lunedì 25 luglio 2011

Rovinati da Woodcock, il costruttore Sparaco: "Il mio impero in briciole per un pettegolezzo"

di Stefano Zurlo

Continua l'inchiesta del Giornale sulle persone rovinate dal pm. Il costruttore finito nell'inchiesta sulle tangenti Inail: "Un inquisito fece il mio nome e io mi trovai in galera. Sono stato assolto solo dopo sette anni". L'azienda fu commissariata: "Mi vietarono di partecipare agli appalti pubblici"

Quel che più lo fa soffrire è la morte dell’azienda di famiglia, la Sparaco Spartaco spa. «Vede, Wo­odocock - racconta Luigi Sparaco - avrebbe pure potuto convocar­mi a Potenza e farmi tutte le do­mande che riteneva opportune, poi se non gli avessi risposto, avrebbe fatto bene ad arrestarmi. Invece, in cinque minuti mi sono trovato in manette senza sapere nemmeno perché e la società, sballottata di qua e di là, non ha ret­to. Fatturavamo cento milioni l’anno,ora ci sono solo macerie.Il danno provocato da questa in­chiesta è irrecuperabile». Luigi Sparaco è un ingegnere di 68 anni e in pace con se stesso: «Or­mai non lavoro più, ma quando ri­pe­nso al passato mi viene un grop­po in gola. Tutto distrutto senza­al­cuna ragione e senza che nessuno mi abbia mai chiesto scusa».

Perché Henry John Woo­dcock chiese il suo arresto al gip di Potenza?
«C’era un’indagine in corso sul­­le tangenti all’Inail. Un tizio, inqui­sito a sua volta, aveva detto, forse per ingraziarsi il Pm, che io avevo regalato un appartamento al diret­tore generale dell’Inail Alberigo Ricciotti».

Un’accusa grave.
«Sì, ma quando Woodcock gli aveva chiesto di circostanziare l’episodio, lui aveva spiegato di non saperne nulla. Era una voce che aveva raccolto da qualche par­te, e se permette, tutta da verifica­re. Astratta. Vuota come una corni­ce senza quadro».

Quando fu ammanettato?
«Era il 2 luglio 2002. Bussarono alla porta, in cinque minuti finii in manette e mi ritrovai a Regina Coe­li, poi a Potenza».

Un’esperienza drammatica?
«Il carcere non mi ha turbato, anche se ci sono stato venti giorni, più due mesi agli arresti domicilia­ri. Il problema è il resto».

A che cosa si riferisce?
«Penso alle conseguenze. Il gior­no dopo il mio arresto tutti i gior­nali italiani hanno scritto articoli su articoli definendomi un corrut­tore, un imprenditore amico degli amici, uno che gonfiava i prezzi, una sanguisuga della pubblica amministrazione.Non c’eralimi­te alle calunnie, innescate da quel­­l’arresto senza fondamenta e due giorni dopo è stato ancora così e tre giorni dopo pure. Io ero in cella impotente, intanto la società an­dava a rotoli».

Non c’era solo lei sul ponte di comando della Sparaco Spar­taco.
«Eh no. Woodcock ha fatto com­missariare la società e in più ha ot­tenuto che noi non potessimo più lavorare con la pubblica ammini­strazione per un anno. In sostan­za, ci ha condannato a morte».

In concreto che cosa è accadu­to?
«Noi avevamo appena finito di costruire l’ospedale di Orbetello, un contratto da 35 milioni di euro, e l’Inail ha deciso di non pagare. O di pagare solo in parte, con gran­de calma. Contemporaneamente l’Inail ha fatto saltare il contratto che avevamo a Legnano e si è tenu­ta anche il terreno. Non c’era alcu­n­a possibilità di fermare questi ve­leni che circolavano ovunque. Il commissario faceva quel che pote­va, senza conoscere bene la no­stra situazione. A me piangeva il cuore perché la società fondata da papà qui a Roma nel 1940 aveva un curriculum di tutto rispetto: siamo stati noi a costruire gli uffici giudiziari di piazzale Clodio a Ro­ma, noi a realizzare l’ospedale ci­vile di Ancona, la Biblioteca nazio­nale di Roma, il porto turistico di Marina di Grosseto.

E potrei prose­guire. Tutto spazzato via».

Lei si sarà difeso.
«Ci ho provato. Ma la strada era in salita. Consideri che appena ar­rivato a Regina Coeli ho trovato proprio Ricciotti che mi ha urlato: “Ma lei è pazzo, perché inventa queste menzogne?”».

Aveva ragione?
«Ma no, gliel’ho già detto: era stato un mio subappaltatore a rife­ri­re la voce secondo cui io avrei re­galato la casa a Ricciotti».

Woodcock?
«Pure lui mi ha chiesto: “Ma do­v’è questo appartamento?“»

E lei?
«Gli ho risposto nell’unico mo­do possibile: “Guardi che un ap­partamento non è un pacchetto che si mette in tasca e si porta a ca­sa. Io non ho regalato niente a nes­suno. E questo Ricciotti non lo co­nosco, non l’ho mai visto, non so chi sia”».

L’ha convinto?
«Ma no. Il pm è rimasto della sua idea. Poi però Woodcock ha spedito le carte a Roma perché si è scoperto che la competenza non era sua».

E a Roma?
«Si è celebrato un processo. Len­to. Lentissimo, ma utile. Una peri­zia dopo l’altra si è stabilito che io non gonfiavo proprio niente. Al­tro che ricarichi del 20 o del 30 per cento. I margini erano strettissi­mi, risicatissimi».

E l’appartamento?
«Non c’era, gliel’ho già detto. Non c’era un bonifico, non c’era una telefonata fra me e questo Ric­ciotti. Non c’era niente. Non vo­g­lio dire che l’inchiesta sia stata so­lo un polverone, no quello no. Al­cuni funzionari dell’Inail hanno patteggiato, come anche un mio supappaltatore, e hanno restitui­to dei soldi, ma io non c’entravo per niente».

Alla fine lei è stato assolto.
«Dopo sette anni. Quando or­mai era troppo tardi. Il sipario è sceso sulla Sparaco Spartaco sot­to forma di concordato preventi­vo. Centinaia, dico centinaia di di­pendenti e di fornitori hanno per­so il lavoro. Una tragedia e una sto­ria imprenditoriale di successo bruciata sull’altare della frenesia investigativa. Sarebbe stato suffi­ciente un pizzico di prudenza in più. La procura generale non ha fatto ricorso e la sentenza è diven­tata definitiva, ma ormai l’impre­sa non c’era più. Di fatto è stato un verdetto postumo, anche se ero e sono ancora vivo».

Quanto le hanno dato come ri­sarcimento?
«Lo Stato ha fatto i suoi calcoli e poi mi ha dato un assegno di 11.557 euro per l’ingiusta deten­zione subita».

E per il resto?
«Per il restoniente. Un’impresa con sessanta anni di storia è stata rasa al suolo. Ma questo non inte­ressa a nessuno».

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