Da libero
Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo ampi stralci dell’articolo Centrodestra, un fallimento umano di Alessandro Campi, contenuto nel numero in uscita della rivista Charta Minuta. L’oggetto di quest’intervento (...) dovrebbe essere il futuro della destra italiana. Ma esiste ancora in Italia una realtà politica minimamente omogenea che possa essere definita con questo termine? Si può immaginare il futuro di qualcosa che forse ha cessato di esistere? Da qualche tempo, ragionando sulle vicende che hanno portato, all’incirca un anno fa, alla traumatica rottura tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, alla successiva diaspora del gruppo dirigente che era confluito nel Popolo della libertà provenendo da Alleanza nazionale (e prim’ancora dell’Msi) e infine alla nascita, dopo un lungo travaglio, di una formazione a tutt’oggi dai contorni incerti quale Futuro e libertà, mi sono convinto che quello che molti osservatori hanno provato a descrivere come un processo di irreversibile divaricazione determinatosi all’interno di quel gruppo a partire da scelte, orientamenti e interessi che erano divenuti con tutta evidenza inconciliabili, in realtà si configuri - soprattutto se osservato a posteriori e con un relativo distacco - come una vera e propria catastrofe politico-antropologica, come una sorta di collasso emotivo-caratteriale che ha finito per coinvolgere, al centro come alla periferia, un’intera comunità politica, la cui conseguenza estrema rischia di essere, per l’appunto, la definitiva scomparsa della destra politico-culturale dalla scena pubblica nazionale. In che senso la parabola della destra italiana, per come si è realizzata negli ultimi mesi, in un crescendo di scontri, divisioni e incomprensioni, può essere rappresentata alla stregua di una catastrofe antropologica invece che come un fenomeno, per certi versi persino fisiologico, di metamorfosi e trasformazione politica o, nel peggiore dei casi, come un esempio nemmeno molto raro nella storia di disgregazione e consunzione storica? Di culture, famiglie e tradizioni politiche entrate in crisi e poi scomparse, perché dimostratesi non più in grado di reggere le sfide della storia e di risultare attrattive e convincenti agli occhi dei loro stessi sostenitori di un tempo, ne abbiamo conosciute diverse, anche nel corso della recente storia italiana. Basti pensare agli anni terminali della cosiddetta Prima Repubblica, che furono per l’appunto caratterizzati dalla crisi di credibilità, dalla perdita di legittimazione sociale e dalla successiva rapida scomparsa di tutte le famiglie politiche (dalla democristiana alla liberale, dalla socialista alla repubblicana) che per un cinquantennio circa avevano costituito il fondamento, sul piano dei valori e dell’azione di governo, del nostro sistema politico-istituzionale. Al tempo stesso, nel corso della storia, inclusa quella nazionale, abbiamo conosciuto fenomeni assai interessanti di adattamento, trasformazione e cambiamento, in alcuni casi anche parecchio radicali. Ciò è avvenuto tutte le volte che un partito, una comunità politica o una tradizione ideologica si sono trovati dinnanzi ad un tornante della storia ed hanno dimostrato di saperlo affrontare mettendo in gioco se stessi: le proprie basi dottrinarie come i propri orientamenti programmatici, il proprio stile d’azione e finanche il proprio linguaggio. È in virtù di un profondo processo di revisione, per fare un esempio, che il movimento laburista britannico è riuscito, sotto la guida di Tony Blair, a diventare una forza di governo credibile ed autorevole dopo il lungo domini o del partito conservatore e dopo che per decenni esso era rimasto inchiodato alla sua matrice tradizionalmente marxista. Qualcosa di analogo, con riferimento all’Italia, fece Craxi quando ruppe - in una prospettiva riformista-liberale e modernizzatrice - con una certa tradizione di socialismo massimalista che aveva condannato quest’ultimo ad una perpetua subalternità al comunismo. Insomma, un movimento politico-ideologico può, da un lato, scomparire brutalmente dalla scena, quando con ogni evidenza ha esaurito il suo ciclo vitale o visto affievolirsi le ragioni ideali che lo giustificavano dinnanzi alla storia, oppure, dall’altro, può assumere (...) una configurazione inedita, all’altezza dei tempi e delle esigenze nuove che la società pone continuamente alla politica, il che significa riuscire a contemperare il cambiamento con una relativa continuità nel tempo, la forza (necessaria) dell’innovazione con la salvaguardia (altrettanto necessaria) della tradizione. La realtà alla quale ci stiamo riferendo - la destra post-missina arrivata negli ultimi mesi al suo punto massimo di disgregazione e dispersione - non rientra in nessuna di queste due categorie. Non si può dire, ad esempio, che la sua sia una crisi di identità frutto di un cambio repentino del clima storico-culturale oppure l’esito inevitabile di una eccessiva permanenza al potere. Al contrario, la destra italiana è entrata con un ruolo da protagonista nel “grande gioco” della politica solo all’indomani della traumatica scomparsa dei partiti storici dell’Italia repubblicana. Può perciò essere considerata una forza relativamente giovane, tutt’altro che logorata dalla routine, non foss’altro perché è rimasta per decenni estranea agli equilibri di potere - sociale e politico - che hanno caratterizzato il precedente regime “partitocratico”. Per di più ha potuto sfruttare a proprio favore il cosiddetto “vento della storia”, vale a dire quel vero e proprio cambio epocale rappresentato dal tracollo irreversibile dell’utopia comunista e, più in generale, dalla crisi della cultura in senso lato progressista. Ma nemmeno si può dire che le sue fibrillazioni odierne, la confusione di strategia e di identità della quale la destra italiana attualmente soffre, siano il frutto di un qualche radicale e doloroso processo di revisione de i suoi orientamenti culturali di base o del suo storico patrimonio politico . Non c’è dunque una crisi di trasformazione o di crescita, con le inevitabili tensioni che ciò comporta, che possa giustificare il marasma nel quale essa è attualmente piombata, sino a disperdere le proprie energie in mille e infruttuosi rivoli. È vero, a suo tempo, nell’ormai lontano 1995, c’è stato il lavacro purificatore di Fiuggi, che all’epoca è sicuramente servito alla destra italiana per liberarsi agli occhi degli italiani dalle scorie del nostalgismo fascista; ma a conti fatti quell’episodio si è risolto in null’altro che in una gigantesca operazione di rimozione del passato e di azzeramento della propria memoria storica. La destra liberale, conservatrice, nazionale, riformista che all’epoca fu annunciata non è mai venuta alla luce con una qualche compiutezza, e ciò per la semplice ragione che alla revisione effettiva dei propri modelli e riferimenti culturali da allora in avanti si è preferito giustapporre uno stile politico, che ci si è compiaciuti di definire pragmatico e post-ideologico e che invece è stato soltanto mimetico e opportunistico. Quanto al più recente, e ben più serio, tentativo fatto da Gianfranco Fini di definire i contorni di una destra effettivamente “nuova” - il che altro non poteva significare che dare finalmente corpo e sostanza a quanto a Fiuggi era stato (...) annunciato - si è scoperto, ora che anche questo tentativo sembra essersi arenato, che dal mondo della destra politico-culturale d’estrazione missina esso è stato vissuto alla stregua di un’avventura solitaria e priva di costrutto, rispetto alla quale si è preferito alzare un muro di indifferenza e fastidio, quando non si è scomodata, per liquidarlo, la categoria sempre ricorrente del tradimento. Insomma, se la destra oggi rischia di scomparire dalla scena - di diventare socialmente, politicamente e culturalmente irrilevante e sterile dopo essere stata per un cinquantennio una realtà marginale ma a suo modo vitale e piena di fermenti - non è a causa dei travagli intellettuali e dei contrasti ideali che l’attraversano (che anzi si è cercato di sfuggire per quanto possibile senza rendersi conto che solo grazie ad essi questa stessa destra si sarebbe potuta trasformare in qualcosa di realmente nuovo senza per questo dover perdere o forzatamente rinnegare le sue più antiche e autentiche matrici); e non è nemmeno perché gli elettori o la storia le hanno repentinamente voltato le spalle sino a renderla superata e condannata ad una inevi tabi le senescenza. Anzi, all’ombra del potere berlusconiano, che per quanto incrinato resta tuttavia ancora solido, parte consistente di questa destra si sta godendo da anni una stagione di crescenti e perduranti successi mondani, come mai era accaduto nella sua storia. E allora cosa è accaduto che possa spiegare perché, ad esempio, all’interno stesso del mondo berlusconiano quelli che fino a qualche tempo fa erano considerati alleati affidabili e compagni di strada con i quali si era condivisa un’esaltante avventura politica vengano oggi sprezzantemente liquidati come “fascisti” o come esponenti, sempre più scomodi e sgraditi, di un mondo che si considera rimasto irrimediabilmente legato al passato, quasi che per essi vent’anni di storia siano trascorsi invano? Come è possibile, per fare un altro esempio, che le posizioni innovative di Fini, che sino a qualche tempo fa riscuotevano plausi e attenzioni ed erano valutate come il segno di un processo di cambiamento profondo e al tempo stesso autentico, oggi non riscuotano più alcun interesse e siano anzi guardate con crescente sufficienza? Come è possibile, per chiudere questa amara carrellata, che la destra rimasta organica al mondo berlusconiano, pur godendo di importanti spazi d’azione e di grandi responsabilità a livello governativo, non riesca a rendersi minimamente riconoscibile e visibile agli occhi dell’opinione pubblica e si trovi dunque costretta a inseguire o a subire in silenzio le battaglie e la campagne propagandistiche della Lega? La spiegazione che mi sono dato, sul filo della psicologia politica, è che nell’arco degli ultimi dodici mesi ciò a cui abbiamo assistito è stato il collasso per così dire nervoso, il cedimento emotivo e caratteriale, di un gruppo dirigente rimasto lungamente autoreferenziale e preda della deriva settaria che da sempre condanna all’estinzione i piccoli movimenti che basano la propria forza sulla chiusura verso il mondo circostante. Non avendo operato al suo interno, nel corso degli ultimi vent’anni, alcun sostanziale cambiamento, avendo rifiutato o rigettato qualunque innesto ricostituente dall’esterno, questo gruppo ha finito per consumarsi (...) in un crescendo di lotte fratricide e di contese dettate sostanzialmente da antichi livori personali e da ripicche spesso infantili. Quella che risulta (...) è una prova collettiva di immaturità politica che alla fine si è tradotta, più che in divisioni ideologiche e in differenti orizzonti d’azione, in litigi personali e nella rottura traumatica dei legami di solidarietà (e in alcuni di vera e propria amicizia) che erano stati il loro vero cemento. Se da un lato ha dunque negativamente pesato il logoramento indotto da un eccesso di frequentazione e confidenza (...), dall’altro ha invece giocato un ruolo altrettanto negativo il permanere di riflessi mentali, di atteggiamenti e modi d’agire che, nei vent’anni in cui la destra italiana s’è trovata al ricoprire un ruolo pubblico eminente, sono in realtà rimasti i medesimi di quando essa costituiva un universo tenuto ai margini dalla politica ufficiale (...). Il consumarsi dei rapporti tra persone che all’improvviso (...), hanno semplicement e scoperto di non avere più nulla da dirsi di interessante si è insomma sovrapposto al perdurare di vecchi e rovinosi tic: il settarismo, di cui si è detto, vale a dire la tendenza a frazionarsi e dividersi in gruppi sempre più minuscoli; il senso di alterità e di diffidenza verso un mondo esterno sempre percepito come estraneo e minaccioso; lo spirito di rivincita e il risentimento tipici di chi ha introiettato nel profondo del proprio animo la condizione dello sconfitto e del perdente; la disabitudine a intrecciare relazioni sociali paritarie con chi non provenga da un percorso formativo analogo al proprio; una postura sempre aggressiva e polemica che è caratteristica notoria delle persone insicure (...) ; e da ultimo un modo di impostare le proprie battaglie, politiche e culturali, sempre sul filo del dilettantismo e dell’improvvisazione (...). Ecco, è in questo senso che parlo - forse esagerando - d’una catastrofe politica, d’una crisi di identità e di strategia della destra italiana che mi sembra motivata più che altro da una somma di ma lumori personali e complessi stati d’animo, dall’esaurirsi della fiducia in se stessi proprio nel momento in cui essa si è trovata a capitalizzare il massimo dell’attenzione e dei consensi, dal rifiuto quasi patologico da parte del suo gruppo dirigente a mescolarsi col mondo, a mettersi seriamente alla prova dinnanzi ad una società in rapida e radicale trasformazione, a rimuovere le incrostazioni di un passato con il quale i conti non sono mai stati fatti sino in fondo. Le oscillazioni odierne della pattuglia finiana, che sonda ogni possibile strada senza decidersi a imboccarne nessuna, i silenzi e le indecisioni del medesimo Fini, l’obiettiva subalternità e la sostanziale mancanza di un progetto politico-culturale di quella parte di destra che ha deciso di affidare le proprie chance di sopravvivenza al perdurare del blocco di potere costruito da Berlusconi, la cattiva prova di sé, nel segno della disinvoltura se non del carrierismo (...), che in questi mesi hanno dato molti singoli esponenti di questo mondo: tutto ciò sembra suonare davvero come la “fine di un mondo”, come la pessima conclusione di una storia politica che avrebbe potuto avere ben altro corso se invece che perdersi in accuse reciproche di tradimento, in liti da fanciulli e in meschine vendette personali, come è accaduto, ci si fosse dimostrati per davvero (...) gli eredi di una tradizione che non ha mai disdegnato il rischio, l’avventura o l’andare controcorrente e che non ha mai anteposto il tornaconto dei singoli al bene comune e all’amor di patria.Suona ironico (...) l’individualismo esasperato di cui hanno saputo dar prova, nei momenti decisivi, coloro che per anni si sono riempiti la bocca di appelli allo spirito comunitario e al senso di appartenenza! Il futuro della destra italiana? Oggi, pensando le cose che ho detto, dinnanzi ad un fallimento che mi sembra umano prima che politico, davvero non saprei quale possa essere. di Alessandro Campi
Nessun commento:
Posta un commento