martedì 28 febbraio 2012

Mikis Mantakas. Roma 28.02.1975



Roma 28.02.1975 - Da giorni, nelle strade della Capitale, si combatteva per la conquista del territorio e dello spazio antistante all’ingresso del Palazzo di Giustizia, in Piazzale Clodio. Il 24 febbraio del 1975, nell’aula della prima Corte d’Assise del Tribunale Penale, si svolse il processo contro i tre militanti di Potere Operaio accusati di omicidio per la strage del Rogo di Primavalle, dove persero la vita i fratelli Stefano e Virgilio Mattei. Il processo divenne il luogo – simbolo dello scontro tra le due verità. I primi a capirlo furono i missini che si presentarono in massa. Alle nove del mattino l’aula venne chiusa al pubblico, trenta esponenti di sinistra, trenta di destra e trenta poliziotti in borghese. Fuori, invece, rimasero solo i giovani del Fuan. Alle dieci e trenta i militanti di sinistra di riorganizzarono formando un corteo e puntando dritti al Tribunale al grido di “Lollo libero”. La polizia intervenne, ma esplose la violenza. Tafferugli, molotov e auto incendiate. Due poliziotti e un missino feriti, un arresto, Stefano Salpietro diciannove anni, militante di sinistra trovato in possesso di una sbarra di ferro. Alle undici e trenta un commissario di pubblica sicurezza, Pietro Scrifana, fu stroncato da un infarto mentre era in servizio. Il secondo giorno, il 25 febbraio, i militanti di sinistra si organizzarono meglio, riuscendo, alle otto e trenta, a guadagnare per primi l’ingresso al Tribunale. I missini furono costretti ad attaccare la scalinata, ma la battaglia durò poco grazie all’intervento delle Forze dell’Ordine. La tensione salì la sera, quando i locali dell’Accademia pugilistica romana di Angelino Rossi, fu assaltata da un commando a viso coperto e muniti di bottiglie molotov. Per fortuna nessun ferito, ma il giorno dopo, l’attentato, fu rivendicato da Lotta Continua. Il terzo giorno, il 28 febbraio, la battaglia iniziò alle sei e trenta del mattino, quando i due eserciti tentarono ancora una volta di guadagnare per primi l’ingresso all’aula. Lanci di pietra, bulloni e altri oggetti, fino a quando non intervenne nuovamente la Polizia. Gli scontri proseguirono fino in via Suora della Carità e si udirono alcuni colpi di pistola. Uno sconosciuto aveva esploso tre colpi di pistola calibro sette e sessantacinque contro Morice Guido, dirigente del Fronte della Gioventù. La prima volta che si sparava per politica nelle strade della Capitale a viso scoperto e armi in pugno. I dimostranti diedero fuoco ai sacchi di rifiuti della nettezza urbana e tentarono di penetrare all’interno della sede della Rai. Intanto un altro corteo non autorizzato, formato da militanti di sinistra, partì dal quartiere di Primavalle e raggiunse in tre diverse direzioni il Palazzo di Giustizia. Un ragazzo, Vincenzo Lazzara, fu colpito da un mattone provocandogli la frattura del braccio. Un altro giovane venne ferito al ginocchio da un proiettile calibro sei e sessantacinque. Anche all’interno dell’aula si verificò una scaramuccia meno grave ma la più importante della giornata. Due ragazzi, un militante di sinistra con impermeabile chiaro e un maglione, e un militante di destra con capelli corti, arrivano ai ferri corti. I due furono fermati e identificati dagli agenti di pubblica sicurezza. Il ragazzo di destra era nato a Reggio Calabria e si chiamava Luigi D’Addio. Il ragazzo di sinistra, invece, si chiamava Alvaro Lojacono, rilasciato alle undici grazie all’intervento di un avvocato. Intanto altri missini, Umberto Croppi e Mikis Mantakas, era riusciti ad entrare in aula ma divisi dalla precipitazione degli eventi. Quando all’una l’udienza fu rinviata, i militanti missini, asserragliati nel Tribunale si organizzarono per arrivare incolumi fino all’avamposto più vicino, la sezione di via Ottaviano. Un primo drappello, tra cui Mikis Mantakas, riuscì a superare il cordone e arrivare a destinazione. Gli altri, tra cui Umberto Croppi, fu costretto ad aspettare una Fiat 128 che faceva da spola, trasferendo quattro persone alla volta. All’una e un quarto, in via Ottaviano, vi erano poco più di venticinque militanti, quando le prime molotov iniziarono a piovere sul portone del palazzo. La sezione era costituita da un piccolo labirinto di stanza e stanzette, con un profondo sottoscala, sotto il livello del suolo. Ma il palazzo aveva anche un altro ingresso, quello che dava su Piazza Risorgimento. Mentre il corridoio era già invaso dal fumo e dalle fiamme, i missini, decisero di dividersi e sfruttare l’effetto sorpresa, azzardando una disperata controffensiva per prendere alle spalle il commando. Una decina di giovani uscirono dall’ingresso della Piazza e corsero verso via Ottaviano. Ma arrivati all’angolo furono accolti da una pioggia di fuoco. Mikis Mantakas, ventitre anni, cadde a terra. Un proiettile lo aveva colpito al cranio trapassandogli la regione parietale sinistra. Perse conoscenza ma ancora vivo. Al suo fianco vi era un ragazzo, Franco Anselmi, munito di passamontagna e bagnato da un fiotto di sangue schizzato via dalla testa di Mikis Mantakas. Per anni conservò il passamontagna come una reliquia. I ragazzi della sezione raccolsero il corpo e con la forza della disperazione tornarono verso il portone posteriore. Il soprabito di Mikis Mantakas prese fuoco. Gli assediati riuscirono ad entrare nell’atrio e a barricare il portone. Fuori, gli assedianti sradicarono un palo della segnaletica stradale e lo usarono come ariete per sfondare il portone. Mentre i colpi del palo risuonavano nel cortile, i missini, decisero di chiudere il corpo di Mikis Mantakas, ancora vivo, in uno dei tre garage del cortile sorvegliato da un amico. Gli altri, invece, ripiegarono verso la sezione rifugiandosi nel sotterraneo. Sfondato il portone, il commando, non accorgendosi della saracinesca della sezione abbassata, puntarono sul garage centrale crivellandolo di pallottole. Mikis Mantakas e il suo custode si trovarono però nel garage di fianco. In quel momento una nuova pattuglia di missini, che tornava da fuori, irruppe nel cortile e gli assalitori decisero di abbandonare il campo. Nell’atrio cadde un altro missino, Fabio Rolli, colpito al fianco da una pallottola calibro sette e sessantacinque, che si trovava sulla via di fuga del commando. Arrivato a via Ottaviano, Umberto Croppi, capì che per l’amico non vi erano più speranze. Infatti, trasportato d’urgenza in ospedale, il cuore di Mikis Mantakas smise di battere dopo due ore dall’agguato. In quei momenti di confusione, un poliziotto, Luigi Di Iorio, centralinista nel vicino Commissariato di Borgo, mentre attraversava Piazza Risorgimento con la sua auto, una Fiat 850, vide materializzarsi due individui armati che si allontanavano dalla Piazza correndo con le pistole in pugno. Il primo, di media statura, alto circa un metro e settanta con un impermeabile chiaro. Il secondo, invece, più alto con i baffi e sempre con un impermeabile chiaro. L’appuntato scese dall’auto, estrasse la pistola d’ordinanza e iniziò l’inseguimento verso Borgo Pio. Uno dei due si girò e, sempre correndo, sparò due colpi. Come nei film, decisero di dividersi. Il più basso girò verso destra, l’altro, più alto, verso sinistra. L’agente Di Iorio decise di inseguire il primo quello che aveva sparato. Ma per qualche istante lo perse di vista. A quel punto fu avvertito da una persona anziana che il fuggitivo si era infilato in un portone, al numero ottantacinque di via Del Falco. Intanto una pattuglia della Polizia giunse sul posto. Entrarono nel portone e l’appuntato vide un giovane che scendeva. Indossava un paio di pantaloni blu, un maglione beige, ma niente impermeabile. Mentre gli altri agenti fermarono e perquisirono il ragazzo, Luigi Di Iorio, salì al primo piano e trovò un impermeabile di colore chiaro. Al secondo piano, invece, in un angolo, vi era una pistola Beretta calibro sette e sessantacinque, colpo in canna e un caricatore da sei colpi. Il giovane fu identificato come Fabrizio Panzieri che subito si dichiarò innocente ed estraneo ai fatti. A incastrare l’altro individuo furono le testimonianze di alcuni missini, ma non solo, che si presentarono spontaneamente dai Carabinieri. Prima Franco Medici, poi, Alessandro Rosa e infine, Fernando Maiolo. Tutti confermarono che a sparare quel pomeriggio fu Alvaro Lojacono, l’uomo che fu identificato dalla polizia alcune ore prima nell’aula del Tribunale. Mikis Mantakas nacque ad Atene il 13 luglio del 1952 ed era cresciuto in un quartiere residenziale, il Papagos. Il padre, Nikos Mantakas, era un Generale in pensione, aveva guidato le truppe partigiane durante la guerra contro il nazifascismo a Creta. La madre, Calliope, era antifascista e oppositrice attiva del regime. Mikis Mantakas, nel 1969, decise di trasferirsi in Italia. A Bologna, lo zio gestiva una clinica privata e il suo primo obiettivo era di laurearsi e lavorare con lui. Si iscrisse all’Università presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia, ma fu costretto a trasferirsi a causa di un’aggressione, per motivi politici, subita di fronte all’istituto di biologia. Ricoverato in ospedale con quaranta giorni di prognosi, decise di iscriversi all’Università La Sapienza di Roma. Nel 1970, in Grecia, una dittatura fascista aveva preso il potere e per un greco in Italia significava o essere fascista o antifascista. Mikis Mantakas si avvicinò alle idee più lontane da quelle dei suoi genitori. Frequentava il bar di via Siena, molto vicino alla facoltà, dove conobbe i ragazzi del Fuan. Una comunità affiatata e cameratesca. Conobbe anche una ragazza, Sabrina Andolina, poco più piccola di lui, molto carina, lavorava come segretaria nella Sede Nazionale di via Quattro Fontane, con il Presidente del Fronte della Gioventù, Luciano Laffranco. Mensilmente, Mikis Mantakas, riceveva dal padre un assegno di centocinquantasette mila lire che serviva per pagare l’affitto di un piccolo appartamento che divideva con altre persone, le telefonate a casa e qualche libro. Si era iscritto al Fuan solo da sei mesi. Uno dei suoi migliori amici fu Umberto Croppi, leader della corrente rautiana, il camerata che quel 28 febbraio lo accompagnò al suo appuntamento con il destino. I funerali si svolsero a Roma, nella chiesa di Piazza della Minerva, riempita da una folla che straboccava nelle vie laterali. Al termine della messa, Giorgio Almirante, Segretario del Movimento Sociale Italiano, si fermò sulla scalinata dove improvvisò un discorso a braccio di sei minuti. Come per Lollo, Clavo e Grillo, anche Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono, divennero i due simboli della sinistra extraparlamentare. Si mobilitarono il Soccorso Rosso, Dario Fo e Franca Rame, gli ideologi Vittorio Foa, Aldo Natoli e Antonio Landolfi, componenti del “Comitato per la liberazione di Panzieri”. Il comitato fu presieduto dal Senatore Umberto Terracini, Presidente dell’Assemblea Costituente e firmatario della Costituzione Italiana. Il processo di primo grado contro Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono, militanti di Potere Operaio, si concluse nel marzo del 1977 con la condanna a nove anni e sei mesi di reclusione per concorso morale in omicidio a Panzieri. Assoluzione, invece, per insufficienza di prove a Lojacono. Il processo di secondo grado, presieduto dal Giudice Filippo Mancuso, nel maggio del 1980, si concluse con la condanna a sedici anni di reclusione per entrambi. Ma un ricorso in Cassazione riuscì a bloccare l’esecutività della sentenza per Alvaro Lojacono e, nonostante la condanna, rimase in libertà per poi fuggire prima, in Algeria, e poi, nel Canton Ticino, in Svizzera assumendo il cognome della madre. Più tardi si fece luce sulla sua partecipazione alla lotta armata, prima e dopo la sentenza di quell’anno. Nel 1978 fu accertata la sua presenza nel commando delle Brigate Rosse che rapì Aldo Moro e uccise la sua scorta. Nel 1981, fu incriminato per il rapimento Cirillo. Nel 1982 per l’omicidio dell’assessore campano, Raffaele Delcogliano. Nel 1983, fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del Magistrato Girolamo Tartaglione, del consigliere della Democrazia Cristiana Italo Schettini, degli agenti di pubblica sicurezza Ollanu e Mea, per l’uccisione del Colonnello dei Carabinieri, Antonio Varisco, e per l’assassinio del Maresciallo di Polizia, Mariano Romiti. La Svizzera non concesse mai l’estradizione anche se fu arrestato nel 1988 a Lugano e condannato a 17 anni di reclusione per il caso Tartaglione. Dopo nove anni, nel 1997, ottenne dal Tribunale elvetico la semilibertà per seguire un corso di giornalismo e nel 1999 divenne un uomo libero. Anche Fabrizio Panzieri, approfittando di una scarcerazione, si diede alla latitanza. Gli inquirenti accertarono la sua affiliazione alle “Unità Comuniste Combattenti”, attive tra il 1977 e il 1979 nel Lazio, Toscana e Calabria, condannato, nel 1982, a ventuno anni di reclusione. Ancora oggi risulta latitante. Non persero troppo tempo a ringraziare, una volta usciti di cella, approfittando della prima occasione per scappare, senza concedere a chi aveva creduto nella loro innocenza nemmeno il conforto di una verità illusoria. Se Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono fossero stati tenuti in carcere, la loro manovalanza sarebbe stata sottratta alla confezione di numerosi omicidi.

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