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mercoledì 9 aprile 2014

Un rimpianto in fondo a destra

Un rimpianto in fondo a destra


Alle origini di Forza Italia, Mimmo Mennitti apparve come il principale motore politico del nuovo movimento che nasceva intorno a Berlusconi



Alle origini di Forza Italia, Mimmo Mennitti apparve come il principale motore politico del nuovo movimento che nasceva intorno a Berlusconi. Prima ancora Mennitti fu con la sua rivista Proposta e la sua corrente l'innovatore del vecchio Msi. Mennitti era uomo di destra e del presente, non voleva custodire il sepolcro e testimoniare la nostalgia. Anzi, sognava una destra che dialogasse con Craxi. Mennitti si unì a Beppe Niccolai che spostava quel progetto politico sul piano storico e culturale; a Mimmo toccava il realismo, a Beppe l'ardore ideale. Il riformatore e il rivoluzionario. Ma il Msi restò avvitato nel circuito della ripetizione nostalgica, e quando approdò ad An, Mennitti era già andato. Poi la delusione politica di Mennitti, il ritiro nella cultura con Ideazione, la rivista che voleva dare una linea culturale al centrodestra, il ritorno a Brindisi come sindaco, la malattia, la morte. Conobbi Mennitti da ragazzo, lui era «il federale» e presentava a Brindisi in una piazza gremita ed entusiasta Almirante. Poi ci ritrovammo a Il Tempo in Puglia e ai bordi della politica tra giornali e riviste, sue e mie. Il politico che gli era più affine fu Pinuccio Tatarella, corregionale diventato suo concorrente, che lo buggerò alle elezioni del '94 facendo saltare la lista di Forza Italia e restando solo a regnare sulla Puglia. I due insieme avrebbero potuto costruire una destra politica adeguata ai tempi, estesa al centro, capace di far politica e di pensarla. Mimmo, Beppe e Pinuccio, rimpianti & rimorsi.
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martedì 18 marzo 2014

Lo scolaretto fortunato

L'alunno Renzi è stato interrogato dalla maestra Merkel alla vigilia della campagna elettorale e del semestre italiano alla guida dell'Europa


L'alunno Matteo Renzi è uno scolaro fortunato. È stato interrogato dalla maestra Merkel alla vigilia della campagna elettorale e poi del semestre italiano alla guida dell'Europa. Queste sono le prime elezioni dopo le mazzate europee e la conseguente diffusione di una forte e variegata protesta antieuropea e antieuro. I governi temono i populismi e devono disinnescarli alleviando l'arcigno rigore e le misure sacrificali se non vogliono essere spazzati via o duramente mutilati. Per l'Italia, oltre la paura che crescano le quattro opposizioni all'austerity - berlusconiani, grillini, leghisti e destri, più frange dell'estrema sinistra - c'è pure la prospettiva della nostra leadership europea. Che si fa, cacciate o mettete dietro la lavagna, come dice lo scolaro Matteo, il Paese che dovrà guidare l'Europa fino alla fine dell'anno? No, che non si può. E questo agevola i compiti a casa di Renzi col permesso dei prof.
Matteo deve ringraziare la fortuna ma anche la forte pressione dei populisti se porterà a casa il nullaosta per il suo bonus popolare ed elettorale. In questo caso l'interesse degli italiani coincide con quello del suo premier; dopo tante angherie arriva un calice di speranza. Renzi giobba il suo partito, formato da vigilantes degli eurocrati, e poggia sulla forza populista delle opposizioni, salvo scusarsi con la Merkel se per contenerli è costretto a sospendere il rigore. Il perverso ménage della politica nostrana, fondata sull'adulterio triplo e carpiato. Italian cumparielli, in breve Italicum.
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sabato 19 ottobre 2013

Hanno partorito un mostro giuridico di Marcello Veneziani

Non ce ne stiamo accorgendo ma la repubblica di Napolitano e della Boldrini, del ministro Kyenge e dei manovali del Parlamento sta stravolgendo lo Stato di diritto

Non ce ne stiamo accorgendo ma, nel giro di poche settimane, la repubblica di Napolitano e della Boldrini, del ministro Kyenge e dei volenterosi manovali del Parlamento, sta stravolgendo lo Stato di diritto e il senso della giustizia col plauso dei media.
Viene introdotto il reato di omofobia, nasce cioè un reato dedicato in esclusiva; viene introdotto il femminicidio, cioè viene stabilito che c'è un omicidio più omicidio degli altri; viene negato il reato di immigrazione clandestina e dunque la cittadinanza non ha più valore; viene introdotto il reato di negazionismo, valido solo per la shoah.
Vengono così stravolti i principi su cui si fonda ogni civiltà giuridica: l'universalità della norma che deve valere per tutti, il principio più volte sbandierato e poi di fatto calpestato, della legge uguale per tutti; viene punito col carcere il reato d'opinione, e colpendo solo certe opinioni; viene sancita la discriminazione di genere, a tutela di alcune minoranze; è vanificata l'opera del giudice nell'individuare eventuali aggravanti nei reati giudicati perché vengono indicate a priori quelle rilevanti e dunque sono suggerite pure quelle irrilevanti.
Usano l'eccezione per colpire la norma, piegano le leggi a campagne ideologico-emotive e le rendono variabili. Sfasciano la giustizia col plauso dei giustizialisti, uccidono la libertà e l'uguaglianza, il diritto e la tolleranza nel nome della libertà e dell'uguaglianza, del diritto e della tolleranza.
Un mostro. E se provi a dirlo, il mostro sei tu, a suon di legge.
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lunedì 23 settembre 2013

Dall'austerità alla decrescita Ecco i miti tristi della sinistra La crisi petrolifera del 1973 fornì a Enrico Berlinguer un cavallo di Troia per criticare l'Occidente. Poi su queste idee si è innestato il terzomondismo

Quarant'anni fa l'Italia si svegliò dal sogno del benessere e dal sonno del consumismo e piombò nella depressione cupa della crisi economica. Era il 1973, e l'Italia, con l'Occidente intero, entrò nell'autunno dell'Austerity. Fu chiamata così in lingua internazionale, preludio alla globalizzazione, la risposta etica ed economica alla crisi che ci fece perdere l'euforia sprecona degli anni Sessanta.







Risuonarono parole cancellate dall'opulenza del boom economico e dalla liberazione sessantottina: sacrificio, risparmi, austerità. L'origine dell'austerity fu la crisi del Medio Oriente e l'impennata del petrolio. Fu l'ultima crisi economica legata a un bene reale come l'oro nero: poi, le crisi diventarono soprattutto finanziarie. Fu in quel tempo che la riserva aurea smise di essere il parametro per le finanze di un Paese. Finì l'età dell'oro. Gli effetti sociali dell'austerity furono traumatici ma non tutti malefici. Entrammo nell'epoca del risparmio energetico, la benzina triplicò i prezzi nel giro di pochi mesi, i limiti di velocità frenarono la corsa, calò l'oscurità per le strade di notte per non sprecare l'elettricità, ci fu un limite di tempo e di temperatura anche per i termosifoni. L'oscurantismo colpì soprattutto l'aspetto ludico: i locali pubblici chiudevano prima, concerti e veglioni non potevano inoltrarsi nella notte, le sale del cinema anticiparono gli ultimi spettacoli, persino la tv chiudeva prima delle ventitrè... E poi le domeniche a piedi o in bicicletta, la prima vera crisi dell'auto e dei consumi, i primi elogi della lentezza e del km0... 
Fu curioso e paradossale l'effetto che produsse da noi la crisi petrolifera: anziché attivare l'investimento sulle fonti energetiche alternative al petrolio, a cominciare dal nucleare, produsse una forte sensibilità ecologista che di fatto paralizzò la ricerca e le centrali. Poi arrivò la mazzata di Cernobyl a dare l'estrema unzione al piano energetico del nostro Paese. Restammo come don Chisciotte, con i mulini a vento, fuori dalla realtà. E dipendenti dall'estero.
Il terreno dell'austerity era stato culturalmente preparato da alcuni sensori. Da noi per esempio ci furono le denunce di un gruppo di scienziati, il club di Roma guidato da Aurelio Peccei, che l'anno prima alla crisi energetica pubblicò I limiti dello sviluppo, un libro che riprendeva, forse senza saperlo, certo senza citarlo, un discorso di quarant'anni prima del Duce contro l'utopia dello sviluppo e dei consumi illimitati. Risale a quegli anni anche il libro apocalittico di successo del futurologo Roberto Vacca, Medioevo prossimo venturo. Il mito dell'austerity precorse l'odierna «decrescita felice» o «l'abbondanza frugale». 
La cultura hippie, i figli dei fiori e le comunità alternative prima del '68 furono le avanguardie di questo movimento antimoderno. Sul versante tradizionalista riprendeva fiato la cultura antimoderna di Julius Evola, Renè Guénon, Marcel de Corte e molti autori pubblicati dalla Rusconi diretta da Alfredo Cattabiani.
Tramontava sull'onda nera del petrolio, il modello consumista ma anche il modello industrialista dei regimi d'ispirazione marxista e leninista. La convinzione cioè che il comunismo fosse «socialismo più elettrificazione», il culto della dinamo che diventò il logo per molte squadre di calcio dell'est comunista, l'ideologia del progresso, legata allo sviluppo dell'industria. Cominciò a serpeggiare l'idea di essere entrati in una società postindustriale, mentre si faceva strada il terzomondismo in difesa dei Dannati della terra, come li aveva chiamati Frantz Fanon in un celebre libro sponsorizzato da Sartre.
Sull'austerità si gettò a capofitto il Pci che la vide come «l'occasione per trasformare l'Italia» come recitava un libro firmato da Enrico Berlinguer per gli Editori Riuniti. Con la lentezza di un pachiderma il vecchio Partito Comunista arrivò in ritardo all'austerità che culminò nel '77 in alcuni incontri, uno con gli intellettuali al teatro Eliseo di Roma, un altro con gli operai al teatro Lirico di Milano incentrati sulla svolta austeritaria. Introdotto da Giorgio Napolitano, Berlinguer disse agli intellettuali raccolti intorno al Partito-Principe: «austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia». Ma vuol dire soprattutto superamento del modello capitalista, in una linea che ancora risentiva dell'influenza cristiano-comunista di Franco Rodano. Berlinguer ibridava questo ritorno all'austerità, che assumeva a volte i tratti dell'autarchia mussoliniana degli anni trenta, con un riferimento terzomondista che strizzava l'occhio al Vietnam e più cautamente alla Cina di Mao. Ma restava saldamente ancorato all'Urss con queste parole inequivocabili dette agli operai a Milano e poi raccolte in quel libro: «noi rispondiamo di no a chi vuol portarci alla rottura con altri partiti comunisti; a chi vuol portarci a negare quello che è stato la Rivoluzione d'ottobre e gli altri rivolgimenti che hanno avuto luogo nell'Oriente europeo ed asiatico, il ruolo che esercitano l'Unione Sovietica e gli altri paesi socialisti negli equilibri internazionali e nella lotta per la pace mondiale; a chi vuol portarci a negare il carattere socialista dei rapporti di produzione che esistono in quei paesi». Poi si prodigava in un'apologia del «centralismo democratico» in cui, sì, tutti hanno diritto alla loro opinione ma «la posizione che risulta maggioritaria diventa la posizione di tutto il partito e tutti, quindi sono tenuti a rispettarla». Questo era al tempo Berlinguer, leninista, brezneviano e filosovietico. Contrariamente all'immagine che si vuol accreditare oggi, nella politica d'austerità di Berlinguer non c'era tanto il rigore o la questione morale ma la speranza nel collasso del capitalismo, «il declino irrimediabile della funzione dirigente della borghesia», l'egemonia del movimento operaio unita all'egemonia culturale, esplicitata nell'incontro dell'Eliseo quando il segretario del Pci sottolineò che le forze intellettuali «hanno oggi in italia un peso sociale quale non avevano mai avuto e... hanno in larghissima misura un orientamento politico democratico di sinistra». L'austerità era per il Pci di Berlinguer il cavallo di troia del comunismo in Occidente. Arrivò poi la reaganomics, l'edonismo yuppie degli anni ottanta, il collasso sovietico, a liquidare con l'austerità anche il modello comunista. Fu così che l'austerità anziché indicare un'antica virtù e uno stile sobrio di vita, evocò l'arcigno grigiore del comunismo al tramonto. Di cui Berlinguer fu l'icona triste in Italia, nonostante le postume beatificazioni, gli enfatizzati strappi e le benigne immagini ridenti.

martedì 16 aprile 2013

Il tempo della frittata rovesciata



Il Paese affoga, centomila disoccupati in più al mese, tante imprese in via di chiusura, pressione fiscale al 52%. E i partiti non s'accordano nemmeno sulla legge elettorale

Sono finite le parole per denunciare lo stallo in cui versiamo e i paradossi che genera. Voto anticipato d'inverno e poi niente governo in primavera, dopo quasi due mesi. Monti perde ma resta in sella. La sinistra non vince ma prende tutte le cariche istituzionali. Il centrodestra si divide tra tifosi al Quirinale di Bersani e tifosi di Violante, di D'Alema o della Finocchiaro. Sul Monte dei Paschi regna uno strano silenzio. Siamo ridotti così male che la massima delle aspirazioni in questo momento è un governo Bersani col sostegno di Berlusconi e Monti. Frullato di tecnici e politici, gli stessi che hanno governato finora o impedito che si governasse. Gli stessi che si reputavano a vicenda il Male Assoluto. A raccontarla a uno spettatore esterno, questa assurda frittata rovesciata, non ci crederebbe. Ma tutto questo appare sui media come normale, inevitabile, da prendere sul serio.
A chi dobbiamo rivolgerci, cosa possiamo fare noi singoli cittadini, noi che scriviamo, noi popolo italiano? Il Paese affoga, centomila disoccupati in più al mese, tante imprese in via di chiusura, la pressione fiscale salita al 52%, interi settori devastati: casa, auto, barche. E i partiti non s'accordano nemmeno sulla legge elettorale; per ingannare l'attesa del secondo tempo e congedarsi, il Quirinale offre confezioni di saggi come popcorn, i media offrono spot di Renzi e i grillini offrono giochini scemi sul web. Ma ora fermi tutti, si va alla stazione a salutare un presidente che va e uno che arriva. 
Però il Paese sta sotto un treno.

domenica 31 marzo 2013

E il Novecento partorì un Topolino


Il secolo in cui siamo nati possiamo ricordarlo per gli orrori o per le scoperte, per i giganti o per i dittatori. Ma non avrei mai pensato che potesse essere considerato il secolo di Topolino, il mouse di Walt Disney

Il secolo in cui siamo nati possiamo ricordarlo per gli orrori o per le scoperte, per i giganti o per i dittatori. Ma non avrei mai pensato che potesse essere considerato il secolo di Topolino, il mouse di Walt Disney. Il filosofo della scienza Giulio Giorello lo ha salutato come suo collega e maestro in un saggio «La filosofia di Topolino», da poco uscito da Guanda. La sua non è una civetteria da pop filosofo: Ezra Pound disse che la figura letteraria americana più importante era Mickey Mouse.
Il Topolino di Giorello è fatto su misura per lui: non è Legge e Ordine, come si è spesso detto, ma è un progressista antimetafisico, un relativista che precorre temi odierni, un ribelle che combatte contro le ingiustizie. Promosso da Topolino a Grillino. Ricordo a Giorello che il padre del Topo, Disney, era un conservatore, vicino ai partiti di destra, con simpatie per il fascismo e perfino venature esoteriche da nazismo magico.
Disney fu ricevuto due volte da Mussolini che amava Topolino - suo figlio Romano era tesserato nel club - e quando con l'autarchia proibirono i fumetti made in Usa, Mussolini di suo pugno scrisse «eccetto Topolino». Per il Natale del 1937, racconta Alessandro Barbera in «Camerata Topolino», Goebbels regalò ben 18 film di Topolino a Hitler. Certo, bisogna distinguere tra fasi diverse di Disney e di Mickey Mouse. Il Topolino che ricordo io era un po' troppo perfettino e assennato, con insopportabili venature montiane. Preferivo Paperino, sfigato con brio. Derattizziamo il Novecento e la filosofia.

mercoledì 20 marzo 2013

La mamma è gay? Aboliamo la festa del papà


In un asilo romano è successo davvero e non è un caso isolato


Aboliamo la festa del papà perché c'è un bambino che ha due mamme e non un padre. In un asilo romano del quartiere africano, municipio II, è successo davvero e non è un caso isolato.
Per non ferire l'alunno con due mamme lesbiche tutti gli altri bambini non devono festeggiare il padre. La stupidità resterebbe invariata se non si festeggiasse san Giuseppe perché un bambino ha perso il padre, è trovatello o suo padre è in galera. Che raccapriccio la banale famiglia tipo padre-madre-figli, magari con l'aggravante della nonna in casa... 
I precedenti alla demenza in classe non mancano. Scuole che non festeggiano Natale e Pasqua perché c'è un bambino di altra religione. Niente feste nazionali se c'è un bambino extracomunitario. Niente 25 aprile se c'è un figlio di fascisti? No, quella non si tocca.
La scuola italiana è il principale laboratorio della stupidità collettiva, travestita da progresso umanitario. Quasi peggio della tv, dove la stupidità almeno è passiva e ricettiva, a scuola invece si fa attiva e militante. Qui non siamo al rispetto delle minoranze e delle libertà individuali, ma alla negazione della vita reale per la gente comune nel nome della diversità, che da diritto muta in canone. La scuola istituisce il canone, mentre la tv si limita a farlo pagare. Non sono un tifoso di queste feste standard e commerciali - la mamma, il papà o il gatto - ma il bersaglio qui non è la festa consumista e finta. È la famiglia vera, è il sentire comune, è la tradizione di casa. Cretini, ma non innocui.

sabato 16 marzo 2013

Una fiction progressista girata in Vaticano


A voler banalizzare l'elezione di Papa Francesco, diranno che con le dimissioni di Ratzinger è subentrato il primo dei non eletti che al precedente conclave si piazzò dopo l'eletto


A voler banalizzare l'elezione di Papa Francesco, diranno che con le dimissioni di Ratzinger è subentrato il primo dei non eletti che al precedente conclave si piazzò dopo l'eletto.







A rendere colorita la fumata bianca, ci ha pensato il Mattino che ha pubblicato un commento papista di Maradona: Diego scrive di aver visto la mano di Dio nei Mundial del 1986 e ritiene che il dio del pallone sia argentino; dunque è giusto che il Papa sia argentino.
Ora rischiamo un editoriale di Belen Rodriguez sul suo connazionale papa paragonato a Corona. A voler essere invece più seri ma non troppo, è stata stucchevole e grottesca la passerella mediatica di chi da un nome prescelto e da un luogo di provenienza, ha costruito un profilo di Papa Francesco del tutto inventato, come di un progressista, un pauperista, la protesi del Cardinal Martini, o come dicono a Roma, uno de sinistra. E invece questo Papa nulla ha concesso da vescovo al politically correct, ha tuonato contro l'aborto e le nozze gay, esprimendo parole da massacro mediatico; ha persino coabitato, e non da dissidente, col regime militare di Videla.
Nei media invece abbiamo sentito risuonare il gergo dell'umiltà che è la parodia demagogica dell'umiltà vera, quella che si vive e non si enuncia. Abbiamo sentito ricchissimi colleghi esaltare il Papa dei poveri. Per un giorno ci siamo illuminati d'immenso e ubriacati d'incenso. Diman tristezza e noia recheran l'ora. E torneremo, cucù incluso, a Grillo, i giudici, Berlusconi, la crisi politica, la catastrofe economica. Contenti?

martedì 12 marzo 2013

Chi ha fatto irruzione nell'asilo politico?


Un invasato di nome Beppe ha fatto irruzione in una scuola d'infanzia nel cuore di Roma e ha fatto una strage. Ha ucciso due bambini di nome Pier Ferdinando e Gianfranco seduti al primo banco
Un invasato di nome Beppe ha fatto irruzione in una scuola d'infanzia nel cuore di Roma e ha fatto una strage. Ha ucciso due bambini di nome Pier Ferdinando e Gianfranco seduti al primo banco, poi ha freddato due bidelli, Tonino e Pietrino, e due maestri, Oscar e Guido (si è scoperto dalle indagini che erano privi di titolo di studio). L'invasato ha poi ferito al loden l'insegnante di sostegno, il Professor Mario, che si è chiuso in bagno lasciando la scolaresca in balia dell'esaltato. Un maestro di nome Pierluigi, pallido e smacchiato in volto, ha cercato di calmarlo e blandirlo, offrendogli un panino alla mortadella ma l'invasato gli ha gridato: «Sei morto!» e il professore si è nascosto sotto la cattedra per poi sgattaiolare fuori come un giaguaro.
Si è salvato un bimbo di nome Matteo, rimasto a casa per gli orecchioni. Anche un bambino di nome Silvio si è salvato perché poco prima gli era entrata una trave nell'occhio ed è corso a farsi medicare, inseguito da una bidella dai capelli rossi di nome Ilda. Il dirigente scolastico Giorgio gli ha parlato al megafono e ha tentato vanamente di indurre l'esaltato a costituirsi. Dopo la strage, l'invasato si è barricato per sfuggire alla stampa che lo tempestava di flash e domande, appostandosi ovunque. È indecente, ha urlato, la vostra campagna allarmistica sull'accaduto, volete criminalizzarmi. Poi ha gridato: «Via l'Italia dalla neuro», ha tracciato sul muro, al contrario delle Br, una punta a 5 stelle, e si è dato fuoco alla chioma. Un incendio boschivo.

sabato 9 marzo 2013

Uno scacciapensieri sotto il Cupolone


Che strana epoca: una notizia in tempo reale fa il giro del mondo, ma alla fine aspetti che sia il vicino di casa a raccontarti in dialetto dal vivo le cose del mondo

Il giorno in cui il Papa si dimise ero sul bus diretto verso San Pietro. Accanto a me c'era un ragazzo con un curioso cappuccio in testa e una forte cadenza sicula che rispondeva a raffica al telefonino.
I compaesani avevano saputo della rinuncia papale e telefonavano al loro ambasciatore presso la Santa Sede, il ragazzo col cappuccio, per avere notizie di prima mano. Non si fidavano di quelli della televisione e volevano sentire dalla viva voce di un compaesano cos'era successo.
Quando uno del sud sta a Roma i compaesani sono convinti che veda e sappia cose esclusive, che mangi col Papa e prenda 'o cafè col Presidente. Dal paese vedono «quelli di Roma» come una sola comitiva che si ritrova ogni giorno in piazza, come al paese. Se vivi a Roma per loro sei già una mezza star.
Lui era entrato nel ruolo di portavoce papale, magari era sul 64 proprio per andare a constatare di persona in San Pietro. E rispondeva a fimmine, cumpari e cumparuzzi, raccontando la versione dal fronte, intercalata da una serie di «miiii» e addobbata via via di nuovi particolari. Non faceva in tempo a rispondere che ci aveva un altro sotto, lasciava uno per parlare con l'altro e in questo saltare da uno all'altro fingeva affanno ma era eccitato.
Che strana epoca, globale e tribale. Una notizia in tempo reale fa il giro del mondo, tra web, tv e telefonini. Ma alla fine poi aspetti che sia il vicino di casa, il parente, a raccontarti in dialetto dal vivo le cose del mondo. In fondo l'iPhone è l'evoluzione dello scacciapensieri e del cunta-storie.

sabato 19 gennaio 2013

La felitcità non fa politica

Ma davvero pensate che ci sia un legame tra democrazia e felicità? Dico a voi, Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky, che ieri sera ne avete riparlato all'Auditorium romano nel Festival delle scienze dedicato alla Felicità
Marcello Veneziani

Ma davvero pensate che ci sia un legame tra democrazia e felicità? Dico a voi, Ezio Mauro, direttore de la Repubblica e a lei professor Gustavo Zagrebelsky, insigne giurista, che ieri sera ne avete riparlato all'Auditorium romano nel Festival delle scienze dedicato alla Felicità.
Davvero pensate che la condizione per essere felici sia un regime democratico che rispetti la libertà e le regole? Su, guardate la realtà. I popoli più felici non sono certo gli scandinavi dove la democrazia, la libertà e le regole funzionano che è una meraviglia. Ma i popoli tropicali, caraibici, africani, le società giovani, arretrate, ignoranti, perché l'indole dei popoli, il clima, l'età media, le tradizioni di un Paese contano più dei regimi e delle norme.
Non vedete quanto sono tristi, isterici e rancorosi, insomma violacei, tutti i fanatici della Norma, inclusi i forcaioli del giustizialismo? La felicità non può essere somministrata e nemmeno garantita dalle leggi e dalle democrazie, non esiste lo statalismo della felicità (e neanche l'inverso, il liberismo selvaggio); perché la felicità non investe la sfera pubblica ma privata, attiene al rapporto tra il cosmo e l'intimità, senza passare dal politico e dalle regole.
La felicità è leggera e volatile, come un soffio e una carezza, balena a nostra insaputa, è attesa o ricordo, sogno o amnesia. Se è presente non è cosciente, e viceversa. È armoniosa, se è apollinea, o esagerata se è dionisiaca. La felicità non s'abbina alla Repubblica e alle Leggi. La felicità, divina cecità, vede a occhi chiusi.
ilgiornale.it

venerdì 18 gennaio 2013

La pagina occulta dell'agenda dei Prof



Se Monti fosse davvero uno statista, un uomo delle istituzioni e un salvatore dell'Italia in rovina, non sarebbe salito in politica

Se Monti fosse davvero uno statista, un uomo delle istituzioni e un salvatore dell'Italia in rovina, non sarebbe salito in politica, come ha detto con demagogica ipocrisia. Avrebbe servito il Paese fino alle elezioni, gestendo il voto con tecnica imparzialità, poi avrebbe atteso che la politica si riprendesse la sovranità, confidando che lo avrebbero richiamato in servizio perché necessario.
Se Monti fosse davvero convinto di essere indispensabile e proficuo all'Italia non avrebbe avuto alcun bisogno di farsi la lista, di ridursi al ruolo di terza o quarta forza politica, di associarsi a vecchi marpioni della politica nostrana, di litigare col Pdl che lo aveva sostenuto e di passare da tecnico a pirotecnico. Ma lui, candidato impopolare del partito popolare, ha fatto un calcolo degno dei partitini aghi della bilancia: considerando che la sinistra non avrà i numeri per governare da sola e considerando che Bersani potrà governare solo se bilancerà Vendola con un centruzzo euro-tecno-moderato, in modo da esaltare il suo ruolo centrale, ci sarà bisogno di me.
Così potrò dire: vi sostengo e vi copro davanti all'Europa dei tecnici, dei mercati e dei moderati, in cambio del Quirinale, di un ruolo importante per Casini e un posto per Fini. Così garantiamo un nuovo centrosinistra europeo e chiudiamo Berlusconi in cella con Grillo e Maroni. Questa è la pagina occulta ma decisiva dell'Agenda Monti e dei suoi mandanti. Ah, dimenticavo, poi ci sono quelli lì, fastidiosi, lamentosi, ingombranti; come li chiamate? Italiani.
http://www.ilgiornale.it/news/interni/875849.html

sabato 22 dicembre 2012

Bue e asinelli cacciati del presepe

Con gran dolore dei bambini, dei nonni e della Brambilla, quest'anno sono stati espulsi dal presepe il bue e l'asinello. Il Papa ha detto che la loro presenza nella grotta è abusiva, storicamente infondata

Con gran dolore dei bambini, dei nonni e della Brambilla, quest'anno sono stati espulsi dal presepe il bue e l'asinello. Il Papa ha detto che la loro presenza nella grotta è abusiva, storicamente infondata. Resteranno negli spogliatoi, senza permesso di soggiorno, o al più ripescati in platea, mescolati nella folla. Non so come vivranno la grottesca cacciata, se si appelleranno alle organizzazioni animaliste o accetteranno muti, come è loro costume, con cristiana rassegnazione. Però non è giusto. Furono il primo termosifone dell'umanità, i primi radiatori viventi; hanno resistito per secoli nei presepi, da San Francesco animalista a oggi, nel ruolo di attori di spalla e testimoni degli sposi. Anche per Giuseppe e Maria erano un fiato.
Restano gli angeli, appesi a fili precari, che cadono in continuazione facendo strage di pastori e papere. Restano i Re Magi, di grandezza diseguale, uno nano sul cammello, l'altro moro a piedi, il terzo col loden che sembra appena sceso da un taxi. Tre Re su una popolazione di una decina di pastori, la stessa proporzione tra dirigenti e dipendenti alla Regione siciliana. Resta san Giuseppe deformato dall'artrosi e la Madonna di cui una è titolare e due mimetizzate sono di riserva (insieme, le tre marie fanno un panettone). E resta lui, un bambinello gigantesco rispetto al presepe, un pupone nascosto a fatica nella mangiatoia fino al 24. Ma al presepe non vale il rigore né la meritocrazia: non bocciate gli asini e non tagliate i buoi in esubero. Su, Papa Ratzinger, non faccia la Merkel.