giovedì 23 febbraio 2012

La favola del Vate muto e poi guarito

Tradotto per la prima volta il romanzo che D’Annunzio scrisse in francese nel 1930, ormai confinato al Vittoriale. Ambientato in un Medioevo fantastico, voleva riavvicinare Francia e Italia

di Dopo le prime tre - Le Martyre de Saint Sébastien, La Pisanelle e Le Chèvrefueille - Le dit du sorde et muet qui fut miraculé en l’an de grace 1266 fu la quarta opera di Gabriele d’Annunzio scritta «nel più potente francese di Francia», come sottolineò in una lettera a Guido Treves.
 
La favola, il fableau, venne composta nel 1930 e pubblicata nel 1936, in poche copie di pregio, tanto che oggi è conosciuta soltanto agli studiosi. Se ne occupò Gianfranco Contini nel 1947; se ne è occupato, meglio e recentemente, Giorgio Zanetti, nel Meridiano Mondadori Prose di Ricerca. Ben venga dunque la traduzione, la prima integrale, di Matteo Veronesi (Aragno, pagg. 192, euro 15).
D’Annunzio s’identifica con Guerri de Dampnes, un chierico sordomuto amico e discepolo di Brunetto Latini. L’autore immagina di venire miracolato dopo aver visto piangere re Luigi IX, futuro santo. Nel giorno della Purificazione infatti Guerri riesce a insinuarsi tra la folla che assiste alla cerimonia religiosa nella Sacra Cappella del Palazzo di Giustizia, un antichissimo edificio di origine romana. In quell’incomparabile gioiello architettonico, d’Annunzio/Guerri d’improvviso sente piangere il Re e allo stesso tempo recupera il dono della parola, con la quale accompagna il canto dei fedeli.
Da questo episodio, Guerri de Dampnes diventa il protagonista di una vera e propria chanson de geste. Spirito avventuroso, insofferente ai freni della vita comune e alle consuetudini dei suoi simili, parte per l’Oriente, verso la remota Tartaria, dove vive una principessa guerriera, Aigiairn, che concederà la sua meravigliosa bellezza a chi saprà vincerla in combattimento. Tutti quelli che hanno tentato la conquista sono stati battuti. Guerri attraversa paesi e pericoli, supera montagne e avversità per raggiungere la donna favoleggiata, che conquisterà con la sola arma della seduzione e dell’amore.
Trascurando gli episodi minori, nel succedersi degli eventi il libro rappresenta le tre esperienze fondamentali della vita e dell’opera di d’Annunzio: l’Arte, descritta come forza tanto miracolosa da conferire la parola ai muti; l’Eroismo, potenza del sacrificio che trasfigura la morte; l’Amore, che spinge l’uomo all’avventura e alla conquista. Cui sono continue similitudini tra la biografia dannunziana e la finzione letteraria, tra il poeta e il suo alter ego; l’eroe mutilato è in dissidio con il Potere a causa dell’amore che prova per la sua terra, in un’evidente trasposizione letteraria dell’impresa fiumana. Guerri poi segue l’armata che Guillaume “Fierebrace”, fedelissimo di re Luigi, ha raccolto per conquistare la Spagna. Interamente posseduto dal desiderio di gloria, vuole morire in un atto di conquista e infatti ottiene una morte eroica espugnando una città. Mentre esala l’ultimo respiro, Guerri sussurra: «Nulla è così bello come è bella la morte».
Se consideriamo che l’opera appartiene a un d’Annunzio ormai solo e confinato al Vittoriale, riusciamo a comprendere nell’opera il «senso di diffusa malinconia, di nostalgia che penetra le cose», come sottolineò Antonio Bruers già nel 1938. Tuttavia è anche un d’Annunzio che non rinuncia alla battaglia. Nella sua ultima stesura il testo è datato 2 febbraio 1930, ovvero uno dei periodi in cui d’Annunzio avverte di più il suo isolamento, culturale e politico, nell’Italia fascista e borghese del Concordato con la Chiesa. Soprattutto è lampante che avere atteso il 1936 par dare alle stampe un’opera scritta in francese antico, va ben oltre la volontà di evidenziare le comuni radici latine di Francia e Italia. Non a caso nel frontespizio si sottolinea che il libro è dedicato «aux bons chevaliers latins de France et d’Italie», proprio come d’Annunzio aveva intestato un appello dell’agosto 1935, nel tentativo di riavvicinare i due popoli, nel pieno di una crisi politico-diplomatica.
In una lettera del 9 ottobre 1933 d’Annunzio, buon profeta, con grande anticipo aveva messo in guardia Mussolini verso un uomo «dall’ignobile faccia offuscata sotto gli indelebili schizzi della tinta di calce e di colla»; ora quell’ex imbianchino, Adolf Hitler, minaccia l’Europa e per d’Annunzio il mito altero della letteratura cede il posto alle esigenze dell’attualità.
Le sorti del libro e del suo protagonista appaiono inequivocabilmente legate a quelle politiche di una nuova possibile alleanza latina, alternativa alle tentazioni filotedesche di Mussolini. Così, un libro che potrebbe sembrare un ripiegamento dell’anziano poeta verso il passato, è in realtà un altro sussulto di ribellione, una nuova testimonianza dell’insopprimibile sogno politico del Comandante e della sua completa disapprovazione dell’unione con la Germania nazista. La morte gli evitò, se non altro, di assistere alla firma del Patto d’Acciaio e alle tragedie della Seconda guerra mondiale.
 

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