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ubblichiamo un’anticipazione dell’intervento “Contractors: guerra pubblica e sicurezza privata” che Deane-Peter Baker, professore associato di Etica all’University of KwaZulu-Natal in Sud Africa e autore di Just Warriors: the Ethics of Privatized Force (Continuum), terrà oggi pomeriggio alle 15 durante il Festival “èStoria” di Gorizia (Tenda Erodoto). Con lui Giampiero Spinelli e Pino Scaccia.Si dà più o meno per scontato che definire qualcuno “mercenario” comporti necessariamente un giudizio morale negativo. Ma cosa c’è di male nell’essere un mercenario? Certamente in alcuni casi questi “combattenti a contratto” (come preferisco chiamarli) si sono comportati in modo deplorevole, ma lo stesso può dirsi dei membri in uniforme dei regolari eserciti nazionali. Qualunque cosa ci sia di apparentemente sbagliato nei combattenti a contratto dev’essere per forza, si crede, una caratteristica che non appartiene ai soldati di terra, acqua e cielo che servono con onore le loro nazioni.
Ma si consideri, ad esempio, la credenza comune che i combattenti a contratto pongano dei problemi da un punto di vista morale perché «farebbero qualunque cosa per il danaro». Verifiche empiriche hanno dimostrato che questa affermazione è semplicemente falsa: non è vero che tutti, o la maggior parte dei combattenti a contratto siano motivati esclusivamente da ragioni pecuniarie. Per converso, una valutazione onesta delle motivazioni del personale militare in uniforme dovrà riconoscere che prospettive di carriera e incentivi finanziari giocano un ruolo molto importante. È vero che dovremmo pensare male delle persone che farebbero qualunque cosa per danaro. È tuttavia discutibile condannare legittimamente la totalità dei combattenti a contratto.
USARE LA FORZA
Si consideri anche l’affermazione che l’utilizzo di combattenti a contratto possa mettere a repentaglio il monopolio statale dell’uso legittimo della forza. Dal momento che, come ci ha insegnato Max Weber, il monopolio del legittimo uso della forza è la caratteristica principale dello stato post-Westfaliano, questa preoccupazione è fondata, e dev’essere presa sul serio. Di fronte a un’analisi accurata, tuttavia, risulta difficile vedere dove stia il problema. Ciò che sfugge alla maggior parte di coloro che sollevano simili preoccupazioni è il fatto che l’apparato militare di una nazione non è lo Stato in sé, bensì un agente dello Stato. I militari agiscono per conto dello Stato che servono. Dov’è dunque questa grande differenza se lo Stato sceglie, per agire in suo nome, una forza di combattenti a contratto?
SOTTO CONTROLLO
Naturalmente lo Stato deve trovare dei modi per assicurarsi che coloro che agiscono per suo conto siano tenuti sotto controllo e non valichino i limiti della sua autorità. Ma ciò vale indipendentemente dal fatto che l’agente sia “pubblico” o “privato”. E i meccanismi tipicamente impiegati dagli Stati per assicurare la sottomissione dei loro impiegati militari in uniforme alla leadership civile eletta democraticamente si possono egualmente applicare per assicurare un comportamento appropriato da parte dei combattenti a contratto.
Naturalmente non sostengo che non vi siano delle differenze significative fra il personale militare statale e i combattenti a contratto, o che si potrebbe rimpiazzare per intero il primo col secondo senza perdere qualcosa. Una differenza critica sorge con l’aspettativa del sacrificio. In circostanze sufficientemente gravi è normale che uno Stato si aspetti che il proprio personale in uniforme sia pronto a sacrificare la propria vita per assicurare il successo di una missione.
Per esempio, durante la guerra delle Falkland del 1982, il comandante della task force britannica, il Regio Ammiraglio Sandy Woodward, aveva bisogno di sapere se lo Stretto di Falkland fosse stato minato o meno dalle forze argentine. Non avendo a disposizione alcun dragamine, Woodward non ebbe altra scelta se non di ordinare alla nave più “sacrificabile” della sua squadra speciale, la fregata HMS Alacrity, di navigare a zig zag attraverso lo Stretto di Falkland, nonostante la quasi totale certezza che, se avesse urtato una mina, sarebbe affondata, con gran perdita di vite umane.
La disponibilità al sacrificio è qualcosa che non ci si può aspettare da un combattente a contratto. I combattenti a contratto intraprendono compiti pericolosi in base a un calcolo basato su costi e benefici, spesso dimostrando grande coraggio, ma non esiste beneficio che possa giustificare la pretesa che un combattente a contratto sacrifichi deliberatamente la propria vita. Questa è dunque la ragione per cui sostengo che sarebbe sbagliato affidare missioni di elevata importanza nazionale a combattenti a contratto.
LIMITI DELLO STATO
Vi è però, in tutto questo, un rovescio della medaglia: se non ci si può aspettare che un combattente a contratto sacrifichi la propria vita al servizio dello Stato, c’è pure un limite a quanto si può chiedere al proprio personale militare in uniforme in missioni che poco hanno a che fare con l’interesse nazionale. In principio, mi sembra che quanto minore sia l’interesse nazionale in una missione, tanto lo possa essere l’aspettativa che i soldati di terra, acqua e cielo di una nazione rischino la propria vita per portarla a termine. Ciò rappresenta naturalmente un problema per interventi umanitari come quello che la Nato sta conducendo oggi in Libia. Se queste sono missioni legittime e importanti, ma se al tempo stesso non possiamo aspettarci che le nostre forze armate corrano grossi rischi per intraprenderle, cosa possiamo dedurne?
La buona notizia, secondo me, è che il problema non si applica ai combattenti a contratto. Dal momento che si arruolano per missioni specifiche (piuttosto che servire, in senso lato, il loro Paese), essi acconsentono pienamente a prendersi dei notevoli rischi per eseguire interventi umanitari. I servizi offerti dai combattenti a contratto ci forniscono dunque i mezzi per portare a termine i nostri doveri umanitari adempiendo allo stesso tempo al nostro dovere di non sottoporre i nostri soldati a rischi eccessivi.
di Deane-Peter Baker
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