Novanta anni fa il Pnf andava al potere. Né colpo di Stato, né insurrezione, né crisi parlamentare. I fatti del ’22 riportarono all’ordine un Paese indisciplinato
Ma cosa sarebbe accaduto se il Re avesse firmato lo stato d’assedio e avesse impedito la Marcia su Roma? Ci sarebbe stata la guerra civile, i rossi sarebbero accorsi a dar manforte ai militi che fino al giorno prima sputavano o si sarebbero alleati ai fascisti? Non ci sarebbe stato il fascismo? Domande di patafisica che mi ponevo l’altro giorno a Gorizia, parlando della Marcia su Roma novant’anni dopo, al Festival «èStoria».
Cosa fu la Marcia su Roma? Una controrivoluzione preventiva, come scrisse l’anarchico Luigi Fabbri e dissero i comunisti? Un colpo di stato, come scrisse Missiroli? Una crisi parlamentare con salutare soluzione extraparlamentare, come pensò Croce? Una rivoluzione indolore, senza vittime e senza caos, come poi disse il Re? Un’insurrezione che poi diventò regime, come scrisse Mussolini? Una rivolta solo minacciata, una parata con prova simulata di rivoluzione? Sul piano dei fatti la Marcia su Roma fu tutto questo. Ma nel suo significato politico la Marcia su Roma fu una «rivoluzione rassicurante». Così fu concepita dal suo Capo. Fu una rivoluzione rassicurante perché volle rassicurare il Paese e il suo establishment, il popolo e i “palazzi”. Già dal 1921 il rivoluzionario Mussolini aveva lasciato i toni antisabaudi, anticlericali e antiborghesi. Con la Marcia rassicurò la Corona, lo Stato, le Istituzioni, le forze armate e i militi, la Magistratura, la Chiesa, la Borghesia, il Capitale, e pure il Parlamento, fece un governo di coalizione. E rassicurò gli italiani che si sarebbe ripristinata la legalità, l’ordine pubblico, la vita normale, la sicurezza sociale.
«Tutto funzionò in quei giorni - disse sette anni dopo il Re - non ci furono vittime, le scuole restarono aperte, i tribunali, i magistrati fecero il loro dovere, gli operai andarono ugualmente fiduciosi a lavorare». La rivoluzione, per il Re, riportò ordine nel «popolo più indisciplinato della terra».
In secondo luogo, la Marcia su Roma non fu la calata dei barbari sulla capitale. L’azione fascista nasceva dal grembo della cultura italiana, dopo lunga incubazione.
Non la sostennero solo gli agitatori dell’arte e della letteratura, del giornalismo e del pensiero, i futuristi e i nazionalisti, Papini, Prezzolini, Soffici, D’Annunzio, Malaparte. Ma all’inizio anche fior di liberali come Benedetto Croce e Giovanni Gentile, Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca, Maffeo Pantaleoni e Luigi Einaudi, Alberto de’ Stefani, Luigi Albertini e Ugo Ojetti. E personalità come Giacomo Puccini e Guglielmo Marconi, Luigi Pirandello, Ada Negri e Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba e Giuseppe Rensi, il duca d’Aosta e la Regina Margherita. Croce addirittura presiedette nel 1914 il Fascio d’ordine che auspicava l’alleanza tra liberali nazionali e cattolici e criticava la massoneria, il giudaismo e il parlamentarismo. Poi paragonò le squadre fasciste alle «orde del cardinale Ruffo che avevano servito a scopi nazionali» e, da seguace di Sorel, disse a Giustino Fortunato che «la violenza è levatrice della storia». Alla Camera votò la fiducia al Duce anche dopo il delitto Matteotti.Quando Lenin ricevette al Cremlino una delegazione della sinistra italiana guidata da Giacinto Menotti Serrati, disse che in Italia la rivoluzione potevano farla solo tre capi: D’Annunzio, Marinetti e Mussolini. Però gli altri due erano poeti... Ma D’Annunzio a Fiume fornì il prototipo alla Marcia su Roma.
Nel 1921 Mussolini siglò un patto di pacificazione con i socialisti, mentre nasceva il partito comunista dalla costola rivoluzionaria del Psi che era stata più vicina a Mussolini ai tempi dell’interventismo rivoluzionario: da Gramsci e ad Angelo Tasca, dall’interventista Peppino Di Vittorio a Nicola Bombacci, che poi finì fascista, ucciso insieme a Mussolini a Salò. Non a caso l’Italia fascista fu il primo Paese a riconoscere l’Unione Sovietica pochi mesi dopo la Marcia su Roma. Per Soffici la differenza tra la rivoluzione fascista e quella sovietica fu netta: «Mussolini è italiano, cioè appartenente a una civiltà superiore, a una razza di liberi, di saggi, di generosi.
Mussolini non è un pazzo, un degenerato, un sanguinario cittadino di un paese incivile, primitivo, brutale e malato come la Russia... il fine di Mussolini è la pacificazione sotto la bandiera italiana».
Dove nasce la Marcia su Roma? Dalla Guerra vinta e sanguinante, frustrata e mutilata, i tanti caduti, l’esperienza del fronte con l’adrenalina ancora in circolo, le sue ferite aperte e le sue energie rimaste attive. Nasce poi dal caos del dopoguerra, dagli scioperi e dalle violenze del biennio rosso. E ancora: nasce dal cortocircuito tra decadenza politico-civile ed esuberanza giovanile-culturale. Infine dalla forte personalità di un Capo che fu chiamato Duce (dicono che il primo ad appellarlo in quel modo fosse stato Pietro Nenni, già suo compagno di galera, ai tempi dell’interventismo rivoluzionario).
Il fascismo fu, come scrisse Nolte, «il modello di una rivoluzione conservatrice e incruenta».
Rivoluzione-restaurazione. Eppure era imbevuta degli umori più rivoluzionari: Marx, Nietzsche e il loro anello di congiunzione, Sorel, teorico della violenza. La stessa cosa avvenne con il totalitarismo: la parola fu coniata per il fascismo, la rivendicarono Gentile e Mussolini, ma il fascismo non fu mai un regime totalitario compiuto: non ne ebbe i tratti delineati dalla Arendt e la ferocia, ma anche perché durante il regime Monarchia e Chiesa, Capitale e Apparati dello Stato restarono in piedi, quasi indenni. Il fascismo fu un regime autoritario di massa, e poi una dittatura cesarista e nazionalpopolare.
Nel ’21 Mussolini si fece monarchico e legalitario, fu il primo «ateo devoto», ritenne la missione universale della Chiesa romana un orgoglio per l’Italia. Impresse la svolta di regime, come egli stesso scrisse su Gerarchia, quando istituì il Gran Consiglio del Fascismo e la Milizia Volontaria per la sicurezza nazionale, da un verso costituzionalizzando il fascismo ma dall’altro ponendo sotto tutela fascista lo Stato. È curioso infine ricordare che nel ’21 nelle consultazioni al Quirinale l’allora deputato Mussolini suggerì al Re di nominare capo del governo il presidente della Camera di allora, Enrico De Nicola. Quando cadde il fascismo e poi la monarchia, il monarchico De Nicola fu il primo provvisorio presidente della Repubblica. Heri dicebamus, avrebbe detto Croce. La democrazia riprese laddove era stata interrotta, e seguì il consiglio del Dittatore...
Mussolini incontra il Re
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Cosa fu la Marcia su Roma? Una controrivoluzione preventiva, come scrisse l’anarchico Luigi Fabbri e dissero i comunisti? Un colpo di stato, come scrisse Missiroli? Una crisi parlamentare con salutare soluzione extraparlamentare, come pensò Croce? Una rivoluzione indolore, senza vittime e senza caos, come poi disse il Re? Un’insurrezione che poi diventò regime, come scrisse Mussolini? Una rivolta solo minacciata, una parata con prova simulata di rivoluzione? Sul piano dei fatti la Marcia su Roma fu tutto questo. Ma nel suo significato politico la Marcia su Roma fu una «rivoluzione rassicurante». Così fu concepita dal suo Capo. Fu una rivoluzione rassicurante perché volle rassicurare il Paese e il suo establishment, il popolo e i “palazzi”. Già dal 1921 il rivoluzionario Mussolini aveva lasciato i toni antisabaudi, anticlericali e antiborghesi. Con la Marcia rassicurò la Corona, lo Stato, le Istituzioni, le forze armate e i militi, la Magistratura, la Chiesa, la Borghesia, il Capitale, e pure il Parlamento, fece un governo di coalizione. E rassicurò gli italiani che si sarebbe ripristinata la legalità, l’ordine pubblico, la vita normale, la sicurezza sociale.
«Tutto funzionò in quei giorni - disse sette anni dopo il Re - non ci furono vittime, le scuole restarono aperte, i tribunali, i magistrati fecero il loro dovere, gli operai andarono ugualmente fiduciosi a lavorare». La rivoluzione, per il Re, riportò ordine nel «popolo più indisciplinato della terra».
In secondo luogo, la Marcia su Roma non fu la calata dei barbari sulla capitale. L’azione fascista nasceva dal grembo della cultura italiana, dopo lunga incubazione.
Nel 1921 Mussolini siglò un patto di pacificazione con i socialisti, mentre nasceva il partito comunista dalla costola rivoluzionaria del Psi che era stata più vicina a Mussolini ai tempi dell’interventismo rivoluzionario: da Gramsci e ad Angelo Tasca, dall’interventista Peppino Di Vittorio a Nicola Bombacci, che poi finì fascista, ucciso insieme a Mussolini a Salò. Non a caso l’Italia fascista fu il primo Paese a riconoscere l’Unione Sovietica pochi mesi dopo la Marcia su Roma. Per Soffici la differenza tra la rivoluzione fascista e quella sovietica fu netta: «Mussolini è italiano, cioè appartenente a una civiltà superiore, a una razza di liberi, di saggi, di generosi.
Mussolini non è un pazzo, un degenerato, un sanguinario cittadino di un paese incivile, primitivo, brutale e malato come la Russia... il fine di Mussolini è la pacificazione sotto la bandiera italiana».
Dove nasce la Marcia su Roma? Dalla Guerra vinta e sanguinante, frustrata e mutilata, i tanti caduti, l’esperienza del fronte con l’adrenalina ancora in circolo, le sue ferite aperte e le sue energie rimaste attive. Nasce poi dal caos del dopoguerra, dagli scioperi e dalle violenze del biennio rosso. E ancora: nasce dal cortocircuito tra decadenza politico-civile ed esuberanza giovanile-culturale. Infine dalla forte personalità di un Capo che fu chiamato Duce (dicono che il primo ad appellarlo in quel modo fosse stato Pietro Nenni, già suo compagno di galera, ai tempi dell’interventismo rivoluzionario).
Il fascismo fu, come scrisse Nolte, «il modello di una rivoluzione conservatrice e incruenta».
Rivoluzione-restaurazione. Eppure era imbevuta degli umori più rivoluzionari: Marx, Nietzsche e il loro anello di congiunzione, Sorel, teorico della violenza. La stessa cosa avvenne con il totalitarismo: la parola fu coniata per il fascismo, la rivendicarono Gentile e Mussolini, ma il fascismo non fu mai un regime totalitario compiuto: non ne ebbe i tratti delineati dalla Arendt e la ferocia, ma anche perché durante il regime Monarchia e Chiesa, Capitale e Apparati dello Stato restarono in piedi, quasi indenni. Il fascismo fu un regime autoritario di massa, e poi una dittatura cesarista e nazionalpopolare.
Nel ’21 Mussolini si fece monarchico e legalitario, fu il primo «ateo devoto», ritenne la missione universale della Chiesa romana un orgoglio per l’Italia. Impresse la svolta di regime, come egli stesso scrisse su Gerarchia, quando istituì il Gran Consiglio del Fascismo e la Milizia Volontaria per la sicurezza nazionale, da un verso costituzionalizzando il fascismo ma dall’altro ponendo sotto tutela fascista lo Stato. È curioso infine ricordare che nel ’21 nelle consultazioni al Quirinale l’allora deputato Mussolini suggerì al Re di nominare capo del governo il presidente della Camera di allora, Enrico De Nicola. Quando cadde il fascismo e poi la monarchia, il monarchico De Nicola fu il primo provvisorio presidente della Repubblica. Heri dicebamus, avrebbe detto Croce. La democrazia riprese laddove era stata interrotta, e seguì il consiglio del Dittatore...
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