di Francesco Specchia
Il dito. Il dito puntato al cielo come un mitragliatore leggero. Quello che colpiva di più in Pietro Paolo Mennea, classe ’52 - il modello sportivo e morale di una generazione, come la mia priva di senso dell’epica - era quel dito. Un dito pugliese, affusolato, da figlio di sarto e figlio del vento. Il dito si alzò, rabbioso, quando, Pietro studente di scienze politiche secco come un’acciuga, s’ingoiò il tartan di Città del Messico controllando il rettilineo a 36 chilometri all’ora; e vi sputò il record del mondo, 19.72’’, spinto da quei refoli gentili che sulla stessa pista 11 anni prima incoronarono il mandingo Tommie Jet Smith. E il dito di Mennea si tese, prepotente, ancora il 28 luglio dell’80, nella finale olimpica a Mosca: Pietro, col pettorale 433, uscì dalla curva caracollando - al solito - come un ubriaco ma negli 80 metri finali dove ogni muscolo, ogni tendine pareva pompasse sangue e smorfie di dolore, rubò sul filo la medaglia d’oro ad Allan Wells, l’incredibile Hulk scozzese il quale non s’era avveduto del caterpillar con lieve cifosi che l’aveva appena asfaltato. Il dito, dicevo.
Nascita di un mito - Avevo dieci anni, la tv illuminava Mennea in biancoenero, e dietro quel dito mi pareva ci fosse la firma di Dio. Gianni Brera in quella falange - armata - ci vedeva la potenza del Poema di Gilgamesh, il supereroe sumero che non rideva mai. Al punto che un giorno il grande giornalista avvicinò Mennea in pista a Formia e gli chiese: «Ma i tuoi avi sono originari della Mesopotamia?». Lì per lì Pietro non comprese, un po’ perché non si era ancora laureato in Lettere (aveva “solo” conseguito i titoli in giurisprudenza, scienze politiche e scienze motorie) e non governava la materia. E un po’ perché, se ti approcciano mentre sei impegnato in una serie infinita di allunghi, sudato come uno gnu, con due pneumatici di camion legati alla vita e la vena sul collo ti pulsa allo stesso ritmo di taranta della finale europea del ’74 persa al fotofinish con Borzov; beh, magari, in quel momento, a Gilgamesh non ci pensi. Il dito di Mennea, assieme al lieve prognatismo del volto, al fisico sgraziato raddrizzato col sacrificio, ingobbito sui 200 metri e cristallizzato in un poster da rockstar, ha tappezzato per anni la mia stanza.
Tra gli anni 70 e 80, sulla scia dei suoi successi, per la prima volta le iscrizioni dei ragazzini alle squadre di atletica leggera raggiunsero quelle del calcio. Mennea era un mito che doveva tutto a se stesso. Era il più grande velocista italiano d’ogni tempo, l’atleta assoluto dello sport, il gesuita della velocità ossessionato dal risultato attraverso la dedizione e la sola forza di volontà, come quando si faceva tirare da coach Vittori in sella a una Vespa 125 «per allungare la falcata: poi sbagliava a cambiare e io lo superavo Mi allenavo 5/6 ore al giorno, per 350 giorni all’anno (arriva a 12 ore, ndr) tra gare e allenamenti, senza saltare un giorno» confessava «sono l’uomo che si è allenato di più al mondo; ma dopo le Olimpiadi non ce la facevo più a bere per quindici anni acqua minerale non gasata; ho voluto cominciare a bere la birra...».
Mennea, ispido come un orso aveva pochi amici (il suo mentore, Carlo Vittori era maestro di vita e coach, non amico) «il sistema sportivo italiano lo odiava», esclama Sandro Donati, e una sola fidanzata, Manuela Olivieri con cui convolò a giuste nozze tra un allenamento e una discussione di tesi. Non parlava mai, e quando parlava lo faceva per lamentarsi: del Cio che riteneva «una strana associazione d’impresa», del doping, dei giovani che non si sacrificavano troppo e mai conobbero l’estasi del tartan, calpestato perfino a Natale e all’ultimo dell’anno.
Nato a Barletta il 28 giugno del ’52, da papà sarto Salvatore (ricordava in un’intervista a Emanuela Audiso su Repubblica: «Quando ho iniziato a correre i calzoncini me li cuciva lui. Oggi non mi entrano più, nemmeno al braccio, ma li tengo ancora») e da madre Vincenza casalinga, cinque fratelli e nessun figlio, Pietro iniziò a gareggiare davanti alla Cattedrale di Barletta a 16 anni. Anzi, un po’ prima, contro il coetaneo Pappamolla all’Istituto tecnico che «era imbattibile, vinceva sempre lui. Ma un giorno tra le urla degli altri l’ho lasciato indietro». Dopo Pappamolla si mise a “collaudare” le auto di grossa cilindrata degli amici; scommetteva di bruciare le Porsche e le Alfa nuove di pacca, nello sprint dei primi 50 metri, come faceva Jesse Owens coi cavalli. Vinceva sempre. E da allora non smise più di far frullare le gambe.
La sua biografia è leggenda. Carriera internazionale iniziata nel 1971, agli Europei, sesto posto nei 200 e bronzo con la staffetta azzurra 4X100. L’anno dopo il debutto olimpico a Monaco e bronzo, nei 200; nel ’74, agli Europei di Roma, conquista l’argento nei 100, alle spalle del mito sovietico Borzov. A Praga, nel ’78, centra l’accoppiata europea 100-200. Eppoi scrive la storia a Città del Messico col 19.72’’, record mondiale battuto solo da Michael Johnson ai Trials per Atlanta ’96. L’anno dopo ecco Mosca, medaglia d’oro e bronzo nella 4X400.
Ritiri e ritorni - Nell’81 annuncia il ritiro salvo poi tornare. Arrivano altre due medaglie mondiali (bronzo nei 200 e argento nella 4X100 a Helsinki ’82) e un oro ai Giochi del Mediterraneo nei 200 mentre le successive partecipazioni olimpiche (Los Angeles ’84 e Seul ’88) gli riservano solo delusioni anche se in Corea del Sud si toglie la soddisfazione di fare da alfiere per l’Italia durante la cerimonia d’apertura e anche a Los Angeles diventa il primo uomo nella storia a raggiungere la quarta finale olimpica consecutiva nei 200.
Dopodiché inizia un’altrettanto proficua carriera da avvocato tributarista, eurodeputato, e docente universitario in Abruzzo. La “Freccia del sud” in realtà non ha mai smesso di correre, «perché», affermava, «ogni corsa è un viaggio» e il suo contro il Male avrebbe voluto coronarlo con l’ennesima vittoria. Non ce l’ha fatta. Ma quel dito al cielo, io e molti altri, lo mostreremo ai nostri figli...
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