Sesto San Giovanni, 28 aprile 2014 - Un lavoro che debilita, che può anche uccidere e di cui ci si ammala. E giornate come queste, in cui si ricordano i compagni scomparsi, che diventano le più lunghe. Silvestro Capelli ha 70 anni, «71 tra 20 giorni, per la precisione», ed è uno dei pochi lavoratori a cui è stata riconosciuta l’esposizione all’amianto. Sabato pomeriggio c’era anche lui alla sede di via Magenta del «Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro e nel territorio», dopo il tradizionale corteo fino alla lapide di via Carducci dedicata ai caduti in fabbrica.
«Mi si chiude la gola. È troppo difficile ricordare. Quanti amici persi. Io sono uno dei sopravvissuti», racconta seduto vicino al suo cane, Barry White, in omaggio alla sua passaione per il jazz. Nostalgia e mito negli anni si sono sedimentati nel raccontare l’ex Stalingrado d’Italia. Eppure per loro, per gli ex bredini, la fabbrica è stata altro. «Un luogo di fatica e dolore, un ambiente malsano, un posto anche di morte e di malattia. La fabbrica per noi rappresenta tutto questo». Per Silvestro la fabbrica è anche quel buco che ha in gola e quello sforzo non immaginabile che deve fare per pronunciare ogni parola, anche se la sua voce corre spedita. In Breda c’è stato 17 anni. Ha lavorato «in un ambiente pieno di amianto» e nel 1992 si è ammalato. Quattro anni dopo è stato operato di tumore alla laringe e dopo due mesi di riabilitazione è tornato a parlare. «C’è voluta una grandissima forza di volontà per ottenere questi risultati. Non è stato per niente facile. Da 16 anni, gratuitamente, aiuta i pazienti che hanno subìto interventi simili. Dei miei allievi non c’è nessuno che non sia tornato a parlare. Ne sono molto orgoglioso».
Silvestro è arrivato a Sesto dal Mantovano nel 1952, dopo che suo padre aveva già iniziato a lavorare in città. «Era il 24 maggio, un sabato. Ho visto questa miriade di tute blu, che sembravano tante formichine che lavoravano. Sesto mi è apparsa come una città medievale, solo che le mura erano quelle degli stabilimenti e non di un forte. Eravamo divisi da Monza dalla Falck, da Milano dalla Pirelli e in mezzo c’erano tutte le altre fabbriche: la Osva, la Campari, la Garelli, la Breda». Vita di fabbrica, dove ci ammalava. «Franco Camporeale è stata la prima vittima, ormai vent’anni fa. Era il mio compagno di turno, saldavamo le aste. Aveva 45 anni quando è morto. Sotto questi capannoni immensi, i reparti erano divisi da strisce gialle pitturate a terra. Tutti abbiamo mangiato l’amianto, ma solo ad alcuni è stata confermata l’esposizione». Silvestro è tra questi. «Però per lo Stato sono un invalido civile, così costo meno. Continuerò a lottare perché mi venga riconosciuta l’invalidità da lavoro».
«Mi si chiude la gola. È troppo difficile ricordare. Quanti amici persi. Io sono uno dei sopravvissuti», racconta seduto vicino al suo cane, Barry White, in omaggio alla sua passaione per il jazz. Nostalgia e mito negli anni si sono sedimentati nel raccontare l’ex Stalingrado d’Italia. Eppure per loro, per gli ex bredini, la fabbrica è stata altro. «Un luogo di fatica e dolore, un ambiente malsano, un posto anche di morte e di malattia. La fabbrica per noi rappresenta tutto questo». Per Silvestro la fabbrica è anche quel buco che ha in gola e quello sforzo non immaginabile che deve fare per pronunciare ogni parola, anche se la sua voce corre spedita. In Breda c’è stato 17 anni. Ha lavorato «in un ambiente pieno di amianto» e nel 1992 si è ammalato. Quattro anni dopo è stato operato di tumore alla laringe e dopo due mesi di riabilitazione è tornato a parlare. «C’è voluta una grandissima forza di volontà per ottenere questi risultati. Non è stato per niente facile. Da 16 anni, gratuitamente, aiuta i pazienti che hanno subìto interventi simili. Dei miei allievi non c’è nessuno che non sia tornato a parlare. Ne sono molto orgoglioso».
Silvestro è arrivato a Sesto dal Mantovano nel 1952, dopo che suo padre aveva già iniziato a lavorare in città. «Era il 24 maggio, un sabato. Ho visto questa miriade di tute blu, che sembravano tante formichine che lavoravano. Sesto mi è apparsa come una città medievale, solo che le mura erano quelle degli stabilimenti e non di un forte. Eravamo divisi da Monza dalla Falck, da Milano dalla Pirelli e in mezzo c’erano tutte le altre fabbriche: la Osva, la Campari, la Garelli, la Breda». Vita di fabbrica, dove ci ammalava. «Franco Camporeale è stata la prima vittima, ormai vent’anni fa. Era il mio compagno di turno, saldavamo le aste. Aveva 45 anni quando è morto. Sotto questi capannoni immensi, i reparti erano divisi da strisce gialle pitturate a terra. Tutti abbiamo mangiato l’amianto, ma solo ad alcuni è stata confermata l’esposizione». Silvestro è tra questi. «Però per lo Stato sono un invalido civile, così costo meno. Continuerò a lottare perché mi venga riconosciuta l’invalidità da lavoro».
laura.lana@ilgiorno.net
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