venerdì 16 settembre 2011

Se la sinistra partigiana diventa nazionalista Le radici antiche e liberali dell’amor di Patria

di Dino Cofrancesco

L'Italia non è cosa vostra. La gauche che adesso ama il Tricolore è un controsenso. Ma anche certa destra deve ripensare la sua idea di italianità. Da decenni certi intellettuali studiano solo la Resistenza. Comuni, signorie, ducati: prima dell'Unità non c'era il deserto dei tartari

Marcello Veneziani ha ragione nel dire ai “cari neopatrioti di sinistra”: «l’Italia non è cosa vostra». Da sessant’anni la storiografia progressista è vissuta di «processi al moto unitario», di «Risorgimento interrotto» (o tradito), di «conquista regia», di «estraneità delle masse alla costruzione dello Stato nazionale», di «mancata riforma agraria», di «colonizzazione del Sud» eccetera.

Quello di sinistra era un versante politico «convinto che la storia d'Italia cominciasse dalla Resistenza e dalla Costituzione e il resto fosse solo foresta nera». Mi chiedo, però, se la minoritaria destra nazionale, sempre pronta a sbandierare il tricolore davanti agli antinazionali, avesse davvero le carte in regola per fare del patriottismo una cosa sua. Per un ventennio ho letto le pagine culturali del Secolo d’Italia (raccolte poi in pesanti volumi) e, a parte le celebrazioni retoriche dei martiri del Risorgimento e delle guerre mondiali, vi ho respirato un’aria che non era certo né cavouriana, né mazziniana. Il progetto politico-culturale sembrava quello di una grande federazione di tutte le correnti di pensiero antimoderne-italiane e tedesche, soprattutto-mobilitate per contrastare l’irresistibile ascesa dell’illuminismo. Cattolici tradizionalisti e lefevriani si alternavano a evoliani nostalgici dell’Impero: non c’era critico di destra di Giovanni Gentile che non venisse ricordato e “rivalutato” e se si parlava dei liberali conservatori, come Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca, era per metterne in luce la demistificazione della democrazia e l’ispirazione elitistica, interpretata in senso autoritario.

Sono da condividere le parole di Veneziani: «Chi si sente davvero italiano abbraccia la sua storia, si riconosce nel suo carattere, ama la sua civiltà e rispetta le sue tradizioni. Non sono le leggi a fare l’Italia e gli italiani, ma è la vita, la cultura, la lingua e la storia di un popolo e la percezione di sentirsi, pur nella diversità un popolo. Le norme sono astratte, neutre, a-nazionali, possono trasferirsi da Paese a Paese; invece la vita, le opere, le città, le parole e le memoria di un popolo no». Tali parole fanno a pezzi non solo il «patriottismo costituzionale» alla Habermas ma, altresì, le tesi dei vari Rusconi che non dubitano che un regime politico - democratico, liberale o altro - sia cosa ben diversa dalla “comunità politica” ma poi vorrebbero cancellare da quest’ultima i protagonisti dei periodi «nefasti», come il fascismo.

L’Italia, certamente, è la sua storia: storia di comuni, di signorie, di province soggette al dominio straniero: prima dell’Unità non c’era il deserto dei tartari. Le produzioni culturali, artistiche, scientifiche, religiose, letterarie del «Paese calpesto e diviso» rappresentano una tradizione che sarebbe stolto rinnegare. Va detto, però, che la ricchezza e la varietà delle creazioni dell’«itala gente dalle molte vite» riacquistarono senso e significato alla luce dell’evento epocale - e tale apparve all’opinione pubblica occidentale - costituito dal Risorgimento. Gli anni delle guerre di indipendenza non furono segnati solo da contrasti politici e istituzionali talora profondi ma videro il nostro ricongiungimento all’«Europa vivente», con il trionfo di una versione nazionale del liberalismo, alla quale concorsero laici e cattolici, Cavour e Minghetti, Mamiani e Lambruschini, Manzoni e De Sanctis, Silvio Spaventa e Carlo Cattaneo. Risorgimento e «liberalismo italiano» sono la stessa cosa: se viene meno il secondo, il primo diventa un fantasma non innocuo, incapace di dare alla nazione un fondamento di legittimità.

Le rivoluzioni atlantiche - inglese, francese, americana - non rinnegarono il passato ma fondarono una legittimità politica in cui la comunità si riconosceva pienamente nelle sue istituzioni e queste si modellavano su concreti diritti liberali e democratici. La “rivoluzione italiana” non riuscì a darsi un «mito di fondazione» condiviso giacché se ne contestò ben presto l’anima liberale col risultato che, nella sua dottrina dello Stato, a fondamento del sistema giuridico-politico, non furono posti i «diritti soggettivi», le «libertà dei moderni», ma un «interesse generale» che le varie famiglie ideologiche (cattolici ultramontani, democratici radicali, socialisti, nazionalisti etc.) interpretavano a modo loro

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