lunedì 9 maggio 2011

9 MAGGIO: 33 ANNI FA L’OMICIDIO DI ALDO MORO

Trentatrè anni fa, il 9 maggio 1978, la notizia dell’assassinio di Aldo Moro fermò per un attimo il cuore dell’Italia, politica e civile. Un giorno che ha segnato la nostra storia, uno di quelli in cui ciascuno ricorda dov’era, e cosa stava facendo, quando la notizia veniva scandita dagli speaker di radio e televisioni. Una data diventata poi ricorrenza simbolica, il ‘Giorno della memoria delle vittime del terrorirmo e delle stragì, istituito con una legge del 2007. Da allora il 9 maggio, ogni anno, è un giorno per ricordare, per capire, e per raccontare a chi non c’era che cosa è stato il terrorismo allora e che cosa è oggi, con i suoi duecento morti dal 1967 e le centinaia di feriti. Erano le 13,30 del 9 maggio del 1978, quando una telefonata alla questura di Roma annunciò che in una Renault rossa parcheggiata in via Caetani, a metà strada tra Piazza del Gesù, sede della Democrazia cristiana, e Via delle Botteghe Oscure, quartier generale del Pci, giaceva il cadavere di Aldo Moro.
Si concludeva così il dramma umano e politico iniziato alle 9,02 del 16 marzo dello stesso anno, quando in Via Fani era scattata l’azione di fuoco in cui rimasero uccisi i cinque uomini di scorta di Aldo Moro, sequestrato. In 55 giorni si consumò una tragedia che ha segnato profondamente la vita politica del Paese, toccando il punto più alto dell’offensiva brigatista contro le istituzioni. Quello stesso giorno era in calendario il voto sul nuovo governo Andreotti. Poche ore dopo l’agguato l’esecutivo, un monocolore Dc che si reggeva grazie all’astensione dei comunisti (il cosiddetto governo della «non sfiducia»), ottenne la fiducia. Era a suo modo una ‘vittorià di Aldo Moro: lo statista pugliese era stato infatti il politico delle grandi mediazioni, delle ‘convergenze parallelè, del compromesso storico, flemmatico e lungimirante, artefice dell’apertura ai socialisti negli anni ’60. Emarginato agli inizi degli anni ’70 da una coalizione dorotea-fanfaniana, Moro riprese a parlare con vigore di avvicinamento al Pci nel luglio ’74, davanti al consiglio Nazionale della Dc, raffigurando «sponde che pure si potrebbero avvicinare».
Quelle del sequestro Moro furono settimane frenetiche, scandite da un serrato dibattito politico (sulla possibilità di trattare con i terroristi, che chiedevano la liberazione di alcuni compagni detenuti) e segnate dalle lettere scritte dallo stesso statista ma anche da nove comunicati delle Brigate rosse nei quali si spiegano i motivi del sequestro. Ma il momento più alto fu rappresentato dall’intervento di papa Paolo VI (amico personale di Moro ), che il 22 aprile 1978, rivolse un drammatico appello pubblico col quale supplicava «in ginocchio» gli «uomini delle Brigate Rosse» di rendere Moro alla sua famiglia ed ai suoi affetti, specificando tuttavia che ciò doveva avvenire «senza condizioni». Dinanzi alla determinazione a non trattare, nonostante forti dubbi all’interno dello stesso gruppo di brigatisti, fu decisa l’esecuzione dello statista democristiano. Moro, hanno ricordato i terroristi, fu convinto di dover essere trasferito in un altro covo prima della sua liberazione.
Moro fu fatto entrare nel portabagagli di una Renault 4 rossa e coperto con un lenzuolo rosso. Mario Moretti allora sparò alcuni colpi prima con una pistola e poi (dopo che la pistola si era inceppata) con una mitraglietta Skorpion mod. 7,65 con cui sparò una raffica di 11 colpi che perforarono i polmoni del presidente democristiano, uccidendolo. Poi la vettura fu portata in via Cateani dove poche ore dopo, all’annuncio del ritrovamento del corpo di Moro, si accalcarono migliaia di cittadini, mentre milioni di persone rimanevano incollate davanti ai televisori. Fu lo stesso Paolo VI a officiare il rito funebre ufficiale per la scomparsa di Moro, con un gesto quasi senza precedenti ma sul quale Papa Montini fu irremovibile. La cerimonia, tuttavia, venne celebrata senza il corpo dello statista per esplicito volere della famiglia, che rifiutò i funerali di Stato, scegliendo di svolgere le esequie in forma privata.
Sulla vicenda Moro nei 31 anni successivi si sono succedute sei inchieste, 23 sentenze, indagini ancora aperte dopo 33 anni per le eventuali piste internazionali legate al sequestro del presidente della Democrazia cristiana. La prima sentenza viene emessa il 24 gennaio 1983 dalla Corte d’Assise di Roma, presieduta da Severino Santiapichi, con la condanna all’ergastolo di 32 brigatisti rossi. All’origine del primo processo, due istruttorie, la ‘Moro 1′ e la ‘Moro bis’. La prima è condotta dai giudici istruttori Cudillo, Gallucci, Amato, Priore e Imposimato. Questi ultimi due si occuperanno anche della seconda, scaturita dalle dichiarazioni dei pentiti. Il 13 dicembre 1979, il pg Guido Guasco riassume in 200 pagine le risultanze delle indagini.
L’istruttoria ‘Moro bis’ è contenuta in 672 pagine, dove trovano spazio anche le confessioni dei brigatisti pentiti. Il processo Moro si celebra nell’aula bunker del Foro Italico di Roma a partire dal 14 aprile 1982. Giudice a latere è Antonino Abbate, il pm Niccolò Amato. Fra i 63 imputati, diversi pentiti come Savasta, Peci, Brogi e alcuni dissociati, fra i quali Maj, Spadaccini e Andriani. Il pm Amato, il 20 dicembre 1982, chiede 34 ergastoli e 100 anni di carcere. La sentenza infligge agli imputati 30 ergastoli e 316 anni di reclusione. Anche nelle aule dei tribunali rimarranno aperti alcuni dubbi: quante persone parteciparono all’agguato di via Fani, chi erano i brigatisti che gestirono la prigionia di Moro (il nome di Germano Maccari come quarto uomo di via Montalcini verrà fuori successivamente) e chi sparò al Presidente Dc prima che il suo corpo venisse trasportato in via Caetani.
Nel dicembre 1984 comincia il processo d’Appello, un anno dopo la sentenza di primo grado. Vengono confermate 22 condanne all’ergastolo. Pene ridotte per Valerio Morucci e Adriana Faranda, che si dissociano dalle Br e cominciano a ricostruire per i giudici Priore e Imposimato l’agguato di via Fani e la fase della preparazione del sequestro. Il 15 novembre 1985 la Cassazione conferma la sentenza della Corte d’Assise d’appello. Il ‘Moro -ter’, condotto dal giudice Priore, si conclude il 12 ottobre 1988 con 153 condanne, 26 ergastoli e 20 assoluzioni, giudicando le azioni compiute dalle Br tra il 1977 e il 1982. La seconda corte d’Assise condanna all’ergastolo, tra gli altri, Barbara Balzerani, Roberta Cappelli, Stefano Petrella, Giovanni Senzani, ed i latitanti Rita Algranati e Alessio Casimirri. Il 6 marzo 1992 la terza Corte d’Assise d’appello conferma la condanna all’ergastolo per 20 imputati del processo ‘Moro -ter, condanne confermate il 10 maggio 1993 dalla prima sezione penale della Cassazione. Il primo dicembre 1994 parte il ‘Moro -quater’, istruito anch’esso da Priore, che si occupa di alcuni aspetti del sequestro e dell’omicidio non risolti negli altri processi. La prima Corte d’Assise, presidente Severino Santiapichi, condanna all’ergastolo Alvaro Lojacono, detenuto in Svizzera, riconosciuto colpevole del rapimento e dell’uccisione di Moro . La pena viene confermata anche dalla sentenza d’Appello, emessa il 3 giugno 1996 e dalla Cassazione nel ’97.
Nell’ambito del ‘Moro -quinquies’, il 16 luglio 1996, la seconda Corte d’Assise condanna all’ergastolo Germano Maccari, il quarto uomo di via Montalcini, il cui nome viene rivelato da Adriana Faranda dopo la sua dissociazione. La condanna viene ridotta a 30 anni dalla Corte d’Assise d’appello. Successivamente, la prima Corte d’Assise d’appello di Roma riduce le condanne per Maccari e Raimondo Etro, rispettivamente a 26 anni e a 20 anni e 6 mesi. Concluso con pesanti condanne il ‘Moro -quinquies’, venne aperto, sulla base di nuove emergenze processuali, un sesto procedimento, che ha come punti di riferimento la dinamica esatta dell’agguato di via Fani ed il numero dei partecipanti e le vicende che ruotano intorno all’identificazione e alla scoperta del covo di via Gradoli. Successivamente, su richiesta della famiglia Moro, la procura di Roma aprirà un fascicolo per accertare le eventuali connessioni internazionali per il sequestro del presidente Dc.
Quando Aldo Moro è stato ucciso aveva 62 anni. Era nato a Maglie, in provincia di Lecce, il 23 settembre 1916. Laureato in Giurisprudenza all’università di Bari, inizia subito dopo la carriera accademica. In quegli anni, a cavallo tra la fine dei Trenta e gli inizi dei Quaranta, matura anche il suo impegno politico nella Fuci, la Federazione degli universitari cattolici di cui è presidente dal 1939 al 1943 mentre dal 1945 al 1946 dirige il movimento laureati dell’Azione Cattolica. Nel 1946, caduto il regime fascista, è eletto all’Assemblea Costituente come rappresentante della Democrazia Cristiana, erede politica del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, di cui è uno dei fondatori; ed entra nella Commissione dei 75 ‘saggì che ha il compito di redigere la nuova Costituzione repubblicana.
Alle elezioni del 18 aprile 1948, segnate dallo scontro fra la Dc e il Fronte popolare social-comunista, Aldo Moro viene eletto alla Camera dei deputati. Ricopre diversi incarichi di governo, fra cui quelli di ministro della Giustizia e dell’Istruzione. Quindi, lavora alla costruzione del centro-sinistra dalla fine degli anni Cinquanta, per chiudere la stagione del centrismo e spostare più a sinistra, attraverso l’alleanza con il Psi di Pietro Nenni, la politica del governo per dare al Paese le riforme di cui ha bisogno. Svolta che trova pieno compimento nel 1963, con il varo del primo governo di centro-sinistra che vede Moro nel ruolo più elevato e delicato: presidente del Consiglio, alla guida di un governo formato per la prima volta anche da ministri socialisti. Un’esperienza politica che ha termine nel 1968.
Dal 1970 al 1974 Moro è ministro degli Esteri. Nel 1974 forma il suo quarto governo ma l’anno dopo, alle elezioni amministrative, il Partito comunista sfiora il ‘sorpassò sulla Dc. Per Moro, il Pci va coinvolto nella maggioranza parlamentare e di governo: nasce così, dal luglio 1976 al marzo 1978, la nuova stagione politica della solidarietà nazionale, con un governo monocolore democristiano sostenuto dall’astensione di tutti i partiti dell’arco costituzionale, che esclude soltanto i neofascisti del Msi, i radicali e la sinistra estrema dei demoproletari. Sembra il primo passo verso quel ‘compromesso storicò vagheggiato e illustrato dal leader comunista Enrico Berlinguer. Ma il 16 marzo del 1978, un commando delle Br sequestra il presidente della Dc, mentre si sta recando in Parlamento per votare la fiducia al primo governo sostenuto anche dal Pci. (Sin/Zn/Adnkronos)
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