Dal 2002 al 2010 gli stipendi sono aumentati del 22,4% contro il 6,8% del settore privato, con un divario medio di 5mila euro. Ma non solo: gli impiegati di Stato stanno a casa 33 giorni in più. Sindacati indignati. Bonanni: "Sono dati fuorvianti"
Posto sicuro, meno ore di lavoro, ma anche retribuzioni più alte. Gli ultimi dati della Banca d’Italia confermano che il pubblico impiego è diventato molto più conveniente rispetto al settore privato. Dal 2002 al 2010, le retribuzioni pubbliche sono cresciute in media da 23.813 euro a 29.165 euro, con un incremento di oltre 5.200 euro (+22,47%). I dipendenti del settore privato hanno portato a casa molto di meno. Le buste paga partivano da 21.029 euro nel 2002 e sono arrivate a 23.275 euro nel 2010, con un incremento del 6,8%. Queste cifre, contenute nella-Relazione annuale di Bankitalia, hanno provocato una reazione «molto vivace», per usare un eufemismo, di Cisl e Uil. Ma i sindacati più vicini al pubblico impiego non hanno contestato i dati.
«Gli amici di Bankitalia hanno avuto qualche sbandamento perchè c’è stato qualche vuoto di direzione », dice Raffaele Bonanni riferendosi alla partenza di Mario Draghi da via Nazionale verso la Bce. Secondo il segretario cislino, «tutti quanti, governo compreso, devono fare chiarezza sul perchè, in un momento così importante si va a toccare una ferita così purulenta ». E ricorda che nelle retribuzioni pubbliche sono comprese quelle di generali, prefetti, ambasciatori, magistrati e manager. Meno criptico il segretario della Uil Luigi Angeletti. «Il pubblico impiego ha già dato », con il congelamento degli aumenti retributivi fino al 2013. «I dati sono formalmente veri ma sostanzialmente falsi - aggiunge perchè le retribuzioni dei non contrattualizzati (magistrati, docenti universitari) sono aumentate del 40%».
La nota è, in ogni caso, dolente, nel momento in cui si annunciano esuberi nel credito, nel tessile, nella contieristica. Il travet è al sicuro da licenziamenti, prepensionamenti, cassa integrazione e quant’altro. Se poi si scopre che lavora di meno e porta a casa di più del dipendente privato, qualcuno potrebbe irritarsi. Trentatre giorni in meno di lavoro all’anno non è cosa da poco, così come un differenziale di retribuzione media superiore a 5.000 euro. Inoltre il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta ricorda a Bonanni che il 4 febbraio scorso è stata firmata coi sindacati un’intesa per il rilancio della contrattazione integrativa, utilizzando le risorse che vengono risparmiate dalle amministrazioni «virtuose». Altra questione delicatissima quella sollevata dal direttore generale di Bankitalia, Fabrizio Saccomanni, al convegno dei giovani industriali di Santa Margherita: quasi il 40 % dei trentenni vive ancora a casa di mamma e papà, contro il 16% dell’inizio degli anni Ottanta. Sono soltanto bamboccioni? In realtà ci sono cause concrete per questo fenomeno italiano: disoccupazione giovanile elevata, salari bassi, instabilità dell’impiego, scolarità inferiore alla media europea. Un problema giovanile emerge chiaramente anche nell’imprenditoria. Gli imprenditori «innovatori» sono in numero minore rispetto agli altri Paesi. Oltre la metà dei dirigenti ha più di 55 anni d’età, contro i 40 anni della media europea.
I giovani sono pochi e in quattro casi su cinque, ricorda Saccomanni, appartengono alla famiglia proprietaria dell’impresa. In due terzi delle imprese familiari italiane (l’80% del totale) la gestione è di un componente della famiglia. Questo tipo di azienda tende ad adottare pratiche manageriali meno incentivanti, fa meno ricerca, ha minore produttività e scarsa penetrazione nei mercati emergenti. Un modello, evidentemente, da cambiare.
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