Roma
28.02.1975 - Da giorni, nelle strade della Capitale, si
combatteva per la conquista del territorio e dello spazio antistante
all’ingresso del Palazzo di Giustizia, in Piazzale Clodio. Il 24 febbraio del
1975, nell’aula della prima Corte d’Assise del Tribunale Penale, si svolse il
processo contro i tre militanti di Potere Operaio accusati di omicidio per la
strage del Rogo di Primavalle, dove persero la vita i fratelli Stefano e
Virgilio Mattei. Il processo divenne il luogo – simbolo dello scontro tra le due
verità. I primi a capirlo furono i missini che si presentarono in massa. Alle
nove del mattino l’aula venne chiusa al pubblico, trenta esponenti di sinistra,
trenta di destra e trenta poliziotti in borghese. Fuori, invece, rimasero solo i
giovani del Fuan. Alle dieci e trenta i militanti di sinistra di riorganizzarono
formando un corteo e puntando dritti al Tribunale al grido di “Lollo libero”. La
polizia intervenne, ma esplose la violenza. Tafferugli, molotov e auto
incendiate. Due poliziotti e un missino feriti, un arresto, Stefano Salpietro
diciannove anni, militante di sinistra trovato in possesso di una sbarra di
ferro. Alle undici e trenta un commissario di pubblica sicurezza, Pietro
Scrifana, fu stroncato da un infarto mentre era in servizio. Il secondo giorno,
il 25 febbraio, i militanti di sinistra si organizzarono meglio, riuscendo, alle
otto e trenta, a guadagnare per primi l’ingresso al Tribunale. I missini furono
costretti ad attaccare la scalinata, ma la battaglia durò poco grazie
all’intervento delle Forze dell’Ordine. La tensione salì la sera, quando i
locali dell’Accademia pugilistica romana di Angelino Rossi, fu assaltata da un
commando a viso coperto e muniti di bottiglie molotov. Per fortuna nessun
ferito, ma il giorno dopo, l’attentato, fu rivendicato da Lotta Continua. Il
terzo giorno, il 28 febbraio, la battaglia iniziò alle sei e trenta del mattino,
quando i due eserciti tentarono ancora una volta di guadagnare per primi
l’ingresso all’aula. Lanci di pietra, bulloni e altri oggetti, fino a quando non
intervenne nuovamente la Polizia. Gli scontri proseguirono fino in via Suora
della Carità e si udirono alcuni colpi di pistola. Uno sconosciuto aveva esploso
tre colpi di pistola calibro sette e sessantacinque contro Morice Guido,
dirigente del Fronte della Gioventù. La prima volta che si sparava per politica
nelle strade della Capitale a viso scoperto e armi in pugno. I dimostranti
diedero fuoco ai sacchi di rifiuti della nettezza urbana e tentarono di
penetrare all’interno della sede della Rai. Intanto un altro corteo non
autorizzato, formato da militanti di sinistra, partì dal quartiere di Primavalle
e raggiunse in tre diverse direzioni il Palazzo di Giustizia. Un ragazzo,
Vincenzo Lazzara, fu colpito da un mattone provocandogli la frattura del
braccio. Un altro giovane venne ferito al ginocchio da un proiettile calibro sei
e sessantacinque. Anche all’interno dell’aula si verificò una scaramuccia meno
grave ma la più importante della giornata. Due ragazzi, un militante di sinistra
con impermeabile chiaro e un maglione, e un militante di destra con capelli
corti, arrivano ai ferri corti. I due furono fermati e identificati dagli agenti
di pubblica sicurezza. Il ragazzo di destra era nato a Reggio Calabria e si
chiamava Luigi D’Addio. Il ragazzo di sinistra, invece, si chiamava Alvaro
Lojacono, rilasciato alle undici grazie all’intervento di un avvocato. Intanto
altri missini, Umberto Croppi e Mikis Mantakas, era riusciti ad entrare in aula
ma divisi dalla precipitazione degli eventi. Quando all’una l’udienza fu
rinviata, i militanti missini, asserragliati nel Tribunale si organizzarono per
arrivare incolumi fino all’avamposto più vicino, la sezione di via Ottaviano. Un
primo drappello, tra cui Mikis Mantakas, riuscì a superare il cordone e arrivare
a destinazione. Gli altri, tra cui Umberto Croppi, fu costretto ad aspettare una
Fiat 128 che faceva da spola, trasferendo quattro persone alla volta. All’una e
un quarto, in via Ottaviano, vi erano poco più di venticinque militanti, quando
le prime molotov iniziarono a piovere sul portone del palazzo. La sezione era
costituita da un piccolo labirinto di stanza e stanzette, con un profondo
sottoscala, sotto il livello del suolo. Ma il palazzo aveva anche un altro
ingresso, quello che dava su Piazza Risorgimento. Mentre il corridoio era già
invaso dal fumo e dalle fiamme, i missini, decisero di dividersi e sfruttare
l’effetto sorpresa, azzardando una disperata controffensiva per prendere alle
spalle il commando. Una decina di giovani uscirono dall’ingresso della Piazza e
corsero verso via Ottaviano. Ma arrivati all’angolo furono accolti da una
pioggia di fuoco. Mikis Mantakas, ventitre anni, cadde a terra. Un proiettile lo
aveva colpito al cranio trapassandogli la regione parietale sinistra. Perse
conoscenza ma ancora vivo. Al suo fianco vi era un ragazzo, Franco Anselmi,
munito di passamontagna e bagnato da un fiotto di sangue schizzato via dalla
testa di Mikis Mantakas. Per anni conservò il passamontagna come una reliquia. I
ragazzi della sezione raccolsero il corpo e con la forza della disperazione
tornarono verso il portone posteriore. Il soprabito di Mikis Mantakas prese
fuoco. Gli assediati riuscirono ad entrare nell’atrio e a barricare il portone.
Fuori, gli assedianti sradicarono un palo della segnaletica stradale e lo
usarono come ariete per sfondare il portone. Mentre i colpi del palo risuonavano
nel cortile, i missini, decisero di chiudere il corpo di Mikis Mantakas, ancora
vivo, in uno dei tre garage del cortile sorvegliato da un amico. Gli altri,
invece, ripiegarono verso la sezione rifugiandosi nel sotterraneo. Sfondato il
portone, il commando, non accorgendosi della saracinesca della sezione
abbassata, puntarono sul garage centrale crivellandolo di pallottole. Mikis
Mantakas e il suo custode si trovarono però nel garage di fianco. In quel
momento una nuova pattuglia di missini, che tornava da fuori, irruppe nel
cortile e gli assalitori decisero di abbandonare il campo. Nell’atrio cadde un
altro missino, Fabio Rolli, colpito al fianco da una pallottola calibro sette e
sessantacinque, che si trovava sulla via di fuga del commando. Arrivato a via
Ottaviano, Umberto Croppi, capì che per l’amico non vi erano più speranze.
Infatti, trasportato d’urgenza in ospedale, il cuore di Mikis Mantakas smise di
battere dopo due ore dall’agguato. In quei momenti di confusione, un poliziotto,
Luigi Di Iorio, centralinista nel vicino Commissariato di Borgo, mentre
attraversava Piazza Risorgimento con la sua auto, una Fiat 850, vide
materializzarsi due individui armati che si allontanavano dalla Piazza correndo
con le pistole in pugno. Il primo, di media statura, alto circa un metro e
settanta con un impermeabile chiaro. Il secondo, invece, più alto con i baffi e
sempre con un impermeabile chiaro. L’appuntato scese dall’auto, estrasse la
pistola d’ordinanza e iniziò l’inseguimento verso Borgo Pio. Uno dei due si girò
e, sempre correndo, sparò due colpi. Come nei film, decisero di dividersi. Il
più basso girò verso destra, l’altro, più alto, verso sinistra. L’agente Di
Iorio decise di inseguire il primo quello che aveva sparato. Ma per qualche
istante lo perse di vista. A quel punto fu avvertito da una persona anziana che
il fuggitivo si era infilato in un portone, al numero ottantacinque di via Del
Falco. Intanto una pattuglia della Polizia giunse sul posto. Entrarono nel
portone e l’appuntato vide un giovane che scendeva. Indossava un paio di
pantaloni blu, un maglione beige, ma niente impermeabile. Mentre gli altri
agenti fermarono e perquisirono il ragazzo, Luigi Di Iorio, salì al primo piano
e trovò un impermeabile di colore chiaro. Al secondo piano, invece, in un
angolo, vi era una pistola Beretta calibro sette e sessantacinque, colpo in
canna e un caricatore da sei colpi. Il giovane fu identificato come Fabrizio
Panzieri che subito si dichiarò innocente ed estraneo ai fatti. A incastrare
l’altro individuo furono le testimonianze di alcuni missini, ma non solo, che si
presentarono spontaneamente dai Carabinieri. Prima Franco Medici, poi,
Alessandro Rosa e infine, Fernando Maiolo. Tutti confermarono che a sparare quel
pomeriggio fu Alvaro Lojacono, l’uomo che fu identificato dalla polizia alcune
ore prima nell’aula del Tribunale. Mikis Mantakas nacque ad Atene il 13 luglio
del 1952 ed era cresciuto in un quartiere residenziale, il Papagos. Il padre,
Nikos Mantakas, era un Generale in pensione, aveva guidato le truppe partigiane
durante la guerra contro il nazifascismo a Creta. La madre, Calliope, era
antifascista e oppositrice attiva del regime. Mikis Mantakas, nel 1969, decise
di trasferirsi in Italia. A Bologna, lo zio gestiva una clinica privata e il suo
primo obiettivo era di laurearsi e lavorare con lui. Si iscrisse all’Università
presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia, ma fu costretto a trasferirsi a causa
di un’aggressione, per motivi politici, subita di fronte all’istituto di
biologia. Ricoverato in ospedale con quaranta giorni di prognosi, decise di
iscriversi all’Università La Sapienza di Roma. Nel 1970, in Grecia, una
dittatura fascista aveva preso il potere e per un greco in Italia significava o
essere fascista o antifascista. Mikis Mantakas si avvicinò alle idee più lontane
da quelle dei suoi genitori. Frequentava il bar di via Siena, molto vicino alla
facoltà, dove conobbe i ragazzi del Fuan. Una comunità affiatata e cameratesca.
Conobbe anche una ragazza, Sabrina Andolina, poco più piccola di lui, molto
carina, lavorava come segretaria nella Sede Nazionale di via Quattro Fontane,
con il Presidente del Fronte della Gioventù, Luciano Laffranco. Mensilmente,
Mikis Mantakas, riceveva dal padre un assegno di centocinquantasette mila lire
che serviva per pagare l’affitto di un piccolo appartamento che divideva con
altre persone, le telefonate a casa e qualche libro. Si era iscritto al Fuan
solo da sei mesi. Uno dei suoi migliori amici fu Umberto Croppi, leader della
corrente rautiana, il camerata che quel 28 febbraio lo accompagnò al suo
appuntamento con il destino. I funerali si svolsero a Roma, nella chiesa di
Piazza della Minerva, riempita da una folla che straboccava nelle vie laterali.
Al termine della messa, Giorgio Almirante, Segretario del Movimento Sociale
Italiano, si fermò sulla scalinata dove improvvisò un discorso a braccio di sei
minuti. Come per Lollo, Clavo e Grillo, anche Fabrizio Panzieri e Alvaro
Lojacono, divennero i due simboli della sinistra extraparlamentare. Si
mobilitarono il Soccorso Rosso, Dario Fo e Franca Rame, gli ideologi Vittorio
Foa, Aldo Natoli e Antonio Landolfi, componenti del “Comitato per la liberazione
di Panzieri”. Il comitato fu presieduto dal Senatore Umberto Terracini,
Presidente dell’Assemblea Costituente e firmatario della Costituzione Italiana.
Il processo di primo grado contro Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono, militanti
di Potere Operaio, si concluse nel marzo del 1977 con la condanna a nove anni e
sei mesi di reclusione per concorso morale in omicidio a Panzieri. Assoluzione,
invece, per insufficienza di prove a Lojacono. Il processo di secondo grado,
presieduto dal Giudice Filippo Mancuso, nel maggio del 1980, si concluse con la
condanna a sedici anni di reclusione per entrambi. Ma un ricorso in Cassazione
riuscì a bloccare l’esecutività della sentenza per Alvaro Lojacono e, nonostante
la condanna, rimase in libertà per poi fuggire prima, in Algeria, e poi, nel
Canton Ticino, in Svizzera assumendo il cognome della madre. Più tardi si fece
luce sulla sua partecipazione alla lotta armata, prima e dopo la sentenza di
quell’anno. Nel 1978 fu accertata la sua presenza nel commando delle Brigate
Rosse che rapì Aldo Moro e uccise la sua scorta. Nel 1981, fu incriminato per il
rapimento Cirillo. Nel 1982 per l’omicidio dell’assessore campano, Raffaele
Delcogliano. Nel 1983, fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del Magistrato
Girolamo Tartaglione, del consigliere della Democrazia Cristiana Italo
Schettini, degli agenti di pubblica sicurezza Ollanu e Mea, per l’uccisione del
Colonnello dei Carabinieri, Antonio Varisco, e per l’assassinio del Maresciallo
di Polizia, Mariano Romiti. La Svizzera non concesse mai l’estradizione anche se
fu arrestato nel 1988 a Lugano e condannato a 17 anni di reclusione per il caso
Tartaglione. Dopo nove anni, nel 1997, ottenne dal Tribunale elvetico la
semilibertà per seguire un corso di giornalismo e nel 1999 divenne un uomo
libero. Anche Fabrizio Panzieri, approfittando di una scarcerazione, si diede
alla latitanza. Gli inquirenti accertarono la sua affiliazione alle “Unità
Comuniste Combattenti”, attive tra il 1977 e il 1979 nel Lazio, Toscana e
Calabria, condannato, nel 1982, a ventuno anni di reclusione. Ancora oggi
risulta latitante. Non persero troppo tempo a ringraziare, una volta usciti di
cella, approfittando della prima occasione per scappare, senza concedere a chi
aveva creduto nella loro innocenza nemmeno il conforto di una verità illusoria.
Se Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono fossero stati tenuti in carcere, la loro
manovalanza sarebbe stata sottratta alla confezione di numerosi omicidi.
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