domenica 2 settembre 2012

San Bernardino da Siena: ovvero il nome di Cristo contro l’usura




Sempre nella tradizione cristiana viva fu l’attenzione alle problematiche che derivavano dalle pratiche vigenti nel mondo economico. Sicuramente, tra le tante esistenti, il posto principale era ricoperto dal fenomeno dell’usura. Mancava, all’epoca, un sistema bancario efficace ed onesto, ma del resto gli scambi ed i commerci andavano sempre di più crescendo e sviluppandosi. La scarsità di moneta, solo metallica e preziosa (aurea ed argentea), impediva e frenava gli scambi commerciali e spesso il baratto era ancora usatissimo.

Già nella cultura ebraica prima e classica poi, il fenomeno dell’usura era socialmente rivelante: sovente chi possedeva grosse quantità di moneta preferiva prestarla contro un interesse, piuttosto che lanciarsi in commerci o traffici che richiedevano organizzazione, capacità imprenditoriali notevoli ed anche uno spiccato senso degli affari, tutte cose che spesso non erano possedute da quei soggetti in cui si concentrava la massa monetaria.

Il problema più grande era sempre quello della fissazione del tasso di interesse che il prenditore di moneta doveva rifondere a chi gliela prestava: dati i rischi esistenti nell’esercizio dei commerci, le lunghe distanze da cui le mercanzie arrivavano, ma anche l’avidità di chi prestava, questi tassi erano molto rilevanti e quindi onerosissimi per i richiedenti. Conseguenza prima diretta era la crescita esponenziale dei prezzi delle merci ed anche l’impossibilità, per una vasta parte della popolazione, di poter effettuare acquisti di certe categorie di beni, le quali rimanevano riservate ad una ristretta élite di facoltosi.

Il cristianesimo, che fin dall’inizio si confrontò con la realtà religiosa, sociale ed economica ebraica, prese subito un atteggiamento antitetico a quello dell’ebraismo: in sostanza si voleva sostituire alla legge mosaica del prestare, quella cristiana del donare. Ma d’altro canto non si potevano demonizzare centinaia di onesti lavoratori, commercianti, distributori ed approvvigionatori che formavano il tessuto connettivo ed importante di una società: si cercava di colpire solo i fenomeni parassitari, prettamente disonesti, o truffaldini che inquinavano e rendevano i compratori vittime di abusi o di cupidigie, quando anche di raggiri o di truffe.

Quindi la Chiesa bollava il fenomeno feneratizio come «peccato» contro il cielo e la legge divina, come vero e proprio «crimine» contro il prossimo e contro i fratelli terreni, in un’epoca dove gli aspetti sociali ed economici non potevano essere separati, se non arbitrariamente, dal contesto etico e morale.

La società era permeata ed informata all’armonia della  legge divina, che si sentiva presente e mai trasgredibile, pena la morte spirituale e l’emarginazione dal contesto sociale.

Il fenomeno feneratizio era stato in continuazione stigmatizzato e proibito attraverso canoni specifici di vari Concili Ecumenici: a cominciare da quello di Elvira del 300, per poi proseguire con quello di Nicea del 325 e non ultimo quello di Vienne del 1311, quest’ultimo viziato e coartato, dalle minacce esercitate da Filippo il Bello nei confronti di Papa Clemente V, per ottenere lo scioglimento e la cancellazione dell’ordine del Tempio.

In prima fila nella lotta all’usura c’era l’ordine francescano che, essendo un ordine di predicanti, era molto esposto e sempre in prima fila: la spiritualità di San Francesco male si coniugava con le dottrine feneratizie così egoistiche, insensibili ai bisogni ed alle necessità del prossimo, oltre che dalla base di povertà ed umiltà volta alla trascendenza ascetica che erano i pilastri della regola francescana.

Ricordiamo i sermoni infuocati contro gli usurai pronunciati da Sant’Antonio da Padova, che dava così fastidio agli usurai da voler essere addirittura, da parte loro, eliminato fisicamente. Famosa è la cena in cui il Santo mangia la minestra avvelenata, insieme al suo confratello, ricordando allo sprezzante padrone di casa, capo degli usurai della città, che gli ricordava il passo evangelico che lui non lo faceva come sfida a Dio, ma come atto di totale ed umile sottomissione alla divina volontà.

Nel Quattrocento, con il crescente fiorire dei commerci e degli scambi, con le flotte delle Repubbliche Marinare che solcavano il Mediterraneo, il fenomeno aveva assunto una rilevanza sociale altissima.

Il Beato Bernardino da Feltre, San Giacomo della Marca, San Giovanni da Capestrano erano in campo per combattere e debellare il fenomeno: ovviamente anche Bernardino da Siena non poteva essere da meno. Facciamo notare che San Giacomo della Marca, San Giovanni da Capestrano e San Bernardino da Siena si conoscevano ed erano anche molto amici: tutti erano passati per il famosissimo convento di Monteripido, una grossa abazia, appena fuori da Porta Sant’Angelo a ridosso delle mura di Perugia! Tutti e tre i Santi avevano predicato ed addirittura studiato nella città umbra. Ancora oggi troviamo, in Piazza San Francesco, accanto all’Accademia delle Belle Arti, della città umbra un bellissimo oratorio a lui dedicato, sulla cui lunetta campeggia la figura del Santo circondato da angeli (3).


Oratorio di San Bernardino da Siena a Perugia

I tre santi francescani non facevano altro, nelle loro locuzioni, che dare corpo e voce ad un sentire antico e popolare che aveva come obiettivo quello di difendere i poveri dall’attività illecita e fortemente disumana svolta dagli usurai. E questa umana sollecitudine non riguardava soltanto i veri «poveri», cioè gli indigenti assoluti o chi mancava di tutto; in fondo queste categorie potevano contare sulle elemosine e su aiuti diretti o anche sul sostentamento che i ricchi e i danarosi fornivano loro, spesso per tacitare la loro non sempre limpida coscienza. Ma la denuncia era diretta anche agli «indigenti potenziali», cioè a quelle categorie più bisognose di aiuti e di soluzioni ai loro problemi di liquidità e di quel necessario flusso costante di contanti che permetteva di continuare il loro onesto e quotidiano lavoro. Mentre i primi, essendo «poveri», non avevano niente da offrire in pegno agli usurai, i secondi, cioè i commercianti, gli artigiani, i piccoli professionisti, i contadini rischiavano di entrare nel circolo vizioso dell’usura e nel conseguente baratro senza fondo dei debiti, che non sarebbero mai più riusciti a pagare. Rischiavano di perdere non solo i loro beni materiali se ne avessero avuti, ma peggio, anche gli stessi strumenti di lavoro, le clientele e vedersi costretti ad abbandonare l’esercizio delle loro arti o mestieri. Quand’anche non arrivavano a rischiare anche le loro stesse esistenze o quelle dei loro figli.

Amaramente dobbiamo costatare che non c’è nulla di cambiato tra la situazione drammatica di allora e quella di oggi: l’unica differenza è che in quel determinato periodo storico erano solo i singoli individui ad essere in pericolo; oggi, purtroppo, con la dilatazione degli scambi e la vastità dei mercati, a rischiare sono intere nazioni che, a causa di debiti che mai potranno pagare, mettono in pericolo la vita non solo dei propri cittadini, ma hanno compromesso anche l’esistenza di intere generazioni future.

I fattori di crisi sempre gli stessi, gli strumenti forniti sempre uguali,  la metodologia degli usurai sempre la stessa: concedere prestiti ad oltranza a buoni e cattivi, pretendere interessi pluriennali ricomposti, sempre più onerosi e gravanti sulle attività economiche reali, insomma stessa soluzione finale. Pochissimi che diventano sempre più ricchi e che drenano sempre di più ingentissime quantità di liquidità e masse sempre maggiori di poveri, di indigenti che, strozzati dall’egoismo e dall’avidità, sono costrette a dover scegliere tra la disperazione ed il suicidio: oggi non abbiamo più nemmeno il conforto di una voce morale e super partes, come quella della Chiesa, o l’altra potentissima di Santi predicatori, che rischiando la loro vita, alzavano potentemente e senza paure le loro voci in difesa dei poveri, degli umili, dei derelitti e dei bisognosi di aiuto! Viviamo in un’epoca in cui sembra che la sola cosa che si levi potentissima è il silenzio di Dio, che sicuramente non continuerà ancora per molto.

Oggi come allora, la gente identifica il frutto dell’esercizio dell’usura, come un illecito guadagno che viene estorto, o meglio come sangue che viene succhiato dalle vene degli onesti approfittando dello stato di necessità in cui tanti versano. All’esercizio dell’usura veniva equiparata anche la mera speculazione sulle merci o quello che possiamo chiamare mercato nero, molto diffuso ed oggi, grazie alle Borse ed  ai mercati spot esercitato su vasta e rispettabile scala, da personaggi in grisaglia grigia e cravatta firmata.

Spesso, a causa di carestie o di ritardi dovuti alla lentezza ed all’insicurezza dei trasporti, a fattori come guerre ed epidemie era abbastanza usuale che certi tipi di merci venissero a mancare del tutto, o scarseggiassero. Anche in questo campo chi possedeva grandi quantità di liquidità poteva tranquillamente investire «al rialzo», ovviamente, riempire i propri magazzini e poi tranquillamente aspettare che si verificassero le situazioni favorevoli a fortissimi guadagni speculativi. San Giacomo della Marca denunciava questo stato di cose accusando gli speculatori con queste parole: «Et dum fuit in maiori pretio ipse vendibat centum» (d appena il prezzo saliva esso rivendeva al centuplo).

Era necessario dare una risposta chiara e forte da parte cristiana, al problema dell’usura; sicuramente le infiammate prediche di San Bernardino spinsero verso la creazione di uno strumento alternativo al banco usuraio ebraico e questo strumento furono i Monti di Pietà.

Il primo di essi sorse a Perugia nel 1462, ma presto si diffusero, con l’appoggio dell’Ordine Francescano, in tutta l’Italia Centrale, territorio dove lo sviluppo delle attività economiche era in rapida crescita e dove la scarsità di moneta era più sensibile, e, parimenti, anche l’attività usuraia assumeva proporzioni socialmente rilevanti e preoccupanti. La nascita di questi nuovi strumenti creditizi fu, in principio, osteggiata dai Signori dei Comuni, che appoggiavano l’usura ed erano soddisfatti delle attività svolte, in quanto molto spesso a questi ambiti veniva affidata anche la riscossione dei tributi dovuti dai cittadini, naturalmente dietro il pagamento di un aggio per l’intermediazione. Ma ciò forniva all’elemento, prevalentemente ebraico, anche il necessario polmone per il prestito ad usura a terzi. Costoro, infatti, fungevano anche da tesorieri e depositari del denaro pubblico, che fornivano a richiesta, ma che impiegavano in operazioni di prestito, quasi sempre non a lungo termine.

I Francescani Minori Osservanti, quindi, presero come modello operativo il banco ebraico con l’obiettivo di sostituire a questa forma di attività bancaria ante litteram, qualcosa che operasse con fini principalmente solidaristici e senza scopo di lucro. Era il sostituire la legge mosaica del prestare con quella cristiana del donare a tutti gli effetti. Tuttavia, fin dall’inizio, fu permessa e tollerata la richiesta di un rimborso delle spese che venivano coperte da un interesse del 5%. Spesso chi chiedeva il prestito, doveva diventare partecipe dell’attività del Monte stesso, quindi controllore anche del corretto funzionamento dell’attività. Dal 1515 tutti i Monti richiesero il rimborso delle spese. Se consideriamo che i tassi di interesse che i banchi ebraici applicavano, erano enormemente più elevati e che andavano soggetti, oltre a quello che oggi si chiama il servizio al debito, al meccanismo della ricomposizione di interessi, il vantaggio, per chi chiedeva denaro in prestito, era davvero notevole. Inoltre esso era concesso su presentazione di un pegno che veniva stimato e che serviva da garanzia reale dell’erogazione, la durata del medesimo non doveva normalmente mai superare l’anno, periodo entro il quale doveva essere rifusa la somma e restituito il pegno. Se ciò non accadeva il pegno medesimo veniva venduto e la somma ripristinata per poter essere nuovamente prestata.


Esterno della Basilica di San Bernardino a L’Aquila

Altra caratteristica precipua: i Monti non prestavano a tutti e non veniva mai prestata qualsiasi somma: a norma di statuti di fondazione, si accettavano, come clienti, solo i residenti nella città o dei dintorni o in un ambito territoriale molto ristretto; in genere si trattava solo di somme di modesta entità, che i clienti dovevano giurare di prendere solo per loro strettissima necessità personale, ma anche per usi moralmente ineccepibili. Di solito il capitale iniziale dei Monti era a larga partecipazione diffusa: si promuovevano prediche che spiegavano il perché e la motivazione della creazione dell’istituto, spesso anche suggestive processioni alla fine delle quali tutti venivano chiamati a contribuire all’iniziativa: il senso della solidarietà e del comune senso di dover aiutare i deboli, erano la solida base di inequivocabile natura cristiana.

A questo strumento si affiancò quasi subito l’istituzione, specialmente nelle zone agricole molto sviluppate, dei Monti Frumentari: essi raccoglievano  e prendevano, in base della loro attività, soprattutto grano che consentiva subito un diretto rientro dalle spese, ma andava anche a colpire il fenomeno della speculazione, nei momenti di carestia e stroncare il mercato nero, impedendo lucrosi quanto disonesti e speculativi guadagni (4).

Era indubbiamente una grande rottura con il passato. Essa principalmente consisteva nell’affrontare i problemi economici in maniera diretta, senza delegare più ai non cristiani questo compito, con orizzonti solidaristici fortissimi, ma anche adottando e facendo diventare di uso normale e quotidiano, modalità di carattere bancario. In molte città la creazione dei Monti di Pietà determinò la cessazione quasi totale  delle relazioni creditizie con i prestatori ebrei: la piaga dell’usura era del tutto debellata.

Ovviamente ai tempi nostri si rimprovera a San Bernardino, la troppa asprezza nei confronti dell’elemento ebraico che reggeva in maggioranza i fili della rete feneratizia ed anche il suo forte impegno contro la vanità ed i vizi della società: ciò tuttavia non toglie che i risultati ottenuti dalle sue infuocate prediche, portarono dei risultati tangibili ed immediati e sicuramente il grado di sicurezza ed aspettativa di vita, come si dice oggi, aumentarono di parecchio grazie anche alle sue avanzatissime idee in campo economico.

Ma anche tra i suoi contemporanei non sempre trovò buona accoglienza, a molti, anche potenti, la sua guerra dalla parte dei deboli non andava a genio e lo status quo nel settore economico creava in certi strati agi e posizioni di privilegio che, consolidate, era difficile da smantellare. Anche in campo ecclesiastico aveva parecchi nemici ed a causa della sua devozione al Santo Nome di Gesù, dovette subire varie accuse di eresia. In suo soccorso vennero i suoi confratelli, su tutti San Giovanni da Capestrano il quale andò fino a Roma per perorare davanti ai giudici la sua causa. Nel 1427, essendo sotto Inquisizione, fu strenuamente difeso da un teologo molto importante come Paolo da Venezia, il quale scrisse addirittura un trattato per difendere la completa ortodossia delle sue tesi.

È qui necessario, anche come successo in altri casi di Santi da me già precedentemente trattati, fare un’osservazione: i Papi avevano una conoscenza, un tipo di informazione ed un tasto della situazione molto precise riguardante i vari personaggi che agivano, con moltissimo seguito, nell’ambito della cristianità ed il loro intervento d’autorità, spesso fu decisivo per sciogliere i nodi ed i sofismi creati dai gruppi di potere, più o meno influenti, che avevano finalità spesso antitetiche a quelle spirituali. In questo caso il Papa Martino V, lo volle conoscere personalmente durante il processo intentato contro di lui: fu a tal punto colpito, che volle che il Santo predicasse per ottanta giorni a Roma e poi lo voleva nominare Predicatore della Casa Pontificia, incarico che il Santo, come per la carica di vescovo, rifiutò per umiltà e fedeltà alla Regola del suo Ordine.

San Bernardino da Siena uscì sempre trionfatore, con l’aiuto della Provvidenza, da tutte le prove a cui fu sottoposto. Né gli mancarono grandi capacità di conciliazione in  situazioni molto spinose e spesso quasi irrimediabilmente compromesse. Già a Perugia aveva riportato la pace  e la riconciliazione tra campi opposti ed antagonisti; nel 1444, su sollecitazione del vescovo Amico Agnifili, si recò a L’Aquila per tentare di riconciliare le due fazioni che in città si affrontavano apertamente e virulentemente. E proprio a L’Aquila, il 20 maggio 1444, lo colse la morte: si racconta che la sua tomba continuò a trasudare sangue fino a quando le avverse fazioni della città non si riconciliarono. Il suo corpo è sepolto nella Basilica  a lui dedicata.

L’Aquila per onorarlo, su proposta di San Giovanni da Capestrano, inserì il suo tetragramma JHS nello stemma della città.

Già subito dopo la sua morte e ben prima della sua canonizzazione, si diffusero voci molto consistenti di gesta miracolose a lui attribuite e grandi conversioni, alcune delle quali furono riportate dalla Leggenda Aurea apparsa in quegli anni. Comunque la canonizzazione non tardò ad arrivare appena sei anni dopo la sua scomparsa. Papa Nicolò V, lo elevò agli onori degli altari il 24 maggio 1450, grazie anche alle numerose testimonianze raccolte, per la Causa di Santificazione, da San Giovanni da Capestrano. La memoria liturgica della sua santificazione ricorre il 20 maggio, giorno della sua morte.



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