La crisi fa decollare anche il consumo di psicofarmaci. In otto anni
antidepressivi aumentati del 310%. Mali dell’anima? Certo, ma chi
spinge sono anche le elite mondialiste e le multinazionali del farmaco
Di Furio Stella
Dura investire con la crisi che tira. Ma se proprio dovessimo fare un investimento in azioni, non avremmo dubbi, e punteremmo tutto quanto sul mercato dei farmaci. Meglio ancora: su quello degli psicofarmaci. Tra sonniferi, ansiolitici e antidepressivi non c’è difatti una statistica, una, che contraddica il loro mostruoso trend di crescita. Men che meno in Italia, dove pure è concentrato un terzo degli psicologi di tutta Europa (70 mila su 210 mila: non chiedeteci il perchè).
Dura investire con la crisi che tira. Ma se proprio dovessimo fare un investimento in azioni, non avremmo dubbi, e punteremmo tutto quanto sul mercato dei farmaci. Meglio ancora: su quello degli psicofarmaci. Tra sonniferi, ansiolitici e antidepressivi non c’è difatti una statistica, una, che contraddica il loro mostruoso trend di crescita. Men che meno in Italia, dove pure è concentrato un terzo degli psicologi di tutta Europa (70 mila su 210 mila: non chiedeteci il perchè).
QUALCHE DATO.
Secondo l’Aifa, l’Agenzia del Farmaco, l’acquisto degli antidepressivi
in Italia è aumentato dal 2004 del 4,5% all’anno. Per il Censis, che ha
messo assieme i dati delle Asl nel periodo 2001-2009, gli aumenti sono
stati nell’ordine del 114%. Il Cnr (dato 2011) ha calcolato che usano
tranquillanti e ansiolitici 5 milioni di italiani (di cui più di 3
milioni donne), 4 milioni i sonniferi e 2,2 gli antidepressivi. E
ancora: uno studio dell’Osmed ha messo gli psicofarmaci al terzo posto
tra i farmaci più venduti dopo quelli cardiovascolari e
gastrointestinali; secondo l’Osservatorio europeo sulle Droghe e
Tossicodipendenze rappresentano la terza causa di incidenti stradali
dopo alcol e cannabis; e un rapporto di Osservasalute del 2009 parlava
di un aumento dei consumi di antidepressivi dal 2000 al 2008 addirittura
del 310%!
Cosa
vogliono dire tutte queste cifre? Primo, che stiamo male. Molto male.
Secondo, che le statistiche non sono aggiornate, e dunque con la crisi
che tira è molto probabile che la situazione sia ancora peggiore. Terzo,
che l’evoluzione dei prodotti psicofarmaceutici – vuoi mettere i tempi
del Valium o dei vecchi barbiturici? – non è andata di pari passo con il
miglioramento del quadro, anzi esattamente il contrario. Ergo: non sono
loro la soluzione del problema (lo complicano, semmai).
MALI DELL’ANIMA. Così
li chiamano. Materia da preti, dunque, più che da giornalisti. Di
sicuro, lo siano o meno, vi possiamo dire con certezza chi li provoca e
chi ne fa un business. I primi, quelli che li provocano (ma forse
sarebbe più giusto dire: li amplificano), sono i ritmi della
“modernità”. O meglio, quel concetto di moderno che viene spacciato per
comunque buono e comunque migliore rispetto al vecchio, “a prescindere”
come direbbe Totò, e si concretizza nelle scelte, nei costumi e nello
stile di vita che ci hanno calato dall’alto, volenti o nolenti, le elite
mondialiste. E di cui solo adesso qualcuno comincia a rendersi conto
dell’insostenibilità.
LE CIFRE DEL BUSINESS. Quanto
al business, è ovvio di chi stiamo parlando: delle major farmaceutiche.
Le quali, non solo traggono profitto dal malessere generale e magari
anche dall’eccessiva leggerezza con cui i medici prescrivono i loro
farmaci, ma, come dire?, sono direttamente responsabili nello
“spingerne” le vendite, promuoverle in tutti modi possibili, leciti o
meno. E d’altra parte, quando si hanno fatturati di 30, 40, addirittura
più di 60 miliardi di dollari cioè l’equivalente di quattro finanziarie
italiane come nel caso della Pfizer, la numero uno di Big Pharma (quella
del Viagra e dello scandalo delle cavie umane inconsapevoli in Nigeria:
67 miliardi di dollari di fatturato nel 2011), non è che si possa
scontentare gli azionisti, e dunque andare tanto per il sottile, vi
pare?
I SOLITI NOTI.
Lo confermano del resto le cronache giudiziarie degli ultimi anni,
infarcite di condanne per promozioni scorrette, trucchi nella
costruzione di sperimentazioni favorevoli, azione di lobby sui governi
nazionali nella formulazione delle cosidette “linee guida”, un esercito
di rappresentati di vendita, fior di professionisti a libro paga,
eccetera. La Ely Lilly, quella che vendeva il mitico Prozac, la “pillola
della felicità” come la chiamavano allora, è stata condannata per
esempio per aver promosso illegalmente proprio uno psicofarmaco, lo
Zyprexa. Lo Zyprexa, che è un antipsicotico, compare addirittura nella
classifica dei venti farmaci più venduti del mondo. in compagnia di
altri due psicoprodotti dei soliti noti: l’Abilify, numero uno degli
ansiolitici (Bristol-Myers Squibb, 18 miliardi di dollari di fatturato
nel 2009) e l’antidepressivo Seroquel prodotto dall’anglo-svedese Astra
Zeneca, 27 miliardi nel 2012 (di cui 10 di utile netto). E nominando
solo en passant la svizzera Novartis, seconda multinazionale del farmaco
nel mondo, quella a cui il famoso Ritalin, l’anfetamina legalizzata, ha
garantito da solo un gettito di almeno tre miliardi all’anno.
CHI STA PEGGIO.
Capito con chi abbiamo a che fare? Ma prima di farci venire la
depressione, con il rischio di annoverarci presto anche noi tra i
clienti di Big Pharma, consoliamoci almeno con questo: che rispetto ad
altri non siamo neanche messi male. In Europa, per esempio, il consumo
di Prozac secondo una ricerca della London School of economics and
political science è cresciuto del 20% all’anno nel periodo 1995-2009. E
in Islanda un abitante su dieci si fa almeno una pastiglia al giorno.
Per non parlare degli Stati Uniti, dove le strategie di penetrazione
delle major farmaceutiche non hanno trovato le resistenze che ci sono da
noi. Qui l’uso gli psicoattivi, che a differenza dell’Italia riguarda
soprattutto le donne dopo i 45 anni e gli anziani (fonte: Aifa), è
diffusissimo purtroppo anche tra i più giovani. Come ha rivelato
un’inchiesta del New York Times, difatti, il Ritalin è stato prescritto a
milioni di bambini per curare la (inesistente) sindrome di iperattività
ADHD, e viene inoltre usato “regolarmente” dal 20% degli studenti
universitari. Uno su cinque!
No, per fortuna noi non siamo l’America. Per ora.
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