta fu perfino arrestato, a Milano, e imprigionato nella caserma di Corso Italia. Mi raccontò che quelli furono i giorni migliori della sua avventura, perché i suoi carcerieri erano ragazzi come lui, che gli portavano tutte le mattine il pane fresco (merce rara, a quel tempo). In cella aveva perfino un letto.
Venne il momento di scappare. Mio padre saltò dalla finestra del primo piano sotto gli occhi divertiti dei repubblichini, che reagirono sparando in aria
e gridando «è fuggito il prigioniero» col tono di chi racconta l'ultima barzelletta. Forse provavano un po' di invidia per lui, che se la dava a gambe e magari andava incontro a un destino un po' migliore del loro.
Di quel periodo, mio padre- che era antifascista e di sinistra conservava tre ricordi vividi. Il primo era l'attraversamento a nuoto del Tanaro sotto un ponte sorvegliato dai tedeschi. Il secondo era il volto dell' uomo di colore che gli tirò una mitragliata da un caccia americano. Il terzo era il sapore del pane in quella caserma milanese.
Mio padre non capì mai perché il suo coetaneo Dario Fo si vergognasse tanto ad ammettere di essere stato repubblichino. Magari era uno di quelli che, quel giorno, spararono in aria alla vista di un povero cristo come loro che cercava di scappare. Tutta questa verginità politica, si domandava, non ci farà rincretinire tutti?
Da questa storia vorrei trarre una morale il meno possibile moralista. Posso capire che passare un colpo di spugna sul passato sia un gesto ad alto rischio di retorica.
Le differenze esistono, e la pace si fa accettandone il dramma, non fingendo che il dramma non ci sia. Posso capire chi dice che «i morti non sono tutti uguali», anche se non è vero: sarebbe vero se là, sotto terra, ci fosse lei, la Rsi in persona. Ed è qui che Pisapia sbaglia: rifiuta di compiere un atto simbolico in nome di un alto simbolo (la Rsi). Il problema è che, là sotto, ci sono solo dei poveri ragazzi, perlopiù figli di contadini, ai quali la vita non concesse di essere eroi partigiani, ma che morirono lo stesso, e forse pensarono di farlo per il bene dell'Italia. Uno di loro avrebbe potuto chiamarsi, chissà... Dario Fo?
La pace sociale è una cosa seria e non la si fa con i gesti simbolici, ok. Ora, però, tutti dicono che stiamo andando verso il tracollo. Speriamo di no, ma se dovesse succedere, quando l'Italia così come la conosciamo non esisterà più, cosa resterà? La memoria delle vecchie lotte politiche non servirà più a niente, e prima o poi verrà cancellata. E cosa resterà? Resteranno solo la cura e la stima della persona umana, la pietà per il suo dolore, la passione per le sue conquiste, la comprensione per i suoi errori. E la politica si giocherà tutta lì.
Rose, dunque, corone di rose per i partigiani morti. E sia. Ma una margherita anche per i repubblichini. Colta magari sul ciglio di una tomba, senza spese per la comunità. Perché nessun uomo è un'isola, diceva John Donne, e dimenticarne uno è come dimenticarli tutti.
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