Quarant'anni fa l'Italia si svegliò dal sogno del benessere e dal sonno del consumismo e piombò nella depressione cupa della crisi economica. Era il 1973, e l'Italia, con l'Occidente intero, entrò nell'autunno dell'Austerity. Fu chiamata così in lingua internazionale, preludio alla globalizzazione, la risposta etica ed economica alla crisi che ci fece perdere l'euforia sprecona degli anni Sessanta.
Risuonarono parole cancellate dall'opulenza del boom economico e dalla liberazione sessantottina: sacrificio, risparmi, austerità. L'origine dell'austerity fu la crisi del Medio Oriente e l'impennata del petrolio. Fu l'ultima crisi economica legata a un bene reale come l'oro nero: poi, le crisi diventarono soprattutto finanziarie. Fu in quel tempo che la riserva aurea smise di essere il parametro per le finanze di un Paese. Finì l'età dell'oro. Gli effetti sociali dell'austerity furono traumatici ma non tutti malefici. Entrammo nell'epoca del risparmio energetico, la benzina triplicò i prezzi nel giro di pochi mesi, i limiti di velocità frenarono la corsa, calò l'oscurità per le strade di notte per non sprecare l'elettricità, ci fu un limite di tempo e di temperatura anche per i termosifoni. L'oscurantismo colpì soprattutto l'aspetto ludico: i locali pubblici chiudevano prima, concerti e veglioni non potevano inoltrarsi nella notte, le sale del cinema anticiparono gli ultimi spettacoli, persino la tv chiudeva prima delle ventitrè... E poi le domeniche a piedi o in bicicletta, la prima vera crisi dell'auto e dei consumi, i primi elogi della lentezza e del km0...
Fu curioso e paradossale l'effetto che produsse da noi la crisi petrolifera: anziché attivare l'investimento sulle fonti energetiche alternative al petrolio, a cominciare dal nucleare, produsse una forte sensibilità ecologista che di fatto paralizzò la ricerca e le centrali. Poi arrivò la mazzata di Cernobyl a dare l'estrema unzione al piano energetico del nostro Paese. Restammo come don Chisciotte, con i mulini a vento, fuori dalla realtà. E dipendenti dall'estero.
Il terreno dell'austerity era stato culturalmente preparato da alcuni sensori. Da noi per esempio ci furono le denunce di un gruppo di scienziati, il club di Roma guidato da Aurelio Peccei, che l'anno prima alla crisi energetica pubblicò I limiti dello sviluppo, un libro che riprendeva, forse senza saperlo, certo senza citarlo, un discorso di quarant'anni prima del Duce contro l'utopia dello sviluppo e dei consumi illimitati. Risale a quegli anni anche il libro apocalittico di successo del futurologo Roberto Vacca, Medioevo prossimo venturo. Il mito dell'austerity precorse l'odierna «decrescita felice» o «l'abbondanza frugale».
La cultura hippie, i figli dei fiori e le comunità alternative prima del '68 furono le avanguardie di questo movimento antimoderno. Sul versante tradizionalista riprendeva fiato la cultura antimoderna di Julius Evola, Renè Guénon, Marcel de Corte e molti autori pubblicati dalla Rusconi diretta da Alfredo Cattabiani.
Tramontava sull'onda nera del petrolio, il modello consumista ma anche il modello industrialista dei regimi d'ispirazione marxista e leninista. La convinzione cioè che il comunismo fosse «socialismo più elettrificazione», il culto della dinamo che diventò il logo per molte squadre di calcio dell'est comunista, l'ideologia del progresso, legata allo sviluppo dell'industria. Cominciò a serpeggiare l'idea di essere entrati in una società postindustriale, mentre si faceva strada il terzomondismo in difesa dei Dannati della terra, come li aveva chiamati Frantz Fanon in un celebre libro sponsorizzato da Sartre.
Sull'austerità si gettò a capofitto il Pci che la vide come «l'occasione per trasformare l'Italia» come recitava un libro firmato da Enrico Berlinguer per gli Editori Riuniti. Con la lentezza di un pachiderma il vecchio Partito Comunista arrivò in ritardo all'austerità che culminò nel '77 in alcuni incontri, uno con gli intellettuali al teatro Eliseo di Roma, un altro con gli operai al teatro Lirico di Milano incentrati sulla svolta austeritaria. Introdotto da Giorgio Napolitano, Berlinguer disse agli intellettuali raccolti intorno al Partito-Principe: «austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia». Ma vuol dire soprattutto superamento del modello capitalista, in una linea che ancora risentiva dell'influenza cristiano-comunista di Franco Rodano. Berlinguer ibridava questo ritorno all'austerità, che assumeva a volte i tratti dell'autarchia mussoliniana degli anni trenta, con un riferimento terzomondista che strizzava l'occhio al Vietnam e più cautamente alla Cina di Mao. Ma restava saldamente ancorato all'Urss con queste parole inequivocabili dette agli operai a Milano e poi raccolte in quel libro: «noi rispondiamo di no a chi vuol portarci alla rottura con altri partiti comunisti; a chi vuol portarci a negare quello che è stato la Rivoluzione d'ottobre e gli altri rivolgimenti che hanno avuto luogo nell'Oriente europeo ed asiatico, il ruolo che esercitano l'Unione Sovietica e gli altri paesi socialisti negli equilibri internazionali e nella lotta per la pace mondiale; a chi vuol portarci a negare il carattere socialista dei rapporti di produzione che esistono in quei paesi». Poi si prodigava in un'apologia del «centralismo democratico» in cui, sì, tutti hanno diritto alla loro opinione ma «la posizione che risulta maggioritaria diventa la posizione di tutto il partito e tutti, quindi sono tenuti a rispettarla». Questo era al tempo Berlinguer, leninista, brezneviano e filosovietico. Contrariamente all'immagine che si vuol accreditare oggi, nella politica d'austerità di Berlinguer non c'era tanto il rigore o la questione morale ma la speranza nel collasso del capitalismo, «il declino irrimediabile della funzione dirigente della borghesia», l'egemonia del movimento operaio unita all'egemonia culturale, esplicitata nell'incontro dell'Eliseo quando il segretario del Pci sottolineò che le forze intellettuali «hanno oggi in italia un peso sociale quale non avevano mai avuto e... hanno in larghissima misura un orientamento politico democratico di sinistra». L'austerità era per il Pci di Berlinguer il cavallo di troia del comunismo in Occidente. Arrivò poi la reaganomics, l'edonismo yuppie degli anni ottanta, il collasso sovietico, a liquidare con l'austerità anche il modello comunista. Fu così che l'austerità anziché indicare un'antica virtù e uno stile sobrio di vita, evocò l'arcigno grigiore del comunismo al tramonto. Di cui Berlinguer fu l'icona triste in Italia, nonostante le postume beatificazioni, gli enfatizzati strappi e le benigne immagini ridenti.
Fu curioso e paradossale l'effetto che produsse da noi la crisi petrolifera: anziché attivare l'investimento sulle fonti energetiche alternative al petrolio, a cominciare dal nucleare, produsse una forte sensibilità ecologista che di fatto paralizzò la ricerca e le centrali. Poi arrivò la mazzata di Cernobyl a dare l'estrema unzione al piano energetico del nostro Paese. Restammo come don Chisciotte, con i mulini a vento, fuori dalla realtà. E dipendenti dall'estero.
Il terreno dell'austerity era stato culturalmente preparato da alcuni sensori. Da noi per esempio ci furono le denunce di un gruppo di scienziati, il club di Roma guidato da Aurelio Peccei, che l'anno prima alla crisi energetica pubblicò I limiti dello sviluppo, un libro che riprendeva, forse senza saperlo, certo senza citarlo, un discorso di quarant'anni prima del Duce contro l'utopia dello sviluppo e dei consumi illimitati. Risale a quegli anni anche il libro apocalittico di successo del futurologo Roberto Vacca, Medioevo prossimo venturo. Il mito dell'austerity precorse l'odierna «decrescita felice» o «l'abbondanza frugale».
La cultura hippie, i figli dei fiori e le comunità alternative prima del '68 furono le avanguardie di questo movimento antimoderno. Sul versante tradizionalista riprendeva fiato la cultura antimoderna di Julius Evola, Renè Guénon, Marcel de Corte e molti autori pubblicati dalla Rusconi diretta da Alfredo Cattabiani.
Tramontava sull'onda nera del petrolio, il modello consumista ma anche il modello industrialista dei regimi d'ispirazione marxista e leninista. La convinzione cioè che il comunismo fosse «socialismo più elettrificazione», il culto della dinamo che diventò il logo per molte squadre di calcio dell'est comunista, l'ideologia del progresso, legata allo sviluppo dell'industria. Cominciò a serpeggiare l'idea di essere entrati in una società postindustriale, mentre si faceva strada il terzomondismo in difesa dei Dannati della terra, come li aveva chiamati Frantz Fanon in un celebre libro sponsorizzato da Sartre.
Sull'austerità si gettò a capofitto il Pci che la vide come «l'occasione per trasformare l'Italia» come recitava un libro firmato da Enrico Berlinguer per gli Editori Riuniti. Con la lentezza di un pachiderma il vecchio Partito Comunista arrivò in ritardo all'austerità che culminò nel '77 in alcuni incontri, uno con gli intellettuali al teatro Eliseo di Roma, un altro con gli operai al teatro Lirico di Milano incentrati sulla svolta austeritaria. Introdotto da Giorgio Napolitano, Berlinguer disse agli intellettuali raccolti intorno al Partito-Principe: «austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia». Ma vuol dire soprattutto superamento del modello capitalista, in una linea che ancora risentiva dell'influenza cristiano-comunista di Franco Rodano. Berlinguer ibridava questo ritorno all'austerità, che assumeva a volte i tratti dell'autarchia mussoliniana degli anni trenta, con un riferimento terzomondista che strizzava l'occhio al Vietnam e più cautamente alla Cina di Mao. Ma restava saldamente ancorato all'Urss con queste parole inequivocabili dette agli operai a Milano e poi raccolte in quel libro: «noi rispondiamo di no a chi vuol portarci alla rottura con altri partiti comunisti; a chi vuol portarci a negare quello che è stato la Rivoluzione d'ottobre e gli altri rivolgimenti che hanno avuto luogo nell'Oriente europeo ed asiatico, il ruolo che esercitano l'Unione Sovietica e gli altri paesi socialisti negli equilibri internazionali e nella lotta per la pace mondiale; a chi vuol portarci a negare il carattere socialista dei rapporti di produzione che esistono in quei paesi». Poi si prodigava in un'apologia del «centralismo democratico» in cui, sì, tutti hanno diritto alla loro opinione ma «la posizione che risulta maggioritaria diventa la posizione di tutto il partito e tutti, quindi sono tenuti a rispettarla». Questo era al tempo Berlinguer, leninista, brezneviano e filosovietico. Contrariamente all'immagine che si vuol accreditare oggi, nella politica d'austerità di Berlinguer non c'era tanto il rigore o la questione morale ma la speranza nel collasso del capitalismo, «il declino irrimediabile della funzione dirigente della borghesia», l'egemonia del movimento operaio unita all'egemonia culturale, esplicitata nell'incontro dell'Eliseo quando il segretario del Pci sottolineò che le forze intellettuali «hanno oggi in italia un peso sociale quale non avevano mai avuto e... hanno in larghissima misura un orientamento politico democratico di sinistra». L'austerità era per il Pci di Berlinguer il cavallo di troia del comunismo in Occidente. Arrivò poi la reaganomics, l'edonismo yuppie degli anni ottanta, il collasso sovietico, a liquidare con l'austerità anche il modello comunista. Fu così che l'austerità anziché indicare un'antica virtù e uno stile sobrio di vita, evocò l'arcigno grigiore del comunismo al tramonto. Di cui Berlinguer fu l'icona triste in Italia, nonostante le postume beatificazioni, gli enfatizzati strappi e le benigne immagini ridenti.
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