La crisi attuale è una crisi economica e sociale provocata dal successo della nuova struttura del processo di accumulazione capitalistico, che si è dato a partire dagli anni Settanta con la globalizzazione. Il cuore del processo è la finanza, cioè la trasfigurazione da un sistema basato sul profitto capitalistico a quello basato sull’esproprio dei redditi e la rapina delle ricchezze materiali e intellettuali. La crisi in corso non ha nulla di ciclico, diversamente dalle crisi economiche del capitalismo industriale, e troverà il suo punto di approdo in un potere assoluto coincidente con l’impoverimento di gran parte dei cittadini. Per questo l’uscita dagli effetti della crisi può avvenire solo con l’uscita dal capitalismo, che oggi è quello della speculazione finanziaria e della rapina di Stato.
I mercati finanziari sono le “fabbriche” che hanno sostituito quelle del fordismo industriale, la culla della rapina e dell’esproprio. Questo percorso di finanziarizzazione delle economie capitalistiche inizia negli anni Ottanta con la modifica della legge bancaria negli Stati Uniti, ai tempi di Reagan, poi negli anni Novanta con l’introduzione di nuove regole per la finanza che hanno consentito la produzione dei derivati e titoli tossici, con Clinton; il tutto, con il consolidarsi di un potere unico finanziario-militare illustrato ampiamente da James K. Galbraith. L’Europa ha seguito per imitazione le stesse politiche con le “direttive europee”, passivamente recepite anche in Italia, che hanno introdotto la banca “universale” e la liberalizzazione dei mercati finanziari.
In Italia questo percorso è stato segnato dalla biografia di Mario Draghi, che bene illustra i conflitti d’interessi e le collusioni tra mondo politico e poteri finanziari. Negli anni Ottanta è direttore per l’Italia della Banca Mondiale, negli anni Novanta diventa direttore generale al Tesoro e privatizza il sistema bancario, introduce il Testo Unico del 1993 sulle banche che recepisce tutte le direttive europee, comprese quelle ben note sui derivati speculativi. Poi lascia la mano per andare a dirigere la Goldman Sachs e contribuire così a mettere a punto la “grande truffa” che esplode nel 2008, di cui non era a conoscenza come responsabile della sorveglianza in quanto governatore della Banca d’Italia. Nel mentre la “sinistra” è distratta dalla difesa dell’autonomia della Banca d’Italia e dalla denuncia sul conflitto d’interessi di Berlusconi – contro il quale, in ogni caso, non fa nulla.
La classe dirigente politica e imprenditoriale che abbiamo è quella che è sopravvissuta alla guerra condotta contro il sistema italiano dagli anni Cinquanta in poi dagli Stati Uniti, dalla Francia e dalla Germania, e che continua oggi. Finora questa guerra è stata vinta, prima con l’eliminazione fisica dei personaggi scomodi – Mattei, Olivetti – poi con la distruzione del sistema politico italiano negli anni Novanta e ancora oggi. La corruzione esistente è la causa di questi sviluppi e di come, attraverso i fiumi di denaro riversati sui politici e sulle istituzioni, se ne è ottenuto il silenzio e la collusione alla realizzazione dei piani di costruzione del consenso su un progetto italiano ed europeo squilibrato. La reazione popolare degli ultimi anni, e espressa dalle ultime elezioni, dimostra che il limite della sopportazione è stato raggiunto, ma anche il fallimento di questi piani di destabilizzazione politica e di marginalizzazione economica del paese.
In Italia le persone e i movimenti che potevano denunciare e interpretare queste tendenze hanno scelto la via opportunistica dell’inserimento e dell’integrazione, trasformando il piano di apartheid globale della globalizzazione in un’opportunità per arricchirsi nel villaggio globale, e interpretando i fenomeni reali della destabilizzazionepolitica e marginalizzazione economica come “globalizzazione dal basso” e “globalizzazione del welfare”. Si è cioè pensato di poter predicare il pacifismo portando la guerra altrove, di combattere la speculazione e il crimine “tassandoli” per ricavarne parte del dividendo, di poter costruire la “città ideale” dentro le nicchie di un contesto in sfacelo.
A chi avanzava riserve critiche sulle forme dell’integrazione europea si rispondeva che queste volevano far “sprofondare” l’Italia nel Mediterraneo. Ebbene, è proprio l’adesione acritica alle strategie della globalizzazione e dell’Ue che sta facendo sprofondare l’Italia nel “sottosviluppo”. Ma l’Italia è un paese forte e le reazioni sociali e politiche che si annunciano lo dimostrano. Il successo di queste tendenza è anche la sola speranza offerta ai nostri giovani. Una ricostruzione dell’Europa a partire dai popoli e dagli Stati deve assumere una forma confederale tra le quattro grandi meso-regioni europee (Paesi nordici,Europa centrale, Europa mediterranea e Europa occidentale). Uscire dal guscio asfissiante del dominio dell’Europa occidentale e dell’alleanza atlantica è la premessa per queste nuove politiche.
L’euro doveva essere lo scudo, ma la sua gestione è stata affidata a chi ha messo in moto la crisi, inutile ripetere i nomi delle persone e organizzazioni, ed è quindi divenuto la camicia di forza che impedisce agli Stati e alla stessa Ue di reagire e di difendersi. Il ruolo dell’Europa è possibile se negli Stati nazionali si manifestano forze popolari che si facciano carico di riprendere il percorso di pace e cooperazione che fu alla base dell’idea di Europanel primo dopoguerra, e poi fatto deragliare prima dalla guerra fredda e,successivamente, negli anni Novanta, dalla scelta di fare del progetto europeo un piano di competitività e di guerra.
Una delle affermazioni ricorrenti è che bisogna tagliare la spesa pubblica per creare le condizioni di base utili a contrastare e superare la crisi? La spesa pubblica non c’entra con la crisi e invece di guardare al deficit dello Stato e al debito estero si dovrebbe guardare all’occupazione e al deficit della bilancia dei pagamenti, come ho spiegato nel mio libro “L’Europaoltre l’euro”. La spesa pubblica aumenta in situazioni di crisi in ragione degli stabilizzatori automatici che hanno il compito di evitare forti conseguenze sociali, ed è per questo che Keynes raccomandava al governo: «Occupatevi dell’occupazione e questa si prenderà cura del bilancio dello Stato». Chi vuole gli stabilizzatori sociali, cioè il welfare, non intende risolvere la crisi ma scaricarne i costi in modo irresponsabile sui cittadini più deboli e i lavoratori, cioè sul 99% delle persone.
L’Europa deve ripensarsi e ritrovare il suo spirito di pace e di cooperazione con le nuove aree mondiali emergenti, lasciandosi alle spalle i vecchi mercati ricchi dell’Occidente. Insistere sul modello della guerra e della competitività significa condannarsi al suicidio e alla marginalità sia verso l’Occidente che verso l’Oriente. La cooperazione con le nuove aree in crescita non si ottiene con la competitività ma con rapporti diretti e dicooperazione tra Stati, cioè sullo scambio reale di capacità e di beni e con la messa in comune delle risorse disponibili.
La crisi finanziaria, la più grande ondata di crimine finanziario organizzato della storia umana, secondo le parole di James K. Galbraith, è stata preparata nel corso di tre decenni durante i quali la globalizzazione ha avuto il tempo di organizzarsi dispiegando tutti i suoi effetti con l’imposizione del “pensiero unico” fino al “potere unico” dell’ultimo decennio. Tra gli economisti, e non solo, è prevalsa la corsa a farsi “consiglieri del principe”, sostituendo e riscrivendo i libri di testo sotto dettatura del pensiero neoliberista. Tuttavia, le analisi critiche per comprendere quanto è accaduto non sono mancate: dai contributi premonitori di James K. Galbraith, “Lo Stato Predatore”, a quelli di Paul Krugman e Joseph E. Stiglitz.
Questa crisi si fermerà quando i 4/5 della popolazione saranno ridotti in condizioni di povertà e marginalizzazione. Un percorso avviato ma che richiede tempo. La “ripresa” sarà una stabilizzazione e istituzionalizzazione della povertà e della dipendenza politica del paese dai centri finanziari. Che questo possa avvenire in forma pacifica è da dimostrare. La vera ripresa ci può essere solo se il 99% degli esclusi riprende il controllo sulla macchina del potere politico ed economico. Le forme in cui questo avverrà, se avverrà, non saranno indolori per le vecchie classi dirigenti, e per questo vi si oppongono con tutti gli strumenti a disposizione. La forza obiettiva di questo cambiamento dipende dal fatto che l’alternativa a una vera ripresa è lo scenario dell’implosione dell’Europa sul modello jugoslavo, a noi ben noto. La preferenza per una soluzione (anche europea) negoziata e con un cambio di indirizzo dovrebbe apparire ovvia e di buon senso, oltre che più giusta. Ma raramente l’equità e la giustizia prevalgono sugli interessi costituiti.
(Bruno Amoroso, dichiarazioni rilasciate ad “Altrestorie” per l’intervista “L’uscita dal capitalismo” pubblicata su “Comune-info” e ripresa da “Megachip” il 15 giugno 2013.Presidente del Centro Studi Federico Caffè, nonché docente di economia in Danimarca e in Vietnam, Amoroso è tra i promotori dell’Università del Bene Comune ed è autore di numerosi saggi sulla crisi europea).
Fonte: http://www.libreidee.org/2013/06/amoroso-niente-ripresa-prima-devono-ridurci-alla-fame/
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