Con il grande fisico, Nobel per la Pace, formò la coppia di ferro della dissidenza. Lottò contro l'Urss di Stalin e dei suoi successori. Non fu tenera neppure con Putin. Fece 5 anni di confino. Eppure per la sinistra italiana era una rompiscatole esaltata
«Tipica, tragica e bella». Con questi tre aggettivi Yelena Bonner, morta a Boston a 88 anni, volle una volta definire la sua vita. La donna che, da sola o accanto al marito, lo scienziato Andrej Sacharov, si è battuta strenuamente per la libertà e per i diritti umani, ha saputo qualificare come bella, facendone un bilancio, un’esistenza di immani travagli, di immani sofferenze, di immani lotte. Eppure bella è stata senza dubbio, se bello è dedicarsi a ciò che si ritiene giusto. La sua era, nell’asiatico Turkmenistan, una famiglia di ebrei comunisti. Il padre occupava incarichi di responsabilità ai livelli più alti della Nomenklatura. Un successo professionale e politico che negli anni staliniani non preannunciava nulla di buono. Infatti nel 1938, mentre imperversavano le purghe, fu accusato di crimini - ovviamente inventati - e fucilato. Per contagio la madre soffrì anche lei, durante 18 anni, i tormenti dei campi di lavoro e del confino. Vicende appunto tipiche, in quel mondo infernale, per utilizzare un altro aggettivo di Yelena Bonner. Che, giovanissima, fu infermiera volontaria nella seconda guerra mondiale, e in guerra venne ferita agli occhi da una scheggia di mortaio. Ne derivarono guai alla vista che non guarirono mai del tutto: chi come me l’ha conosciuta ricorda le sue lenti scure. A guerra finita si laureò in medicina e scelse la pediatria come specializzazione. Sposò allora un collega dal quale ebbe due figli, Alex e Tatiana. Il matrimonio tuttavia non resse. Benché segnata terribilmente dal terrore staliniano, Yelena credette nella destalinizzazione krusceviana («il grande errore della mia vita») e nel 1956 s’iscrisse al partito. Ne uscì nel 1972, quando già militava nei movimenti per i diritti umani.
In quell’ambiente conobbe Sacharov, famoso come scienziato - era stato uno dei padri della bomba all’idrogeno sovietica e faceva parte dell’Accademia sovietica delle scienze - e ancor più famoso come dissidente. In quello stesso 1972 in cui divorziò dal Pcus Yelena sposò Sacharov. «Eravamo - disse - persone assolutamente libere in uno Stato assolutamente non libero». Del mite ribelle Sacharov, la Bonner divenne la consigliera e l’ispiratrice. Quell’uomo che se soltanto si fosse piegato ai rituali ottusi del regime e alla langue de bois dei suoi dirigenti avrebbe potuto godere d’ogni privilegio preferiva, nel nome della sua coscienza, essere bersaglio della polizia e d’una magistratura indegna d’essere definita tale.Mi capitò d’intervistarlo - avendo ottenuto grazie a vie traverse il suo indirizzo - quando seguii Giovanni Leone in un viaggio presidenziale in Urss nel novembre 1975. La comitiva dei giornalisti al seguito era invitata al Bolshoi per uno spettacolo. Io salii invece le scale dell’edificio grigiastro - avvolto da odore di cavoli bolliti - dove viveva Sacharov. Lo vidi insieme a parenti e amici - Yelena non c’era - in una stanzone nudo alle cui pareti erano appesi, come ornamento, guidoncini di Rotary stranieri. A un operaio italiano quella casa sarebbe parsa poco confortevole. Mi disse cose semplici. Che non voleva in alcun modo recar danno al suo Paese ma soltanto rivendicare il diritto di dire quello che pensava.
Toccò a Yelena, non ad Andrej colpito da un divieto del regime, di ritirare a Oslo, nel 1975, il premio Nobel per la Pace che a lui era stato assegnato. Sapiente e paziente quale era, quel reprobo infastidiva il potere. Nel 1980 lo scaraventarono a Gorki, seicento chilometri da Mosca, accusandolo d’avere criticato l’azione sovietica contro l’Afghanistan. Rimaneva indomita Yekena. Ma anche a lei furono inflitti cinque anni di confino nella stessa Gorki «per avere sistematicamente diffuso informazioni calunniose sull’Unione Sovietica». Tale fu la violenza della campagna propagandistica contro la Bonner, indicata come traditrice della Patria e subissata di minacce, che lei volle e ottenne che la madre, i figli e due nipoti potessero trasferirsi a Boston. Dove appunto si è spenta, nella casa della figlia Tatiana con cui stava negli ultimi anni. Tornarono entrambi a Mosca, Andrej e Yelena, nel 1986, sull’onda della perestroika gorbacioviana. Sacharov potè godere brevemente la riabilitazione. Se ne andò nel 1989, col crollo del muro di Berlino.
La moglie intrepida fu una vedova non meno intrepida, risoluta nel proseguire in solitario la sua battaglia. Il nuovo corso russo non amava e non ama poi tanto questi oppositori della prima ora, che avevano affrontato il regime quando gli oppositori dell’ultima ora erano proni ai padroni del Cremlino. Fu sostenitrice di Eltsin, e invece critica dura di Putin: cui addebitò senza mezzi termini le guerre di Cecenia, i vincoli all’informazione, gli abusi autoritari. In una lettera gli chiese di dimettersi. Fu meno severa con Medvedev.
Sarà cremata e riposerà accanto al marito nel cimitero moscovita di Vostriakovo. Non sono molti coloro che, nella Russia odierna, ricordano e onorano personaggi come Sacharov e come colei che si battè con lui e per lui. Non molti li ricordano anche in Italia. In compenso io ricordo bene le circonlocuzioni ipocrite, i distinguo tartufeschi con cui gli esponenti di troppa sinistra italiana commentavano la persecuzione di cui erano vittime Andrej Sacharov e Yelena Bonner. Quest’ultima, con il suo attivismo incessante e le sue insistenze implacabili, era dipinta un po’ come una rompiscatole o un’esaltata. In fin dei conti, si mormorava, quel Sacharov aveva pur collaborato con il regime. In un’occasione come quella della morte di Yelena un ripasso di certe situazioni e di certe espressioni è opportuno. Può calmare i bollori di alcuni della sinistra che si atteggiano, nell’Italia d’oggi, a combattenti eroici per la libertà. Ormai ci vuol poco, qui da noi, per essere eroi. Ci voleva di più nell’Urss.
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