Sacco del Ghetto di Roma, 1943: “Io ebreo salvato da due fascisti”
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Sono
passati 70 anni da quel 16 ottobre del 1943. 70 anni da quel “sabato
nero” in cui centinaia di SS fecero irruzione nel Ghetto di Roma nei
pressi del Portico d’Ottavia e rastrellarono 1024 persone: ebrei romani,
donne, uomini, anziani e oltre 200 bambini. Il rastrellamento fu
effettuato da uno speciale reparto delle SS, venuto appositamente a Roma
al comando del Cap. Donneker, il quale, tramite Kappler, aveva ottenuto
dalla Questura di Roma circa 20 agenti di polizia in qualità di
collaboratori.
di Micaela Del Monte da Intelligo del 16 ottobre 2013
L’antico quartiere ebraico fu l’epicentro di tutta l’operazione. Le
SS irruppero nelle case degli ebrei all’alba, sorprendendo molte
famiglie ancora nel sonno. Tutte vennero arrestate e poi raccolte
provvisoriamente in uno spiazzo poco più in là del Portico d’Ottavia
attorno ai resti del Teatro di Marcello. Tutti vennero poi caricati a
forza sui camion, verso una destinazione sconosciuta.
Due giorni dopo, alle 14.05 del 18 ottobre, diciotto vagoni piombati partiranno dalla stazione Tiburtina.
I 1024 passeggeri, trasportati in carri bestiame, viaggiarono per 6
giorni e 6 notti verso Auschwitz, e da lì solo quindici uomini e una
donna (Settimia Spizzichino) ritorneranno a casa dalla Polonia.
Nessuno dei 200 bambini fece mai ritorno.
Tutto ebbe inizio dal Ghetto, ma nessun quartiere della città fu
risparmiato: il maggior numero di arresti si ebbero a Trastevere,
Testaccio e Monteverde. Alcuni si salvarono per caso, molti scamparono
alla razzia nascondendosi nelle case di vicini, di amici o trovando
rifugio in case religiose, come gli ambienti attigui a S. Bartolomeo
all’Isola Tiberina.
C’è anche chi si è salvato perché era nel posto giusto, al momento
giusto e ha incontrato persone giuste. Persone che al di là delle
apparenze erano persone buone e magnanime.
Molte persone si sono salvate per questo motivo. Mio nonno, Leone
Del Monte, si è salvato così, per un caso fortuito e per un incontro
casuale: «Erano le 6 del mattino, mia madre si era alzata per fare
colazione e come ogni mattina si era affacciata al balcone, così aveva
avuto la terribile notizia da un vicino di casa, anche lui ebreo: i
tedeschi erano nel Ghetto e stavano arrestando centinaia di famiglie.
Così svegliò mio padre Armando e noi tre fratelli, prese i cappotti
dalla cassapanca e ci spinse ad uscire. Ricordo ancora l’odore di
naftalina e la pioggerellina gelida di quel 16 ottobre. A quell’epoca
abitavamo in via di Ponziano, nei pressi di viale Trastevere, da lì ci
avviammo verso il quartiere ebraico, sicuri che stare insieme agli altri
ebrei fosse la soluzione migliore. Ci incamminammo io, mia madre, mio
padre e i miei due fratelli, Cesare e Sergio. Mia madre era molto
preoccupata, aveva capito che la situazione era grave e quindi decise di
proseguire separatamente: io e Sergio con lei da un lato della strada,
mentre mio fratello Cesare, il più grande, con mio padre sull’altro
marciapiede. Eravamo su ponte Garibaldi e lì, a due passi dal luogo che
probabilmente ci sarebbe stato fatale, accadde quello che ancora oggi
ricordo in modo perfettamente nitido».
«Lì – aggiunge mio nonno – è accaduto ciò che ha salvato la vita a
tutta la mia famiglia. Due uomini in impermeabile nero camminavano verso
mio padre, dall’altra parte del ponte. Assistevo da lontano, mano nella
mano con mamma che iniziò ad urlare: la divisa della milizia fascista
era inconfondibile. “Armando, Armando scappa!!!”. Fu tutto ciò che mia
madre riuscì a dire prima che quei due uomini fermarono mio padre.
“Siete ebrei?” E d’un tratto l’aria gelida di Roma diventò ancora più
insopportabile. ”Sì, perché?” Rispose mio padre in modo permaloso. Come
se quella domanda fosse una delle più comuni. Come se quella risposta
potesse non essere fatale.
E invece quella risposta ci ha salvato, quei due “Angeli Neri”, così
li chiamo ancora oggi, ci hanno salvato. Perché loro, che provenivano
direttamente del Ghetto e avevano assistito al rastrellamento, ci
avevano invitato a tornare indietro. Noi stavamo andando verso l’inferno
e loro ci hanno chiuso fuori.
Da quel momento nulla fu più come prima, ma noi c’eravamo ancora: mia
madre e mio padre, con mio fratello Cesare, si rifugiarono in via
dall’Ongaro, in una casa presa in affitto preventivamente dopo la
richiesta dei 50kg d’oro. La padrona di casa non voleva bambini, così io
e Sergio fummo portati nella parrocchia di piazza Rosolino Pilo a
Monteverde. Qui fummo accolti dal parroco, che su invito di Papa Pio XII
tentava di nascondere qualche ebreo. Ci diede pane e marmellata, di cui
ancora ricordo il sapore se ci penso, poi ci mandò in un convento poco
lontano. Lì avremmo passato fino al giugno del ’44 aspettando gli
americani.
Ciò che mi colpì profondamente fu capire che il destino colpisce
quando deve, con la sua puntualità. E questo non solo perché incontrammo
le persone giuste al momento giusto, ma perché accadde un’altra cosa
che mi dimostrò che quello non era il mio momento di morire.
Il convento in qui ci nascondevamo era a pochi metri dalla Stazione
Trastevere che spesso e volentieri veniva bombardata dagli americani. Ci
fu una sera in cui le suore mi misero in punizione, spostandomi di
camera e lasciandomi da solo nell’altra ala del convento. Quella sera la
Stazione venne bombardata, ma venne colpito il convento e quella che
era la mia vecchia stanza».
Oggi è un dovere ricordare quello che è accaduto il 16 ottobre di 70
anni fa, il giorno in cui sono state spezzate le vite di migliaia di
ebrei romani, ma a me piace ricordare anche come quel giorno mio nonno
si è salvato. Perché grazie a quel giorno, grazie a quei due poliziotti
fascisti, è stato possibile che mio nonno avesse una famiglia e così a
sua volta mio padre
Quei due “Angeli Neri” hanno permesso che oggi fossi qui anche io, la
nipote, la terza generazione, e mi hanno permesso di dire: “Ho
sconfitto Hitler”.
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