La destra italiana del dopoguerra è vissuta con una pietra al collo: il retaggio del Ventennio. Mentre nel resto del mondo democratico fascismo e nazismo diventano parole impronunciabili, da noi lo spazio della destra veniva stabilmente occupato da una formazione che non faceva mistero di richiamarsi a Mussolini. L’ancoraggio a un’idea maledetta non solo la condannava a una condizione di illegittimità sul piano morale ma la relegava anche nel ghetto degli appestati. I danni di quel lungo abbraccio si continuano a pagare ancor oggi. Da un lato, la contaminazione col fascismo ha intriso l’immaginario della destra a tal punto da impedirle di concepire altra iniziativa politica che non fosse inscritta nel recinto dei tempi che furono. Dall’altro, per la paura del contagio, ha spinto ogni possibile interlocutore a disertare il suo spazio. La simbiosi tra destra e fascismo è stata tanto prolungata che, quando negli anni Novanta il passaggio al bipolarismo le ha offerta l’opportunità di scendere in campo da protagonista, nell’immediato si è dovuta far sdoganare da un im-politico come il Cavaliere e poi consegnarsi a mani vuote a chi - sempre Berlusconi - inventava la «destra che non c’è». La riprova che quella troppo lunga convivenza con i fantasmi del Ventennio le hanno impedito di ri-sintonizzarsi con il nuovo mondo, fatto di democrazia, pluralismo e crescita economica, la si è avuta allorché si è «azzardata» a prendere una sua strada. Senza più l’antica identità, Gianfranco Fini ha dovuto rimediarne una nuova che non aveva nulla in comune con la precedente.
Un documentato saggio della cronica incapacità a liberarsi da quella zavorra che la destra si è ritrovata al collo viene dal nuovo lavoro di Antonio Carioti, I ragazzi della fiamma. I giovani neofascisti e il progetto della grande destra 1952-1958 (Mursia), che continua e completa la ricerca condotta con il libro Gli orfani di Salò. Il «Sessantotto nero» dei giovani neofascisti nel dopoguerra. 1945-1951. Si tratta di un’accurata ricostruzione del dibattito ideologico, del confronto politico, della stessa lotta correntizia che si sono svolti all’interno della galassia del neofascismo nel momento della sua rifondazione dopo l’affondamento del regime. Il lascito ideale e politico del fascismo era la velleitaria «terza via»: terza rispetto al comunismo e al capitalismo nonché rispetto a democrazia liberale. Il contesto era, però, irriconoscibile: non più, come nel primo dopoguerra, crisi della società occidentale, ma suo rilancio sia in termini di valori che di istituzioni, sia di sviluppo economico che di crescita civile. In questo scenario il neofascismo non è mai riuscito, come dimostra Carioti, a diventarne un protagonista.
Filippiche contro la modernità, affondi contro la «degenerata» democrazia, ricorrenti pulsioni alla violenza. Per il resto tante lotte intestine e altrettante divisioni consumate nel partito e nello stesso mondo giovanile, la più importante tra i socializzatori e gli evoliani, «i figli del sole». Cuore del problema l’eterna ricerca di un’uscita dal tunnel in cui s’erano cacciati con il loro nostalgismo. Nemmeno negli anni al centro della ricostruzione di Carioti, in piena guerra fredda, i neofascisti riescono a cogliere l’opportunità di rientrare nel gioco politico. Il partito prima con De Marsanich, poi con Michelini si schiera con l’Occidente a fianco della Nato, ma fa finire nel nulla il progetto di costruire una Grande Destra, alternativa al Pci e alla Dc.
I giovani - Rauti, Erra, Gianfranceschi, Caradonna - animano un ricco confronto politico, danno vita a un’intensa attività culturale, ma senza mai schiodarsi dall’identità, irrimediabilmente perdente, del neofascismo.
Un documentato saggio della cronica incapacità a liberarsi da quella zavorra che la destra si è ritrovata al collo viene dal nuovo lavoro di Antonio Carioti, I ragazzi della fiamma. I giovani neofascisti e il progetto della grande destra 1952-1958 (Mursia), che continua e completa la ricerca condotta con il libro Gli orfani di Salò. Il «Sessantotto nero» dei giovani neofascisti nel dopoguerra. 1945-1951. Si tratta di un’accurata ricostruzione del dibattito ideologico, del confronto politico, della stessa lotta correntizia che si sono svolti all’interno della galassia del neofascismo nel momento della sua rifondazione dopo l’affondamento del regime. Il lascito ideale e politico del fascismo era la velleitaria «terza via»: terza rispetto al comunismo e al capitalismo nonché rispetto a democrazia liberale. Il contesto era, però, irriconoscibile: non più, come nel primo dopoguerra, crisi della società occidentale, ma suo rilancio sia in termini di valori che di istituzioni, sia di sviluppo economico che di crescita civile. In questo scenario il neofascismo non è mai riuscito, come dimostra Carioti, a diventarne un protagonista.
Filippiche contro la modernità, affondi contro la «degenerata» democrazia, ricorrenti pulsioni alla violenza. Per il resto tante lotte intestine e altrettante divisioni consumate nel partito e nello stesso mondo giovanile, la più importante tra i socializzatori e gli evoliani, «i figli del sole». Cuore del problema l’eterna ricerca di un’uscita dal tunnel in cui s’erano cacciati con il loro nostalgismo. Nemmeno negli anni al centro della ricostruzione di Carioti, in piena guerra fredda, i neofascisti riescono a cogliere l’opportunità di rientrare nel gioco politico. Il partito prima con De Marsanich, poi con Michelini si schiera con l’Occidente a fianco della Nato, ma fa finire nel nulla il progetto di costruire una Grande Destra, alternativa al Pci e alla Dc.
I giovani - Rauti, Erra, Gianfranceschi, Caradonna - animano un ricco confronto politico, danno vita a un’intensa attività culturale, ma senza mai schiodarsi dall’identità, irrimediabilmente perdente, del neofascismo.
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