lunedì 5 marzo 2012

Così Solgenitsyn si svegliò dall’incubo comunista

Un libro inedito a quattro anni dalla morte. In Ama la rivoluzione!, datato 1948, lo scrittore comincia il lungo percorso verso Arcipelago Gulag


«Sono infinitamente difficili tutti gli inizi, quando la semplice parola deve smuovere l’inerte macigno della materia. Ma non c’è altra strada se tutta la materia non è più tua, non è più nostra. Anche un grido può provocare una valanga in montagna».

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Da ragazzo leggevo e annotavo queste parole di Alexander Solgenitsyn, il dissidente venuto dall’Est.
Le ritrovai alcuni anni fa e pensai con commosso stupore al grido di Solgenitsyn e alla valanga che aveva creato. Dopo la sua denuncia, il mondo seppe dell’arcipelago gulag, poi fu eletto il Papa venuto dall’Est comunista, poi Gorbaciov avviò la perestrojka, poi cadde il Muro di Berlino e infine crollò il comunismo. Non dirò che quel grido abbia provocato quell’immenso terremoto; ma in principio fu la parola, la fragile, inerme parola di un dissidente russo che aveva vissuto e descritto sulla propria pelle quel calvario di orrore. Non solo lui, ma lui fu certamente il caso più clamoroso. Mi rincuorò pensare che le parole, le idee, la cultura, non sono inutili; a volte, muovono le montagne...
A quattro anni dalla sua morte esce ora da Jaca Book un libro inedito di Solgenitsyn, curato da Sergio Rapetti, Ama la rivoluzione!, che sarà presentato giovedì alla Biblioteca Ambrosiana a Milano dal figlio dello scrittore, Ignat. È un libro che annuncia il cammino di una lunga sofferenza: risale infatti al ’48 e Solgenitsyn, giovane capitano pluridecorato, è già detenuto da tre anni per aver criticato Stalin in una lettera a un amico mentre combatteva valorosamente contro i nemici della Russia. Ma non è stato ancora avviato al gulag; la sua testimonianza di allora è la fine di un sogno, ma non ancora il risveglio in un incubo. È la fine della palingenesi rivoluzionaria, il presagio d’inferno visto con gli occhi di un giovane idealista, Gleb Nerzin, alter ego dello scrittore; ma c’è ancora la freschezza di un giovane che continua a sperare nella vita, non sa che lo aspetta un percorso terribile da cui miracolosamente uscirà vivo. Il romanzo restò incompiuto. Poi, dopo gli anni del gulag, Solgenitsyn sarà riconosciuto nel mondo, consacrato nel 1970 dal Premio Nobel, amato in Russia, dove fece ritorno dopo una parentesi infelice nel «materialismo d’occidente», come egli disse, in America. Poi il ritorno alla gloriosa solitudine della natura, i suoi incontri con i potenti e con Putin, ricevuto un paio di volte nella sua dacia. Lui, la bandiera della Grande Madre Russia, spirituale e religiosa, figlio della tradizione e martire del comunismo che incontra un uomo di potere venuto dall’Apparato.
Ma gli ultimi anni della sua vita furono all’insegna di un diffuso e infastidito oblio, soprattutto in occidente. Per metà dovuto a chi voleva cancellare in Solgenitsyn le proprie trascorse passioni per il comunismo, e per metà dovuto a chi voleva rimuovere con Solgenitsyn la sua critica all’occidente sazio e disperato, spiritualmente non migliore dell’Unione Sovietica. A volte gli occidentalisti fanatici di oggi erano i comunisti fanatici di ieri, gli stessi, e Solgenitsyn era per loro due volte molesto e insopportabile, perché ricordava la loro duplice miseria e il loro viaggio da un materialismo all’altro, uno pauperistico, repressivo e messianico, l’altro opulento, permissivo e nichilista.
Oggi fioccano da noi gli elogi del moralismo in funzione antiberlusconiana; ma il moralismo di Solgenitsyn contro il degrado permissivo dell’occidente era considerato insopportabile sia dai progressisti sessantottini che dagli «edonisti reaganiani». E poi il suo spirito patriottico aveva alimentato i movimenti nazional-religiosi della Russia e dell’Est ex-sovietico; la vittima dei gulag rischiava di passare per un cattivo maestro. Eppure lo stesso Solgenitsyn non mancò di criticare il rinato imperialismo panrusso, la deriva fanatica del nazionalismo e prese le distanze dai movimenti sciovinisti e razzisti.
Solgenitsyn ha vissuto gli ultimi anni della sua vita in una prigione dorata, in un gulag ovattato, riverito dai potenti ma dimenticato dal mondo. La persecuzione dei gulag cedeva il posto all’oblio. Morte civile, questa volta, anziché repressione incivile. Assordante silenzio e imbalsamazione da vivo, per non sentire la sua voce. Fu monumentalizzato in vita per renderlo inoffensivo.
Ora la riemersione di un testo giovanile è un sasso lanciato nello stagno, sordo a ogni risveglio dell’anima, incupito dal dominio della tecnica e del mercato, più residui tossici del vecchio comunismo e del vecchio radicalismo giacobino.
Anni prima che morisse, Solgenitsyn era già morto nella coscienza del nostro tempo, e non solo dei russi volgari e danarosi, mafiosi e lenoni, che conosciamo in vacanza da noi; ma anche nella coscienza di quell’occidente che un tempo lo aveva inneggiato come icona dell’anticomunismo e della libertà. Penso anche ai nouveaux philosophes francesi, che lo usarono come un taxi per uscire dal radicalismo gauchiste di cui erano infatuati; ma poi, finita la corsa, lo abbandonarono quando Solgenitsyn pose il problema del vuoto spinto dei valori occidentali e riaprì il tema religioso, patriottico e popolare.
Ma la lezione di Solgenitsyn assume compiutezza proprio quando con lui si coglie il mondialismo come sintesi del materialismo occidentale, individualista, consumista e utilitarista e del materialismo sovietico, collettivista, pauperista e utopista. Certo, la sua resta una lettura apocalittica, che oppone il mondo a Dio e l’anima al denaro. Ma l’apocalissi di Solgenitsyn non nasce dall’odio e non predica odio, ma sorge dall’amore ferito per gli uomini, per il mondo reale, per Dio. La catastrofe suscita in lui un cuore pietoso. Fu uno dei più grandi e sofferti testimoni del Novecento e del suo male ereditato nel secolo presente: la perdita dell’anima.

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