sabato 9 febbraio 2019

Red Land - Rosso Istria.

Ieri RAI 3 ha mandato in prima serata, ma in contemporanea con San Remo, il film Red Land - Rosso Istria. Nella scena finale si vede un partigiano di Tito pronunciare la frase: “Pallottola… foiba, pallottola… foiba, pallottola… foiba…” sono le ultime parole udite dagli sventurati che, legati due a due prima di essere inghiottiti dalla voragine attendono che si compia il loro destino. Il primo muore all’istante con un colpo di pistola alla testa e trascina con sé il secondo ancora vivo… giù nell’abisso.
La Seconda guerra mondiale, si concluse con l’occupazione della Venezia Giulia da parte delle bande slavo comuniste di Tito ed ebbe inizio la seconda fase degli infoibamenti, ben più massiccia di quella avvenuta nel ’43. Era scoppiata la pace… ma la pace eterna. Mentre l’Italia festeggiava la liberazione in Istria la gente moriva infoibata. L’esodo degli istriani, fiumani e dalmati non fu un atto di coraggio ma la spinta che viene dalla disperazione.
Dove finisce il film incomincia il mio libro “Maria Pesche e il suo giardino di vetro” edito da Mursia. I contestatori del film sono gli stessi italiani “sinistri” che accolsero noi esuli con il grido: “Sporchi fascisti non vi vogliamo, il vostro posto e nelle foibe, tornatevene a casa vostra”. Quindi il contenuto del mio libro si può condensare in poche parole: Per l’Italia eravamo jugoslavi e per la Jugoslavia eravamo italiani, in realtà non eravamo niente, gente senza casa, senza patria e senza identità.
Alla fine del libro troverete una riflessione di poche righe.
La storia non riporta ciò che è successo.
La storia è solo quello che gli storici ci dicono.
Alla fine della guerra tante Maria Peschle dovettero disperdersi nel mondo. (Erano le nostre mamme) Come la nostra protagonista, quelle donne dovettero affrontare sofferenze inimmaginabili. Dopo oltre settanta anni di silenzio, lo strappo non è stato ancora ricucito, quindi è doveroso dare voce a queste testimonianze di dolore e di riscatto per costruire una Cultura del ricordo più viva, più vera e condivisa.
Alcuni avvenimenti del Ventesimo secolo sono stati inquinati da verità stravolte, da silenzi compiacenti e da tentativi di rimozione. I fatti non cessano di esistere solo perché sono stati ignorati o ancor peggio taciuti. L’esule non possiede un luogo tutto suo dove far ricrescere le proprie radici recise. L’anima diventa il solo rifugio dove custodire i propri ideali e le proprie memorie. Per coloro che le hanno vissute, quelle esperienze dolorose rimangono per sempre impresse nell’anima e non esiste modo di cancellarle, tantomeno medicine in grado di guarirle. Più forte si fa la volontà di eliminarle, più riemergono prepotentemente.
Al loro arrivo in Italia, i profughi istriani fiumani e dalmati furono bollati tutti col marchio di reazionari e fascisti, eppure erano italiani che chiedevano ad altri fratelli italiani un po’ di comprensione e di solidarietà per le loro sventure. Buona parte dei vecchi morirono di crepacuore, sotto un cielo che non era il loro, proiettati in un mondo che non li capiva, derubati della speranza di un possibile ritorno, accolti dalla madre patria come malfattori e parassiti, ammassati come animali nei ghetti di 109 campi profughi, destinati a percorrere una valle di lacrime con il cuore a pezzi per aver dovuto abbandonare tutto: la terra, la casa la roba e allontanarsi per sempre dai loro morti, abbandonati nei cimiteri d’oltreconfine o peggio scaraventati nelle voragini carsiche chiamate foibe. Sono loro le vittime dell’indifferenza di quanti hanno fatto politica e cultura nel nostro Paese.
Il 31 marzo 2004, dopo 57 anni dall’esodo, rompendo l’inqualificabile silenzio di Stato, la ragione ha prevalso sulla giustizia e il Parlamento italiano ha approvato, quasi all’unanimità, la legge che istituiva il Giorno del Ricordo. È triste constatare che gli istriani, i fiumani e i dalmati, abbiano avuto bisogno di una legge dello Stato per commemorare pubblicamente i loro morti infoibati, per ricordare la tragedia dell’esodo ed entrare di diritto e in forma ufficiale, nella Storia italiana del XX secolo.
Piero Tarticchio

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