13/08/2013
L’ospedale civile“Madonna del Soccorso” di San Benedetto del Tronto ha un primato: vanta il più basso tasso di mortalità nei primi trenta giorni successivi al ricovero per infarto miocardico acuto: il 2,2 per cento. Ad appena due ore di macchina, spostandosi dalle Marche al Lazio, si incontra invece la struttura che registra i risultati peggiori: al “San Giovanni Evangelista” di Tivoli il 24,6 per cento dei malati muore entro il primo mese. La media nazionale è del 10,3 per cento. Alle Marche spetta un’altra medaglia: l’ospedale “Bartolomeo Eustacchio” di San Severino ha il tasso minore di mortalità nei 30 giorni successivi al ricovero per un ictus: l’1,5 per cento. La maglia nera dista quattro ore di macchina: è il barese (frazione Carbonara) ospedale “Di Venere”, dove il tasso sale al 37,4 per cento, contro una media nazionale dell’11,6. Lo studio sullo stato di salute degli ospedali italiani è stato fatto dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari (Agenas), in collaborazione con il ministero della Salute. Un’analisi che ha incrociato i dati del Sistema informativo ospedaliero, l’immenso archivio in cui confluiscono le informazioni su tutti i ricoveri registrati in Italia, e quelli dell’Anagrafe tributaria. Il risultato è un elenco puntiglioso dei pregi e dei difetti del nostro sistema sanitario.
Sul quotidiano in edicola oggi, 13 agosto 2013, trovate tutte le tabelle
con le classifiche dei dieci migliori e peggiori ospedali
Gli indicatori - Oggi Libero pubblica la lista dei dieci migliori e dei dieci peggiori ospedali in riferimento a cinque dei 45 indicatori presi in esame dall’Agenas. Oltre all’infarto miocardico acuto e all’ictus, si è presa in considerazione la mortalità a un mese dal ricovero dopo l’innesto di un bypass aortocoronarico. Con questa operazione si sostituisce un tratto di arteria coronaria ostruita con un segmento alternativo di vena o arteria. L’esito a breve termine (30 giorni, appunto) dell’intervento è un importante indice di qualità. Per trovare l’ospedale migliore, anche qui bisogna restare nell’Italia centro-adriatica. Non più le Marche, come per ictus e infarti, ma l’Abruzzo, con il “Mazzini” di Teramo, che però condivide il primato (lo 0,5 per cento di decessi contro una media nazionale del 2,45) con la palermitana casa di cura “Villa Maria Eleonora”. Mentre i peggiori risultati sono quelli dell’azienda ospedaliera “Sant’Anna e San Sebastiano” di Caserta, con il 16,1 per cento di decessi.
Altro indicatore preso in esame: i giorni di degenza successivi a un intervento chirurgico di colecistectomia laparoscopica. Mediamente ne sono necessari quattro. I tempi si dimezzano in due strutture piemontesi, due toscane, una veneta, una marchigiana, una lombarda; mentre raddoppiano in due strutture abruzzesi, due laziali, una piemontese, una pugliese.
Infine, ci siamo soffermati sul tempo d’attesa per un intervento chirurgico in seguito alla frattura del collo del femore. In questi casi i tempi non sono una variabile secondaria: non è soltanto in questione il disagio personale del paziente. In effetti, specialmente per le persone anziane, che sono interessate con una certa frequenza dalla rottura del femore, una lunga attesa prima dell’intervento corrisponde a un aumento del rischio di mortalità e di disabilità. La soluzione ideale è che il paziente con femore rotto venga operato entro 24 ore dall’ingresso in ospedale. Ad oggi, c’è una sola struttura in Italia a garantire questa tempistica ed è l’ospedale “San Francesco d’Assisi” di Oliveto Citra, in provincia di Salerno.
Solo altri otto ospedali riescono a garantire l’operazione entro 48 ore: tre in Lombardia, tre nella Provincia autonoma di Bolzano, uno in Veneto e uno in Toscana. E se campano è il record positivo, campano è anche quello negativo: ben 31 giorni di attesa per chi bussa alla porta dell’ospedale “Landolfi” di Solofra, Avellino. Da notare: tra l’una e l’altra struttura, cioè tra un giorno d’attesa e un mese d’attesa, c’è meno di un’ora di macchina.
Qualche sorpresa - I dati sono in parte sorprendenti per chi è affezionato ai luoghi comuni: non è raro infatti trovare strutture di eccellenza al Centrosud. Anche se è vero che al Sud si concentrano in genere le strutture con le prestazioni più negative. La vicinanza di ospedali virtuosi e pessimi all’interno di una stessa area geografica è un altro fattore degno di nota. Solo qualche esempio: la Campania ospita una struttura ottima per chi è colpito da un infarto a Battipaglia (il“Santa Maria della Speranza”: mortalità dopo 30 giorni al 3,2 per cento) e una pessima a Santa Maria Capua Vetere (il “San Giuseppe e Melorio”: mortalità al 21,8 per cento). Dopo un ictus, nell’ospedale “SS. Antonio e Margherita” di Tortona si ha solo il 6 per cento delle possibilità di morire nei primi trenta giorni di ricovero, ben al di sotto della media nazionale dell’11,6 per cento, ma all’ospedale “Santo Spirito” di Casale Monferrato la percentuale sale al 24,5 per cento. Tra le due strutture c’è poco più di mezz’ora di automobile. In Veneto tra l’ospedale di Conegliano e quello di Vittorio Veneto la distanza, in macchina, è ancora minore: nel primo la percentuale di decessi è del 20,3 per cento, nel secondo è del 5,4 per cento.
Prima di leggere le tabelle in questa pagina e nelle seguenti, due avvertenze, legate entrambe allo scrupolo di chi ha elaborato i dati. La prima: l’Agenas preferisce non parlare di «classifiche, graduatorie, pagelle, giudizi» bensì di «strumenti di valutazione (…) finalizzati al miglioramento dell’efficacia e dell’equità nel Servizio sanitario nazionale». Seconda avvertenza: nelle liste spesso non compaiono ospedali i cui dati pure sono stati raccolti, e che magari si piazzerebbero anche nelle parti alte. La scelta è dell’Agenas, che giudica, in quei casi, troppo alto il rischio d’errore, attribuendo magari alla qualità o all’inefficienza dell’ospedale interessato ciò che invece è imputabile alla sorte. Il dato viene quindi giudicato statisticamente non significativo e noi lo omettiamo.
Ultima precisazione: i valori si riferiscono al 2011 e sono “aggiustati”, cioè corretti in modo da tener conto di fattori che potrebbero alterare i risultati, non rendendoli confrontabili: l’età e il genere del paziente, la gravità delle sue condizioni di salute, la presenza di altre malattie... (1.Continua)
di Alessandro Giorgiutti
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