di Giorgio Napolitano
Signor Presidente, onorevoli colleghi, siamo tutti consapevoli, 
credo, del significato e della difficoltà di questo dibattito. E’ in 
gioco una decisione  importante, rispetto alla quale i pareri 
sono discordi, mentre vengono alla luce modi diversi di concepire lo 
sviluppo della Comunità europea e di intendere la presenza e il ruolo 
dell’Italia in seno alla Comunità.
Ma, se c’è un paese in cui la discussione attorno a questi problemi, 
attorno ai problemi suscitati dalla proposta di accordo monetario 
europeo, avrebbe potuto svolgersi in termini del tutto obiettivi, senza 
essere alterata e deviata da contrapposizioni ideologiche e da manovre 
politiche, questo paese, onorevoli colleghi, è il nostro.
In Italia, infatti, tra i partiti democratici, tra le forze 
fondamentali della nostra società e nello spirito pubblico non circolano
 pregiudizi antieuropeistici; non operano né tradizioni di isolamento, 
più o meno splendido, dal resto dell’Europa, né presunzioni di grandezza
 nazionale. Le tendenze nazionalistiche, sfruttate ed esasperate dal 
fascismo, e quindi travolte nel suo disastro, non sono risorte, neppure 
come vaghe correnti di opinione, anche grazie alla linea cui si sono 
ispirate tutte le forze democratiche italiane.
Non è meno importante il fatto che, pur muovendo da posizioni 
diverse, tutte le forze politiche e sociali che si riconoscono nei 
valori della Costituzione, si siano via via riconosciute anche nei 
valori dell’europeismo democratico, liberati dalle distorsioni e dagli 
strumentalismi del periodo della guerra fredda; si siano riconosciute 
nel difficile sforzo di costruzione di un’Europa comunitaria realmente 
ancorata a principi di solidarietà, di progresso sociale, di 
cooperazione internazionale e di pace.
Che in questo sforzo si considerino pienamente impegnati tutta la 
sinistra e il movimento operaio – come dimostra la loro adesione senza 
riserve alla scelta dell’elezione diretta del Parlamento europeo – è un 
fatto che differenzia in non lieve misura la situazione italiana da 
quella inglese o francese. E’ un punto di forza per il nostro paese sul 
piano internazionale, un punto di forza che solo polemiche pretestuose 
,ed irresponsabili possono oggi tendere ad oscurare.
Nello stesso tempo, non può non considerarsi una naturale 
manifestazione di vitalità democratica e di ricchezza politica e 
culturale la dialettica di posizioni che si esprime – nell’ambito di una
 comune scelta europeistica – tra diverse valutazioni dell’esperienza 
comunitaria e diverse concezioni dell’azione – da condurre in seno alla 
Comunità. La discussione attorno al progetto di sistema monetario 
europeo avrebbe dunque, onorevoli colleghi, potuto svolgersi in Italia 
in termini del tutto obiettivi. E così è stato, nel complesso, sino ad 
alcune settimane fa: nonostante le disparità di opinioni, si è discusso a
 lungo, e a più riprese, nel Parlamento e sulla stampa, tra i 
rappresentanti dei partiti di maggioranza ed il Governo, tra gli 
specialisti di ogni tendenza, all’interno del mondo economico e 
sindacale, entrando nel merito dei problemi, nel concreto delle proposte
 avanzate e delle loro implicazioni, della trattativa in corso e della 
linea da seguire in tale trattativa e dei risultati che via via si 
ottenevano.
Oggi, nella fase finale, sono affiorate e prevalse forzature di varia
 natura. Su di esse tornerò più avanti. Mi limito ora a rillevare che 
queste forzature sono venute da una parte sola, cioè da coloro che hanno
 premuto per l’ingresso immediato dell’Italia nel sistema monetario.
Il Presidente del Consiglio ha dato atto, nel suo discorso di ieri 
mattina che né prima né dopo il vertitce di Bruxelles sono state fatte 
verso il sistema monetario di cui stiamo discutendo eccezioni mosse da 
riserve europeiste o da contrarietà alla creazione di un sistema 
monetario come tale. Non si può, invece, negare ,che le pessioni in 
senso opposto le la scelta conclusiva siano state viziate da schemi e da
 calcoli che prescindevano da una valutazione obiettiva dei termini del 
problema.
Ma mi si permetta, onorevoli colleghi, signor Presidente, di 
ripartire dalla posizione assunta da noi comunisti di fronte al vertice 
di Brema, di fronte alle indicazioni scaturite nel luglio scorso da 
quella riunione dei capi di Governo della CEE. Guardammo allora con 
interesse ai propositi di rilancio del processo di integrazione e di 
maggiore solidarietà, per far fronte ad una crisi di portata mondiale, 
per accelerare lo sviluppo delle economie europe e combattere la 
disoccupazione e, insieme, ridurre l’inflazione. Non negamno l’esigenza 
di realizzare, a questo fine, anche una maggiore stabilità nei cambi, 
non esprimemmo alcuna pregiudiziale negativa nei confronti dell’idea di 
un nuovo sistema monetario europeo.
Ponemmo invece il problema della relazione tra uno sforzo inteso a 
conseguire una maggiore stabilità nei rapporti tra le monete e lo sforzo
 inteso ad avvicinare le situazioni e le politiche economiche e 
finanziarie dei paesi della Comunità in funzione di obiettivi chiari di 
crescita, di riequilibrio, di progresso sociale. Ponemmo in questo senso
 il problema delle condizioni in cui il nuovo sistema monetario europeo 
avrebbe potuto nascere come strumento valido e vitale, al quale l’Italia
 avrebbe potuto aderire fiin dall’iniizio.
E’ un fatto, signor Presidente del Consiglio, che quindi ci 
riconoscemmo nelle condizioni formulate dal Governo italiano e 
illustrate alla Camera dal ministro del tesoro nella seduta del 10 
ottobre, e valutammo via via l’andamento del negoziato in rapporto a 
quelle condizioni. Su di esse sembrarono concordare tutti i partiti 
della maggioranza; ma mentre alcuni hanno poi finito per discostarsene 
nei loro giudizi, è ancora ad esse che noi ciriferiamo nel valutare le 
conclusioni raggiunte a Bruxelles e la decisione a cui ieri è pervenuto 
il Presidente del Consiglio.
Consideriamo non seria – mi si consenta di dirlo – la tendenza a 
liquidare come problema tecnico irrilevante quello di una attenta 
verifica dei contenuti della risoluzione di Bruxelles del 5 dicembre per
 valutarne la rispondenza alle concrete esigenze poste da parte 
italiana. Quello delle garanzie da conseguire affinché il nuovo sistema 
monetario possa avere successo, favorire un sostanziale riequilibrio 
all’interno della Comunità europea (e non sortire un effetto contrario),
 contribuire a una maggiore stabilità monetaria e ad un maggiore 
sviluppo su scala mondiale, è un rilevante problema politico.
Le esigenze poste da parte italiana non riflettevano solo il nostro 
interesse nazionale: la preoccupazione espressa dai nostri negoziatori 
fu innanzitutto quella di dar vita a un sistema realistico e duraturo, 
in quanto – cito parole e concetti del ministro del tesoro e del 
governatore della Banca d’Italia – “Un suo insuccesso comporterebbe 
gravi ripercussioni sul funzionamento del sistema monetario 
internazionale, sull’avvenire e sulle possibilità di avanzamento della 
costruzione economica europea e sulle condizioni dei singoli paesi”.
E come condizione perché il nuovo sistema risultasse realistico e 
duraturo si indicò uno sforzo volto a contemperare le esigenze di rigore
 che un sistema di cambi deve necessariamente avere con la realtà della 
Comunità, che presenta situazioni fortemente differenziate; e in modo 
particolare si sollecitò una flessibilità del sistema tale da 
accompagnare senza sussulti il cammino del rientro dell’Italia verso 
condizioni economiche generali e, più in particolare, verso condizioni 
di inflazione prossime a quelle dei paesi più forti.
Gli interessi della costruzione comunitaria e gli interessi 
dell’Italia si sono cioè presentati come strettamente intrecciati tra 
loro.
Ma, ciononostante, le condizioni poste da parte itaiiana sono state 
in notevole misura disattese, e i rischi paventati e indicati dai nostri
 negoziatori e da tanti osservatori obiettivi, da tanti studiosi ed 
esperti, rimangono sostanzialmente in piedi.
Ella, onorevole Andreotti, ha dato invece nel suo discorso di ieri un
 apprezzamento largamente positivo dei risultati ottenuti, e non ha 
parlato più dei rischi. Ma l’apprezzamento positivo, punto per punto, 
strideva, me lo consenta, con il suo stesso giudizio complessivo, 
secondo cui la riunione di Bruxelles ha solo in parte soddisfatto le 
aspettative, dando l’impressione che si dimensionassero sia la 
suggestiva cornice di Brema, sia taluni propositi di concreta 
solidarietà che erano apparsi realistici nella fase preparatoria.
Inoltre, mentre su alcuni punti è apparsa corretta la valorizzazione,
 che noi non contestiamo, dei risultati conseguiti (la possibilità per 
la lira di oscillare nella misura del 6 per cento anziché del 2,25 per 
cento; le disponibilità di quello che poi diventerà il Fondo monetario 
europeo; alcuni aspetti del funzionamento dei meccanismi di credito), 
nella sua esposizione, onorevole Andreotti, non sono stati però 
presentati nella loro effettiva e cruda realtà i punti più negativi 
delle conclusioni di Bruxelles.
Così, per quel che riguarda gli accordi di cambio in senso stretto, 
si è teso quasi a far credere che si sia ottenuta una equilibrata 
distribuzione degli oneri di aggiustamento o, come si dice, una 
simmetria degli obblighi di intervento, tra paesi a moneta forte e paesi
 a moneta debole, in caso di allontanamento dai tassi di cambio iniziali
 e di avvicinamento al margine estremo di oscillazione consentito.
Ma l’ulteriore alterazione nell’ultimo vertice di Bruxelles nella 
formula relativa a questo aspetto essenziale dell’accordo di cambio, 
quella sostituzione – che può apparire innocuamente bizantina 
dell’avverbio “eccezionalmente” con l’espressione “in presenza di 
circostanze speciali”, è stata solo la conferma di una sostanziale 
resistenza dei paesi a moneta più forte, della Repubblica federale di 
Germania, e in modo particolare della banca centrale tedesca, ad 
assumere impegni effettivi ed a sostenere oneri adeguati per un maggiore
 equilibrio tra gli andamenti delle monete e delle economie di paesi 
della Comunità.
E così venuto alla luce un equivoco di fondo, di cui le enunciazioni 
del consiglio di Brema sembravano promettere lo scioglimento in senso 
positivo e di cui, invece, l’accordo di Bruxelles ha ribadito la 
gravità: se cioè il nuovo sistema monetario debba contribuire a 
garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, 
delle economie europee e dell’economia mondiale, o debba servire a 
garantire il paese a moneta più forte, ferma restando la politica non 
espansiva della Germania federale e spingendosi un paese come l’Italia 
alla deflazione.
E ben strano, mi si consenta, che di questo rischio, così presente 
nelle dichiarazioni del rappresentante del Governo il 10 ottobre alla 
Camera e il 26 ottobre al Senato, non si parli più nel momento in cui si
 propone l’adesione immediata, alle attuali condizioni, dell’Italia al 
sistema monetario europeo.
Non voglio ripetere le considerazioni già svolte puntualmente dal 
collega Spaventa sui motivi che giustificano e impongono un particolare 
sforzo del nostro paese per conseguire un più alto tasso di crescita, e 
sul rischio che invece i vincoli del sistema monetario, quale è stato 
congegnato, producano effetti opposti.
Ma desidero sottolineare che nulla ci è stato detto per confutare 
analisi come quella citata dal collega Spaventa secondo cui, di fronte 
ad una tendenza alla rapida svalutazione della lira rispetto al marco, 
che discende dallo scarto attualmente così forte tra tasso di inflazione
 italiano e tedesco, le regole dello SME ci possano portare ad intaccare
 le nostre riserve e a perdere di competitività, ovvero a richiedere di 
frequente una modifica del cambio, una svalutazione ufficiale e brusca 
della lira fino a trovarci nella necessità di adottare drastiche 
politiche restrittive. Il rischio è comunque quello di dissipare i 
risultati conseguiti negli ultimi due anni in materia di attivo della 
bilancia dei pagamenti e delle riserve, quei risultati di cui anche il 
cancelliere Schmidt, con un giudizio politicamente significativo, ha nei
 giorni scorsi messo in luce il valore. I1 rischio è quello di veder 
ristagnare la produzione, gli investimenti e l’occupazione invece di 
conseguire un più alto tasso di crescita; di vedere allontanarsi, invece
 di avvicinarsi, la soluzione dei problemi del Mezzogiorno.
Questi rischi erano tanto presenti al Governo e ai suoi 
rappresentanti nel negoziato per il sistema monetario che essi non solo 
avevano richiesto garanzie – in materia di accordi di cambio – ben più 
consistenti di quelle che si sono ottenute, ma avevano posto, come una 
delle condizioni non scambiabili con altre, quella del trasferimento di 
risorse e dalla revisione delle politiche comunitarie in funzione dello 
sviluppo delle, economie meno prospere.
Si disse che andava così compensata la più rigida disciplina 
economica, comunque implicita nel sistema monetario, e che occorreva 
procedere simultaneamente nelle diverse direzioni.
Mi pare che si tentasse di evitare che quella che il Presidente dal 
Consiglio ha ieri definito <la suggestiva cornice di Brema>, 
restasse solo una cornice e per di più ridimensionata. Da questo punto 
di vista, le cose sono andate purtroppo nel modo più deludente – non è 
giusto nascondercelo – per i limiti posti sia all’ammontare dei nuovi 
prestiti disponibili per l’Italia e l’Irlanda, sia alla misura (non più 
dd 3 per cento) degli abbuoni di interesse, sia all’utilizzazione dei 
prestiti stessi, con l’esclusione di qualsiasi progetto per lo sviluppo 
industriale (per quel ci riguarda nel Mezzogiorno) e addirittura di 
qualsiasi progetto che alteri i termini della <<competitività di 
particolari industrie all’interno degli Stati membri >>.
Il problema non era per altro solo questo, ma quello del concreto 
avvio alla revisione e allo sviluppo di determinate politiche 
comunitarie; anche se ovviamente nessuno si illudeva che tale revisione 
potesse essere conclusa entro il 4 o il 5 dicembre. Ma contano, a questo
 proposito, i segni negativi che si sono avuti.
Il primo vi è stato con il rifiuto francese di aumento del fondo 
regionale; rifiuto che significa molte cose: negazione dell’autorità del
 Parlamento europeo; negazione, al limite, della necessità di una 
politica di riequilibrio nell’ambito della comunità, di cui il 
mezzogiorno d’Italia sia tra i principali beneficiari; tendenza, 
comunque, della Francia a sottrarsi ad un maggior impegno in questo 
senso.
L’altro segno negativo è costituito dal fatto che a Brema non si sia 
niusciti ad avviare seriamente alcun processo di revisione della 
politica agricola comunitaria; che non si sia preso in esame neppure il 
memorandum a questo scopo predisposto e preannunoiato dal presidente 
della Commissione Jenkins. Non si sono nemmeno avuti chiarimenti 
esaurienti rispetto alle preoccupazioni esposte di recente nella 
Commissione agricoltura del Senato da esponenti di diversi gruppi, del 
partito repubblicano, della democrazia cristiana, e dallo stesso 
ministro dell’agricoltura, per quel che riguarda le ripercussioni di 
un’entrata immediata dell’Italia nello SME sul sistema dei prezzi 
agricoli, mentre non si sono definiti finora i correttivi di cui a 
questo proposito si è parlato, e le ipotesi pure ventilate di 
svalutazione della <lira verde> sollevano intanto seri 
interrogativi sugli effetti inflazionistici che ne potrebbero derivare.
Il tema della politica agricola comunitaria, onorevoli colleghi, è un
 tema centrale; e quando si compie il bilancio di questa politica, come 
di tutta l’esperienzacomunitaria, non si deve indulgere a 
semplificazioni retoriche di stampo idilliaco.
Non si può parlare di politica agricola comunitaria solo per 
ricordarne il fine dichiarato di migliorare le condizioni di vita delle 
popolazioni rurali, e tacere sulle grandissime distorsioni che essa ha 
prodotto a beneficio dei paesi più ricchi a svantaggio di paesi come 
l’Italia, alla quale – se si calcola la differenza tra i prezzi dei 
prodotti CEE importati dall’Italia e quelli vigenti sul mercato 
internazionale – è stata addossata una tassa che da qualcuno viene 
calcolata (si tratta di calcoli probabilmente discutibili, ma non 
possediamo stime ufficiali) in 2 mila miliardi di lire.
Tornando, Signor Presidente, alle conclusioni raggiunte a Bruxelles, 
non c‘è dubbio che esse autorizzassero largamente la decisione, presa il
 5 dicembre dal Presidente del Consiglio, non di aderire entro otto 
giorni, ma di riservarsi ancora sostanzialm,ente la scelta dell’adesione
 immediata e a tutti gli effetti oppure no.
E le valutazioni espresse nel merito dei risultati ottenuti dal 
ministro degli esteri e dal ministro del commercio con l’estero 
pubblicamente, dal ministro del tesoro in Parlamento, ed in sede tecnica
 dalla autorità monetaria (senza che questa per altro travalicasse i 
limiti della propria competenza ed invadesse il campo della autorità 
politica, senza che si prestasse a strumentalizzazioni né in un senso né
 nell’altro), queste valutazioni sono a noi apparse tali da giustificare
 pienamente una scelta che si limitasse ad una dichiarazione di 
principio favorevole e alla partecipazione a talune dellle operazioni 
previste dalla risoluzione di Bruxelles, e che escludesse l’accettazione
 dal 1° gennaio dei vincoli di cambio, del meccanismo del tasso di 
cambio, tanto più in presenza di una analoga decisione della Gran 
Bretagna, con tutto ciò che questa decisione comportava e comporta.
Una scelta che infine esprimesse un impegno positivo e incisivo- 
dell’Italia per l’ulteriore confronto su tutti gli aspetti del nuovo 
sistema monetario e della politica complessiva di sviluppo della 
Comunità.
Perché non si è seguita questa strada ?
Perché non si sono raccolte le preoccupazioni e gli avvisi di 
prudenza che venivano da diversi settori della maggioranza e 
dall’interno dello stesso Governo ?
Queste preoccupazioni nascevano anche dall’esigenza finora non 
sodisfatta di collocare la creazione di un’area di stabilità monetaria 
in Europa nel più vasto quadro – ne ha parlato il collega Spaventa – di 
una ridefinizione dei rapporti con l’area del dollaro e di uno sforzo 
per giungere ad un nuovo ordine monetario internazionale e per 
contribuire ad una accelerazione, non ad un rallentamento, dello 
sviluppo economico mondiale.
Perché non si sono ascoltate abbastanza nei giorni scorsi queste voci
 e si è giunti ad una decisione precipitata ed arrischiata ? Onorevoli 
collleghi, su questo punto noi non possiamo ritenere che si sia fatta 
sufficiente chiarezza finora e ci si permetterà di contribuire alla 
ricerca di risposte sodisfacenti.
Parto dalle sollecitazioni e motivazioni davvero più nobili, quelle 
dei più ardenti fautori dell’unità europea, tra i quali il collega ed 
amico Altiero Spinelli. Questi amici si sono preoccupati di non 
contribuire, con una decisione di non ingresso immediato dell’Italia 
nello SME, a un parziale insuccesso di quello che appare il primo 
rilevante tentativo di rilancio del processo di integrazione europea 
dopo anni ed anni di involuzione e di crisi. Ma quello che non ci ha 
persuaso in tale motivazione è la tendenza ad attribuire ad un tentativo
 del genere, così come è concepito e congegnato, la virtù di mettere in 
moto una reale ripresa su basi nuove e solide dell’integrazione europea.
No, onorevoli colleghi, noi siamo dinanzi ad una risoluzione, quella 
di Bruxelles, che assume i limiti ristretti della creazione di un 
meccanismo del tasso di cambio le cui caratteristiche rischiano per di 
più di creare gravi problemi ai partecipanti.
Naturalmente non sottovalutiamo la importanza degli sforzi rivolti a 
creare un’area di stabilità monetaria. Ma se è vero che le frequenti 
fluttuazioni dei cambi costituiscono una causa di instabilità e un 
fattore negativo per lo sviluppo del commercio intracomunitario (la 
crisi di questo commercio non può per altro essere ricondotta soltanto 
alle fluttuazioni nei cambi) è vero anche che esse sono il riflesso di 
squilibri profondi all’interno dei singoli paesi, all’interno della 
Comunità europea e nelle relazioni economiche internazionali.
La verità è che forse – come si è scritto fuori d’Italia – si è 
finito per mettere il << carro >> di un accordo monetario 
davanti ai <<buoi>> di un accordo per le economie. Ed è 
invece proprio su questo terreno, oltre che su quello della revisione 
del meccanismo dei cambi in quanto tale, che occorreva continuare a 
premere, a discutere, a negoziare.
Ma – ci si chiede – come: stando dentro o stando fuori?
Francamente di fronte ad una domanda di questo genere noi sentiamo il
 bisogno di osservare – e mi scuso per l’ovvietà – che il 5 dicembre non
 si è creata a Bruxelles una nuova Comunità europea al posto della 
vecchia.
Noi continuiamo, evidentemente, qualunque sia la decisione relativa 
allo SME, a stare dentro tutte le istituzioni e le sedi di confronto 
comunitarie; possiamo anche partecipare, pur non aderendo nell’immediato
 al sistema monetario, a consultazioni specificamente previste dalla 
risoluzione di Bruxelles in materia di politiche monetarie.
Il documento approvato il 5 dicembre – e questo è un suo aspetto 
indubbiamente positivo – non scava alcun solco fra chi aderisce subito e
 chi si riserva di aderire successivamente; né credo che il nostro  
ingresso immediato avrebbe avuto un effetto traumatico, quasi che 
dipendesse da ciB che lo SME nascesse, come ha detto ieri l’onorevole 
Andreotti, a sei invece che ad otto e mezzo (tanto per restare nel gergo
 monetario, non riesco a capire quale unità di conto abbia adoperato 
l’onorevole Andreotti per attribuire un peso del due e mezzo 
all’ingresso immediato dell’Italia nel sistema monetario).
E nostra convinzione che avremmo potuto esercitare una maggiore forza
 contrattuale mantenendo la nostra riserva, la nostra posizione di non 
ingresso immediato.
Onorevoli colleghi, in quest’aula si è parlato (vi si è riferito poco
 fa anche il collega Cicchitto)delle sollecitazioni e delle 
assicurazioni pervenuteci negli ultimi giorni da governi amici; sembra 
anche che esse abbiano avuto un notevole peso nella scelta finale del 
Governo.
Per la verità voglio ricordare che anche qualche altra volta abbiamo 
ricevuto telegrammi. Ricevemmo – non è vero, ministro Marcora? – un 
telegramma pieno di assicurazioni dal cancelliere Schmidt anche nel 
maggio scorso, per invitarci a sciogliere la riserva sul negoziato per i
 prezzi agricoli e sul << pacchetto >> mediterraneo.
Quale seguito han. no avuto quelle assicurazioni telegrafiche ?
Anche in questa occasione più dei messaggi a fuochi spenti sarebbe 
valso l’accoglimento concreto di determinate istanze e proposte.
Queste sollecitazioni, comunque, confermano l’esistenza di un reale e
 forte interesse degli altri paesi membri della Comunità ad avere 
l’Italia al più presto presente nel sistema monetario. Si sarebbe, 
dunque, potuto far leva su questo interesse, non dando la adesione 
immediata allo SME, per portare avanti un serio negoziato, utilizzando 
le stesse scadenze previste dalla risoluzione di Bruxelles, in 
particolare la scadenza della revisione di determinate misure dopo sei 
mesi, nonché altre occasioni e scadenze, soprattutto quella della 
annuale trattativa di marzo sui prezzi agricoli, che va trasformata in 
un ben più ampio ed impegnativo negoziato sulla politica agricola nel 
suo complesso, partendo da proposte già elaborate in Italia dai partiti,
 dal Parlamento e dal Governo, per le modifiche da realizzare sia 
nell’immediato, sia nel medio periodo.
Si tratta, in definitiva, di muoversi in modo conseguente per una 
trasformazione della Comunità – a cui ci auguriamo possa contribuire 
anche quell’importante, primo elemento di democratizzazione che è 
costituito dall’elezione diretta del Parlamento europeo – che punti 
all’affermarsi di un nuovo modo di guardare allo sviluppo dell’economia 
europea, non concependo più – siamo d’accordo su questo punto 
fondamentale con il collega Spinelli – questo sviluppo come 
consolidamento delle economie più forti e come ulteriore elevamento del 
livello di benessere nei paesi più ricchi, ma come impegno di espansione
 verso le regioni più arretrate della stessa Comunità e verso i paesi di
 quello che veniva definito terzo mondo.
Ma se ci si vuole, onorevoli calleghi, confrontare con questi che 
sono i problemi di fondo, i problemi delle politiche economiche, del 
ritmo e della qualità dello sviluppo, bisogna sbasrazzarsi di ogni 
residuo di europeismo retorico e di maniera dando ben altra organicità, 
forza e coerenza alla presenza dell’Italia nella Comunità.
Sappiamo che passa qui una linea discriminante fra diversi modi di 
concepire e di praticare l’impegno europeista, ma sappiamo anche che su 
questo punto esistono posizioni convergenti fra diversi partiti; in 
primo luogo, come hanno dimostrato le vicende di queste settimime e 
questo dibattito, tra il partito comunista ed il partito socialista, ma 
non salo tra essi.
Nella nostra visione – desidero ribadirlo – tutela degli interessi 
nazionali e impegno per il rilancio dell’integrazione europea fanno 
tutt’uno.
Nessuno di noi ha commentato il vertice di Bruxelles ponendo i 
problemi come li ha posti il primo ministro Callaghan ai Comuni, senza 
essere per questo accusato di golpismo.
“La semplice verità” – ha dichiarato Callaghan – “è che noi a 
Bruxelles abbiamo valutato i nostri interessi nazionali esattamente come
 altri paesi hanno valutato i loro”.
Noi non poniamo i problemi in questi termini, proprio perché siamo 
convinti che l’interesse ,del nostro paese, e specificamente l’interesse
 del nostro Mezzogiorno, coincida con la causa di uno sviluppo della 
Comunità su base di maggior coordinamento e integrazione delle politiche
 economiche e in direzione delle regioni più arretrate. Ma quella che 
non possiamo accettare è una posizione di rinunci a battersi per la 
trasformazione della Comunità e ‘dei suoi indirizzi, di sfiducia 
radicale nel ruolo ,del nostro paese e di utilizzazione strumentale dei 
nostri impegni comunitari a fini interni, quali che siano.
Da parte di alcuni esponenti del partito repubblicano si è giunti a 
sostenere che << l’Italia non dovesse scegliere in questi giorni 
se appartenere o meno ad un meccanismo valutario o ad un’area di 
stabilità dei cambi, ma se recidere >> – dico recidere – << o
 meno i suoi legami con i paesi dell’Europa occidentale, sul terreno 
economico e sul terreno politico.
Ma questa è una tesi che non trova alcun riscontro obiettivo, che non
 poggia su atcun argomemto razionale e si colloca, invece, nel quadro di
 una drammatizzazione gratuita ed esasperata della scelta che era 
davanti al nostro paese.
Si è giunti anche a dire che, d’altra parte, noi saremmo 
nell’imbarazzo, perché l’europeismo dei comunisti deve ancora tradursi 
in atti pratici.
Ma atti pratici, coatributi pratici sul terreno europeistico ne 
abbiamo dati assai più di altri, in dieci anni di lavoro altamente 
qualificato nel Parlamento europeo, che qualunque osservatore obiettivo 
ha riconosciuto ed apprezzato.
Al di là di ciò già un mese fa non è mancata in qualche discorso da 
me personalmente ascoltato l’affermazione che il nostro paese non fosse 
in grado di porre alcuna condizione e che la sola speranza di salvare 
l’Italia da sviluppi catastrofici della crisi attuale fosse il vincolo 
esterno di un rigoroso meccanlsmo di cambio.
Chi sostiente questo fa un grave torto a tutte le forze democratiche 
italiane dimenticando prove come quella dell’autunno 1976, quando, di 
fronte ad una drammatica caduta della lira i partiti dell’attuale 
maggioranza, i partiti democratici, con la collaborazione delle forze 
sociali, con la collaborazione del movimento sindacale, seppero assumere
 impegni severi, che valsero ad evitare il peggio e permisero di 
conseguire quei risultati, per quanto parziali, su cui oggi possiamo 
fare affidamento per fronteggiare le difficoltà che ci stanno davanti.
Noi non attenuiamo minimamente – ella lo sa, onorevole Ugo La Malfa, 
ma io tengo a ribadirlo – il nostro giudizio sulla persistente e per 
certi aspetti crescente gravità degli squilibri di fondo che minano lo 
sviluppo economico e sociale del nostro paese. Noi non ci nascondiamo 
l’acutezza di problemi come quelli della produttività, del costo del 
lavoro, della competitività.
Concordo con le considerazioni che sono state svolte a questo 
proposito da altri colleghi. Non può reggere a lungo – è questa la 
nostra persuasione – una << via italiana >> alla 
competitività, basata su una svalutazione strisciante, su un alto tasso 
di inflazione, sull’economia sommersa e sul lavoro nero.
E – voglio aggiungere – non ci nascondiamo le difficoltà che incontra
 lo sforzo per trovare consensi nelle parti sociali attorno a 
comportamenti coerenti con le esigenze del rilancio degli investimenti, 
di sviluppo del Mezzogiorno e dell’occupazione e, insieme, di lotta 
all’inflazione.
Ma queste difficoltà non vengono solo dall’interno del movimento 
sindacale e lì, comunque, siamo noi che con più chiarezza e coraggio 
reagiamo a posizioni che consideriamo sbagliate. La si smetta, però, 
onorevoli colleghi, di guardare da una parte sola, senza vedere le 
responsabilità che altre forze si stanno assumendo (parlo di forze 
imprenditoriali) con i loro atteggiamenti negativi nei confronti di ogni
 prospettiva di programmazione e nei confronti proprio delle più 
qualificate proposte del movimento sindacale.
Comunque, proprio per rispondere a queste  difficoltà fu concepito il
 << docunento Pandolfi>>  e si assunse l’impegno del piano 
triennale il cui obbiettivo – non si dimentichi – deve essere la 
riduzione graduale del tasso di inflazione ma, insieme, il rilancio 
degli investimenti e della occupazione, in un contesto di rinnovata 
solidarietà europea.
E’ sul piano triennale che si deve realizzare il necessario severo 
confronto fra tutte le parti investite di responsabilità nella vita 
politica, economica e sociale.
Ma in quale rapporto con questo impegno così importante andava posta 
la questione dell’ingresso immediato o meno dell’Italia nel sistema 
monetario europeo ?
Condividiamo l’opinione che è stata espressa, secondo cui il 
confronto sul piano triennale previsto per le prossime settimane andava 
assunto come la necessaria preparazione ad una entrata credibile 
dell’Italia nel nuovo sistema, piuttosto che come insostenibile 
conseguenza di una entrata prematura.
Se oggi, comunque, tra i fautori dell’ingresso immediato circolasse 
il calcolo di far leva su gravi difficoltà che possono derivare dalla 
disciplina del nuovo meccanismo di cambio europeo per porre la sinistra 
ed il movimento operaio – eludendo la difficile strada della ricerca del
 consenso – dinanzi ad una sostanziale distorsione della linea 
ispiratrice del programma concordato tra le forze dell’attuale 
maggioranza, dinanzi alla proposta di una politica di deflazione e di 
rigore a senso unico, diciamo subito che si tratta di un calcolo 
irresponsabile e velleitario, non meno di quelli che hanno spinto 
determinate componenti della democrazia cristiana a premere per 
l’ingresso immediato dell’Italia nello SME in funzione di meschine 
manovre anticomuniste, destinate a sgonfiarsi rapidamente ma non senza 
aver prodotto il danno di una irresponsabile mescolanza tra fatti di 
corrente e di partito e scelte altamente impegnative, sul piano 
internazionale e sul piano interno, per il nostro paese.
Noi attendiamo, onorevoli colleghi, le risposte del Governo – dando 
già ora ed essendo pronti a dare il nostro contributo costruttivo – sui 
problemi aperti acutamente e posti con forza dal movimento sindacale per
 Napoli, la Calabria ed il Mezzogiorno, problemi ormai non più 
prorogabili, sui temi di una politica di seria lotta all’inflazione ed 
alla disoccupazione sui contenuti e gli strumenti del piano triennale 
per la finanza pubblica e per la economia che dovrà essere presentato 
entro il 31 dicembre.
Anche in questo momento difficile, che vede una divisione non certo 
irrilevante in seno alla maggioranza, il nostro obbiettivo, la nostra 
scelta non è una crisi di Governo, ma il superamento delle debolezze e 
delle ambiguità che hanno finora caratterizzato l’azione di Governo, il 
rilancio della solidarietà tra i partiti della maggioranza per superare 
l’emergenza, per risanare l’economia italiana rinnovandola nelle sue 
strutture, per risanare la finanza pubblica attraverso una pratica di 
effettivo rigore in tutte le direzioni e garantendo una effettiva 
giustizia – dalla quale si continua a restare molto lontani – nella 
ripartizione dei sacrifici.
Dicevo all’inizio, onorevole Andreotti, che condividiamo oggi un 
dibattito difficile; ma nella vita di un’ampia maggioranza come quella 
che oggi sorregge il Governo vi sono momenti in cui si impongono la 
chiarezza delle rispettive posizioni e la distinzione delle 
responsabilità.
Questa distinzione, onorevole Presidente del Consiglio, noi non 
l’abbiamo ricercata. Ella ha ritenuto di dover compiere una scelta, che 
consideriamo rischiosa e da cui dissentiamo, e di doversi assumere una 
responsabilità che non ci sentiamo di condividere.
Ci auguriamo che le prossime scadenze vedano una seria ripresa 
dell’impegno comune dei partiti dell’attuale maggioranza a fare uscire 
il paese dalla crisi.
Ci guida comunque la serena coscienza di aver operato lealmente nell’interesse dell’Italia e dell’Europa
(Vivi applausi dell’estrema sinistra - congratulazioni).
Fonte: 
http://www.camera.it/_dati/leg07/lavori/stenografici/sed0383/sed0383.pdf