I regimi dittatoriali sono come i manicomi. Hanno una loro logica, ma è delirante. Negli anni Settanta del Novecento Victor Zaslavsky (1937-2009), era uno stimato accademico dell’Urss: laureato in ingegneria, si era poi appassionato di sociologia e di storia. Perse tutto, incarico, stipendio e reputazione, perché il nipote aveva chiesto di poter espatriare: lo avevano licenziato, gli impedivano di lavorare. «È un elemento antisovietico» decisero le autorità nel concedergli l’autorizzazione: meglio perderlo che trovarlo, insomma. Come rivalsa però angariarono lo zio. Rovinato, un anno dopo anche Zaslavsky chiese di poter andare all’estero, visto che in patria era destinato a morire di fame. «Un altro parassita antisovietico» fu il commento.
In una logica manicomiale poteva capitare di definire come «antisovietici», e quindi «controrivoluzionari», scrittori nati quando né i Soviet né la Rivoluzione d’ottobre erano ancora avvenuti. Oppure che nel chiedere di fare delle fotocopie di un libro in lingua straniera ci si sentisse rispondere che, prima, bisognava presentare la traduzione delle pagine da fotocopiare... E poteva accadere che il direttore del circo di Mosca venisse accusato di propaganda antisovietica e di calunnia contro il sistema sanitario: nel suo spettacolo un clown che faceva il medico siringava con un clistere l’orecchio del clown paziente.
Semiòn, lo zio ingegnere di Zaslavsky, perse il posto dall’oggi al domani. Era l’epoca in cui Stalin si era messo in testa l’esistenza di una «congiura dei medici ebrei» per farlo fuori. Semiòn non era laureato in medicina, però era ebreo e così si procedette per precauzione anche al «licenziamento degli ebrei in posizione di rilievo». Reduce della Seconda guerra mondiale, sei decorazioni al valore, tre ferite in combattimento, la moglie morta nell’assedio d Leningrado, lui non riusciva a farsene una ragione. «Quando si trattava di combattere si fidavano di me, mentre ora, a vittoria ottenuta, non mi affidano nemmeno una centrale elettrica e mi lasciano senza lavoro». Il fatto era, come gli spiegò un amico, che «l’unico periodo in cui si capiva dove erano i nostri e dove era il nemico è stato quello della guerra»... In più, Semiòn aveva scarsa memoria: «Prima di allora, arrestavano a destra e sinistra e ti spedivano in un lager. Era come alla lotteria».
Di Victor Zaslavsky (morto due anni fa in Italia, dove ha insegnato a lungo scrivendo molto sui rapporti tra il nostro Paese e l’Urss, in particolare Togliatti e Stalin, firmato con la moglie Elena Aga-Rossi e uscito nel 2007 per il Mulino, basato su documenti inediti provenienti dagli archivi di Mosca riguardanti l’attività del Pci) esce oggi, postumo, Il mio compagno di banco Ramòn Mercader (Sellerio, pagg. 172, euro 12), un libro di storie di dittatoriale follia. Quella che dà il titolo al volume è particolarmente emblematica. Mercader era il «picconatore» di Trockij, «eroe dell’Unione Sovietica» per decisione di Stalin. Dopo vent’anni di galera messicana, era tornato finalmente in Russia, ma era la Russia di Chruscev appena destalinizzata, e quindi su di lui era caduto il silenzio. Così, molto del suo tempo lo passava nelle spetscran, le «sale di lettura riservate» delle biblioteche nazionali. «Era evidente che conduceva un suo personale dialogo senza fine con Trockij o, forse, con gli autori di libri su Trockij. Polemizzava, accusava, si difendeva... Qualche volta camminava su e giù per il corridoio, e saltava, serrando i pugni». Zaslavsky si chiede se quello fosse «il classico caso del fantasma della vittima che perseguita il suo assassino», ma dietro forse c’era qualcos’altro: per la causa ammazzi il nemico, passi un quarto della tua vita in carcere, finalmente esci e scopri che di quel nemico nessuno vuole più parlare e il nuovo nemico è invece quello che ti ordinò l’assassinio... È o non è il manicomio?
La riscrittura e/o cancellazione della memoria è un’altra caratteristica del delirio totalitario. Nella Russia del secondo dopoguerra, la scarsità di nuovi libri di testo costringeva all’utilizzo di manuali di storia stampati ancora nella metà degli anni Trenta. Di mezzo però c’erano state le «purghe» staliniane e così gli studenti aprivano i libri «a pag. 181 e versavano inchiostro sui ritratti dei marescialli Tuchacevskij e Blucher». Un giorno Bopa, un compagno di classe di Victor, confuse una pagina con un’altra, 118 al posto di 181, e «versò l’inchiostro sul ritratto del famoso fisiologo Pavlov e per questo fu purgato egli stesso dal Consiglio». Un classico caso di riflesso pavloviano.
In un regime totalitario quale quello della Russia comunista poteva accadere di imbattersi nei manicomi in qualche pazzo che si credeva Napoleone. Non c’era spazio però per chi avesse pensato di essere Lenin, o Stalin... Qui il delirio diveniva «controrivoluzionario» e quindi il pazzo non era tale, ma un agente del nemico e i nemici andavano liquidati. Una pallottola o una iniezione era «la cura», anche se il certificato di morte avrebbe sempre parlato di «arresto cardiaco». Come abbiamo detto all’inizio, c’è sempre una logica...
Nessun commento:
Posta un commento