Non si può dimenticare quel che accadde nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 e tutto quello che subirono i militari italiani e tedeschi, e soprattutto la popolazione civile ed inerme alle prese con la violenza cieca delle truppe anglo-statunitensi che fecero strame di molte vite umane pur essendo considerati tuttora da molti storici come dei “liberatori” senza macchia alcuna.
Negli ultimi anni però qualcosa sta cambiando. Alcuni giornalisti ma soprattutto studiosi di estrazione politica diversa hanno elaborato alcuni interessanti studi sull’argomento pubblicati in particolare dalle Edizioni Mursia di Milano, che narrano una storia diversa da quella che nel dopoguerra fu raccontata ai più per accreditare l’immagine di un’occupazione quasi pacifica della Sicilia, una marcia trionfale dei “liberatori” acclamati dalla popolazione locale.
Fra le ultime pubblicazioni in ordine temporale sull’argomento va segnalata l’opera realizzata da due studiosi Domenico Anfora e Stefano Pepi, Obiettivo Biscari. 9-14 luglio 1943: dal Ponte Dirillo all’Aeroporto 504, data alle stampe da poco per i tipi delle Edizioni Mursia, a distanza di qualche anno da altri due interessanti lavori quali il volume redatto da Andrea Augello Uccidi gli italiani e quello di Fabrizio Carloni Gela 1943 – editi entrambi dalla Mursia – nei quali vengono documentati lo sbarco degli anglo-americani e gli eccidi di soldati italo-tedeschi, e di civili inermi.
La realtà delle cose come ora ci è noto andò diversamente da quella narrata dalla vulgata ufficiale, laddove già nella battaglia di Gela si assistette ad un’accanita e determinata resistenza dei reparti italiani impegnati contro le forze armate statunitensi sbarcate sull’isola con molte incertezze ed errori da parte dei tedeschi, condite dalla violenza, cieca e brutale, delle truppe del generale Patton. E ancora la strage di Comiso, ora finalmente documentata, e l’eccidio della famiglia di Mangano sul quale Domenico Anfora e Stefano Pepi hanno riportato alla luce i fatti grazie alla conferma dei pochi testimoni oculari sopravvissuti all’inesorabile incedere del tempo che hanno confermato l’efferato crimine commesso dalle truppe alleate.
Ma partiamo dall’inizio, come ricordano Anfora e Pepi, e torniamo a quella fatidica notte fra il 9 e il 10 luglio del 1943, quando le truppe anglostatunitensi eseguirono gli ordini seguendo una precisa strategia di conquista dell’Europa, invadendo la Sicilia e portandosi dietro il loro carico di morte: stragi, fucilazioni e violenze su militari e civili in armi e popolazione inerme, bambini e donne comprese. I presupposti dell’invasione risalivano a quel 13 maggio 1943, quando le ultime truppe italo-tedesche in armi della Tunisia si arresero alle truppe alleate.
Quando ancora in Tunisia si combatteva, tra il 14 e il 24 gennaio 1943 si era svolta a Casablanca, in Marocco, una conferenza interalleata, nel corso della quale i capi politici e militari britannici e americani, guidati da Winston Churchill e da Franklin Delano Roosevelt, avevano concordato il piano delle future operazioni. Lo Stato Maggiore americano aveva spinto per uno sbarco in Francia, per sferrare un attacco diretto alla Germania; quello britannico, invece, riteneva troppo forte la presenza di truppe germaniche sul territorio francese e temeva una disfatta. Quindi, aveva insistito per un attacco contro l’Italia, ritenuto il “ventre molle” d’Europa. Gli obiettivi strategici erano il dominio completo nel Mediterraneo, l’uscita dalla guerra dell’Italia e l’immobilizzazione di un vasto numero di forze militari tedesche, alcune delle quali sarebbero dovute giungere proprio dalla Francia. Alla fine degli incontri per stabilire dove e come sferrare l’attacco fu stabilito quale sarebbe stato il primo lembo d’Europa da conquistare: la Sicilia.
Terminata vittoriosamente la campagna di Tunisia, i capi alleati si riunirono nuovamente, questa volta a Washington, dal 12 al 25 maggio, per mettere in pratica ciò che era stato deciso a Casablanca. All’operazione di sbarco in Sicilia fu attribuito il nome in codice “Husky”. La direzione delle operazioni fu assunta dal generale americano Dwight David Eisenhower. Il generale inglese Alexander ebbe invece il comando delle forze terrestri. Per le forze navali fu riconfermato l’ammiraglio inglese Cunningham, e un altro inglese, il maresciallo dell’aria Tedder, ebbe il comando delle forze aeree.
Il piano d’attacco era stato elaborato da Harold Alexander il 2 maggio, durante una conferenza indetta da Eisenhower ad Algeri. Ci sarebbero state due zone di sbarco. La zona di competenza della 7a armata americana, comandata dal fanatico e aggressivo generale George Smith Patton Jr., andava da Licata a Scoglitti ed era lunga un’ottantina di chilometri nell’arco formato dal golfo di Gela. Sarebbero sbarcate inizialmente tre divisioni e altre unità minori, precedute dal lancio di paracadutisti che avrebbero dovuto impadronirsi di alcune posizioni chiave della difesa. La zona di competenza dell’8a armata britannica, comandata dal generale Bernard Law Montgomery (il vincitore di El Alamein), andava dal golfo di Noto a Punta Castelluzzo (a ovest di Capo Passero), per oltre cinquanta chilometri di lunghezza, dove sarebbero sbarcate quattro divisioni di fanteria, due brigate corazzate e altre unità minori. Il giorno “D” fu fissato per il 10 luglio, ultimo giorno di luna utile.
Il generale Eisenhower, comandante delle Forze Alleate del Mediterraneo, aveva a sua disposizione per l’attacco alla Sicilia 490.000 uomini (275.000 britannici e 215.000 americani), 2.510 aerei, 2.590 navi, 1.800 cannoni, 600 carri armati e 14.000 veicoli. Le forze di terra anglo-americane erano raggruppate nel XV gruppo di armate al comando del generale britannico Harold Rupert Leofric George Alexander. Egli aveva dato all’8° armata britannica di Montgomery (6 divisioni e 1 brigata di fanteria, 1 divisione aviotrasportata, 2 brigate e 1 reggimento corazzati, 4 battaglioni di truppe speciali) il compito principale: puntare su Messina, lungo la costa ionica, per impedire alle forze dell’Asse la ritirata in Calabria; obiettivi iniziali erano Siracusa, Augusta e Catania, con i porti e gli aeroporti circostanti. Alla 7a armata americana di Patton (4 divisioni di fanteria, 1 divisione aviotrasportata, 1 divisione corazzata, 3 battaglioni di rangers) aveva dato il compito di proteggere il fianco sinistro dei britannici, tagliando l’isola verso nord.
I soldati anglo-americani credevano di dover affrontare imponenti opere di difesa, con mine, nidi di mitragliatrici, reticolati, lanciafiamme, cannoni e fossati anticarro. Temevano addirittura una terribile arma segreta. Era stata la propaganda fascista a costruire il castello di carte di una Sicilia fortificata con estrema cura, ma non c’era nulla di tutto questo e i comandi alleati ne erano a conoscenza.
Riguardo al fronte opposto, ai primi di luglio del 1943 erano schierati in difesa dell’isola, agli ordini del generale Alfredo Guzzoni, oltre 200.000 combattenti, di cui 32.000 tedeschi. A questi bisognava aggiungere circa 60.000 uomini addetti ai servizi: distretti, depositi, ospedali militari, carabinieri, polizia, guardia di finanza, ecc. Con i rinforzi giunti successivamente, durante la campagna, si raggiunse un totale di 320.000 uomini.
Le forze dell’Asse erano raggruppate in due corpi d’armata: il XII, comandato dal generale Mario Arisio e con sede a Corleone, aveva competenza per la Sicilia occidentale, da Licata a Cefalù; il XVI, comandato dal generale Carlo Rossi e con sede a Piazza Armerina, aveva competenza per la Sicilia orientale, da est di Cefalù a Gela.
Guzzoni, generale sessantaseienne che aveva comandato il corpo di spedizione in Albania nel 1939, avrebbe dovuto difendere un’isola con 1.100 km di coste con le forze elencate.
La difesa delle coste era affidata ai reparti costieri (3 comandi piazze militari marittime, 2 comandi porto, 5 divisioni, 2 brigate e un reggimento), il cui compito era limitato alla sola vigilanza, poiché si trattava di unità prive di automezzi e incapaci di contrattaccare.
Una divisione costiera aveva in organico circa 8.000 uomini, su 8 battaglioni di fanteria e 14 batterie con complessivi 56 pezzi d’artiglieria. Una brigata aveva 5 battaglioni di fanteria e 8 batterie con 32 pezzi con una forza di circa 5.000 uomini. Queste unità erano state costituite con richiamati siciliani delle classi più anziane (molti superavano i 35 anni), scarsamente addestrati, male armati e peggio equipaggiati, ed erano così schierate.
Questi soldati, non più giovani e spesso con famiglia, ebbero il dovere e il coraggio di combattere l’ultima battaglia contro un nemico immensamente superiore dal punto di vista dell’armamento. Essi occupavano le scarse fortificazioni costruite sulle coste e nell’immediato entroterra, costituite da casematte in cemento, da trinceramenti, parte in cemento e parte in scavo, fossati anticarro, reticolati con limitati campi minati, posti di blocco stradali. I maggiori pezzi d’artiglieria antinave erano stati assegnati alle piazze della Marina Militare (Messina, Siracusa-Augusta e Trapani) e ai Comandi Difesa Porto (Palermo e Catania). Ai settori costieri furono distribuiti pezzi in gran parte vetusti e con una gittata insufficiente a rispondere ai tiri delle artiglierie navali nemiche. Il miglior cannone italiano, il vecchio 149/35 ad affusto rigido, sparava fino a dieci chilometri, contro i 30-40 dei grossi calibri navali anglo-americani. Questi poveri fantaccini dal morale ormai distrutto, armati di fucile a ripetizione ordinaria modello 91 (cioè progettato nel 1891), fucile mitragliatore Breda modello 30 (facile all’inceppamento), bombe a mano SRCM che facevano più rumore che danno, mitragliatrici Breda da 8mm e mortai da 81mm, si trovarono di fronte i migliori combattenti anglo-americani: truppe addestratissime come i paracadutisti della 82a USA e della 1a britannica, Royal Marines, Commandos e Special Raiding Squadron. C’è da considerare che persino le normali divisioni di fanteria alleate erano ottimamente preparate sul piano dell’addestramento, dell’armamento e dell’equipaggiamento.
Un numero esiguo di 36 uomini per chilometro, con 4 mitragliatrici e 2 fucili mitragliatori, con un cannone ogni 1,5 chilometri e un mortaio ogni 4, avrebbe dovuto affrontare la marea di uomini della 7a e dell’8a armata, che avrebbero sbarcato il primo giorno 66.000 americani e 115.000 britannici, con un rapporto da 1 contro 4 a 1 contro 6. Le forze mobili, che sarebbero dovute intervenire in supporto alle divisioni costiere al momento dello sbarco, erano costituite da quattro divisioni di fanteria e otto gruppi mobili (un piccolo reparto di fanteria, un reparto di artiglieria motorizzata e un reparto d’artiglieria semovente o di carri ciascuno) italiani, una divisione di granatieri corazzati e una divisione corazzata tedesche. Le quattro divisioni di fanteria italiane avevano un organico di 13.500 uomini ciascuna.
All’arrivo degli americani vi fu sì una popolazione festante perché veniva liberata non solo dalla fame più nera provocato dal razionamento dei viveri durante il secondo conflitto, ma soprattutto felice di non vivere più l’incubo dei bombardamenti indiscriminati sui centri abitati, condotti proprio dai caccia e dai cannoni degli Alleati. Tuttavia bisogna avere l’onestà intellettuale di riconoscere il coraggio dei valorosi soldati italiani, che nonostante avessero armi e mezzi per la maggior parte risalenti alla Prima guerra mondiale, sacrificarono la loro vita per difendere quell’estremo lembo della nostra patria rappresentato dalla Sicilia. Infatti, furono diversi gli episodi di estrema resistenza opposta dai soldati italiani, che ostacolarono con tutte le loro forze l’avanzata del nemico invasore.
Solo da pochi anni sono stati riportati alla luce, grazie all’opera di ricerca e di impegno di Augello, del dott. Carloni e ora del libro di Anfora e Pepi, i crimini di cui si macchiarono gli Alleati. Crimini contro l’umanità, simili a quelli che portarono sul banco degli imputati al processo di Norimberga numerosi ufficiali dell’esercito tedesco. Parliamo soprattutto delle stragi dell’aeroporto di Biscari e di Vittoria, e ancora della strage dell’aeroporto di Comiso, di cui si è sempre detto ma di cui non si sono mai trovate prove documentali. Ed è proprio sugli avvenimenti che si succedettero nella zona di Biscari e sull’eroica resistenza di alcuni soldati italiani – rimasti ancora fedeli al re – che gli autori si soffermano. Parliamo della strage di Vittoria in cui persero la vita il podestà di Acate e i suoi congiunti, della battaglia dell’altura Biazzo in cui un gruppo di paracadutisti americani fermò e ricacciò indietro un’intera colonna della potente divisione tedesca “Hermann Goering”, della battaglia per l’aeroporto di Biscari in cui fu consumata la tristemente nota strage di prigionieri italo-tedeschi. Il 14 luglio 1943 a Biscari, oggi Acate, infatti soldati italiani e tedeschi presi prigionieri dopo la battaglia per il controllo dell’aeroporto di Santo Pietro vennero fucilati dai militari della 45ª Divisione di Fanteria dell’esercito americano. Le vittime di questi crimini di guerra sono state per decenni dei fantasmi: ignoti i loro nomi, sconosciuto il luogo della sepoltura. Per la prima volta, grazie a un minuzioso lavoro di ricerca, i nomi di quei soldati, 70 italiani e 4 tedeschi, vengono riconsegnati alla memoria collettiva. I più giovani avevano poco più di vent’anni, il più anziano quarantotto; non c’erano tra loro ufficiali, erano quasi tutti soldati di truppa.
Nel dopoguerra fu accreditata l’immagine di un’occupazione quasi pacifica della Sicilia, una marcia trionfale dei liberatori acclamati dalla popolazione. Le cose andarono diversamente, e queste pagine raccontano, ora per ora, la battaglia di Gela: l’accanita e determinate resistenza dei reparti italiani impegnati contro le forze da sbarco statunitensi del generale Patton.
Carloni ha documentato anche la strage di carabinieri a Passo di Piazza e narrato come nel corso dello sbarco anglo-americano in Sicilia furono uccisi numerosi civili siciliani e militari italo-tedeschi caduti prigionieri. Nel centro storico di Gela, raggiunto dagli Alleati dopo aver battuto la resistenza di un battaglione costiero italiano, coadiuvato da un piccolo gruppo di finanzieri che si sacrificarono sulla spiaggia, nelle prime ore del 10 luglio fu uccisa dai Ranger una ventenne con i suoi bambini di uno e tre anni. In località Passo di Piazza, alcuni Carabinieri Reali che si erano arresi dopo una breve ma valorosa resistenza furono fucilati da elementi della 82a divisione aviotrasportata statunitense lanciati nel corso della notte, probabilmente con la complicità dei fanti connazionali della 45a appena sbarcati nell’area di Scoglitti.
In queste opere non si propone l’ennesima ricostruzione dello sbarco in Sicilia sulla base delle fonti ufficiali e consegnata a una versione tradizionale e canonica, ma una rigorosa indagine storica che porta molti elementi rilevanti alla corretta conoscenza dell’evento. Attraverso documenti inediti e fonti di prima mano, come il racconto di sopravvissuti e di testimoni diretti, emergono il coraggio dei carabinieri, dei finanzieri, dei fanti, dei bersaglieri e dei carristi italiani e il sacrificio della popolazione di Gela.
Fu proprio tra la notte del 9 e la mattina del 14 luglio 1943 che si scatenò una sanguinosa battaglia nel triangolo Ponte Dirillo-Vittoria-Santo Pietro di Caltagirone, con epicentro la cittadina di Acate, fino al 1938 Biscari. Furono sei giorni di guerra che infuocarono il territorio siciliano da Gela a Vittoria durante la cosiddetta Operazione Husky. Protagonisti sono i paracadutisti All American, i fanti americani della Big Red One e della Thunderbird, i granatieri corazzati tedeschi della “Goering”, i costieri italiani della XVIII brigata. Grazie a documenti e testimonianze dirette di sopravvissuti, sono narrate le stragi dell’aeroporto di Biscari e di Comiso, la strage di Vittoria in cui persero la vita il podestà di Acate e i suoi congiunti, la battaglia dell’altura Biazzo in cui un gruppo di paracadutisti americani ricacciò indietro un’intera colonna della divisione Goering, la battaglia per l’aeroporto di Biscari in cui si consumò la tristemente nota strage di prigionieri italo-tedeschi.
Per molto tempo la storiografia ufficiale ha rappresentato lo sbarco in Sicilia come una sorta di passeggiata degli Alleati attraverso ali di popolazione festante che accoglieva i liberatori. Al contrario Anfora e Pepi in maniera asettica, grazie a un ragguardevole e certosino lavoro sul campo, che li ha visti impegnati nella raccolta di interviste, in particolare di quei pochi testimoni che hanno vissuto in prima persona quegli avvenimenti e nella ricerca di documenti inediti trovati negli archivi dei comuni interessati dallo sbarco o negli archivi americani, gli autori descrivono in maniera inoppugnabile il comportamento, non sempre eroico e umano, delle truppe alleate. E di certo non indugiano a denunciare le azioni criminali commesse dai soldati americani su ordine del generale Patton.
Ebbene, dopo settant’anni da quei tragici avvenimenti, si è giunti finalmente a raccontare i fatti come sono andati realmente, per onorare la verità storica, con l’intento di portarla a conoscenza alle nuove generazioni a cui spesso la verità su tragedie di questo genere viene appositamente nascosta, affinché accettino pedissequamente la vulgata ufficiale che esalta le azioni, non sempre nobili, dei cosiddetti “liberatori”. - See more at: http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=21928#sthash.iYy2x0gI.dpuf
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