sabato 10 marzo 2012

Le banche negano gli aiuti: 2 imprenditori si impiccano

Il primo caso in Veneto. Poi l’incredibile storia di un negoziante pugliese: gli rifiutano un prestito di 1.300 euro e gli chiedono 4.500 euro di commissioni



La banca che ti sbatte la porta in faccia. La vergogna di due imprenditori che non hanno più soldi per pagare i dipendenti. E quella parola - fallimento - che ti strappa l’anima, la voglia di vivere, la forza di guardarti allo specchio. A tutto questo devono aver pensato i due uomini che hanno deciso di togliersi la vita: uno al nord, in Venteo; l’altro al sud, in Puglia. A dimostrazione che la crisi stritola senza fare differenze sulla cartina geografica. Banche ottuse, nel «ricco» settentrione come nel «povero» meridione. Luoghi comuni? Forse. Ma poco importa quando la voglia di farla finita supera quella di andare avanti.
Partiamo dal dramma dell’imprenditore veneto. Un artigiano di 60 anni a Noventa di Piave (Venezia). L’uomo, padre di una figlia e residente a San Donà, è stato trovato impiccato da un dipendente nel capannone della falegnameria che gestiva a Noventa. Sulle cause del gesto indaga la magistratura: ci sarebbe una lettera che l’artigiano ha lasciato in cui si spiega il perché del suicidio legato a problemi economici, aggravati anche dalla «chiusura dei rubinetti» da parte delle banche.
Il gesto, riportato da molte testate locali, ha sollevato parecchi commenti, anche nel mondo della politica. Primo tra tutti quello del presidente della Regione Veneto Luca Zaia: «È scandaloso il fatto che sia nata una nuova figura di fallito. Una volta il fallito era quello che aveva i debiti, oggi sono quelli con i crediti. Anche questo nuovo tragico fatto va in questa direzione: oltre trenta suicidi di veneti che non si sono tolti la vita nei villaggi turistici, in vacanza, ma all’interno delle loro aziende».
Passiamo ora alla tragedia dell’imprenditore pugliese. Da qualche giorno era sconvolto. Sentiva che non ce l’avrebbe fatta a gestire la crisi che aveva colpito le sue attività commerciali, messe su in 40 anni di sacrifici. In pochi giorni si era visto addebitare, forse per errore, 4.500 euro di commissioni bancarie e rifiutare un misero prestito di poco più di mille euro. Dopo il rifiuto del piccolo mutuo, il 60enne Vincenzo Di Tinco, titolare di un negozio di abbigliamento e di altre attività commerciali a Ginosa Marina (Taranto), si è suicidato impiccandosi ad un albero. A fare la scoperta ieri mattina è stato uno dei suoi tre figli, insospettito dal mancato rientro a casa del genitore. Ora la moglie e i figli del commerciante hanno ricostruito le ultime ore di vita di Vincenzo Di Tinco.
Il sessantenne l’altroieri, alle 15.30, aveva appuntamento con il direttore di una banca locale, a cui aveva chiesto aiuto per un fido di soli 1300 euro, necessario per coprire una fornitura. Di Tinco si era già rivolto a un legale e aveva aperto un contenzioso con la stessa banca in quanto si era visto addebitare somme rilevanti (oltre 4.500 euro), che lui contestava, come commissioni per l’utilizzo del Pos, il terminale fornito ai commercianti per accettare il pagamento con carte di credito. Per questo aveva chiamato in causa anche la concessionaria del Pos, una società di Palermo. «Dagli estratti conto - spiega il legale nominato dalla famiglia del commerciante suicida per seguire gli sviluppi dell’inchiesta - sono emersi addebiti sproporzionati per le transazioni, probabilmente frutto di errori. Il commerciante lo aveva fatto presente quando ha chiesto il nuovo fido, ma non è riuscito ad ottenere la copertura finanziaria». Una vergogna insopportabile per un uomo per bene. E mettersi una corda attorno al collo deve essergli sembrata una liberazione.

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