
I morti tra i militari in combattimento in Afghanistan nel corso del
2013 sono stati 119, molto meno dei soldati in servizio attivo che si
sono ammazzati: 301 in tutto tra membri dell’esercito (150), della
Guardia nazionale (98) e dei Riservisti (53). Per anni gli uomini e le
donne in divisa sono stati sottoposti alla tensione sfibrante contro i
nemici veri, contro le bombe sotto il manto stradale, nei pattugliamenti
per le strade di Bagdad o di Falluja o della provincia afghana di
Kandahar. Poi, a casa, hanno dovuto affrontare il vuoto scavato dai loro
atti di coraggio e dagli attacchi della paura per l’esperienza
traumatica mai superata.
Le cifre del Pentagono parlano di circa 8000 suicidi all’anno nell’ultimo decennio, per una media quotidiana fluttuante tra i 20 e i 22 morti, confermati con agghiacciante regolarità dalla statistica del primo trimestre 2014, «fotografata» dalla esposizione delle bandiere al National Mall.
Il ministero dei veterani ha analizzato recentemente anche i dati dei suicidi sulla base dell’età delle vittime: il 69% è di persone con altre 50 anni di età, il 31% di ex militari ancora giovani, sotto i 50 anni. E il numero di chi si toglie la vita tra i soldati è maggiore nell’esercito rispetto ai marines: dal 2001 al 2012 i suicidi tra i fanti sono balzati da circa 50 a 200 all’anno, mentre tra i marines si sono mantenuti sotto le 50 unità.
Da tempo il ministero dei Veterani ha cercato di correre ai ripari, affrontando la crisi dei suicidi con iniziative concrete, come le linee verdi e un sito web che è aperto al dialogo per i reduci in preda allo sconforto. Gli sforzi si spingono a promuovere presso le famiglie dei veterani trasmissioni di informazioni sanitarie e per combattere la depressione. Il primo avversario da battere in questa battaglia è il senso di vergogna che gli ex soldati provano nel dover ammettere di avere bisogno di assistenza psicologica: «eroi» sul campo, non sono portati a riconoscere la fragilità della propria personalità. Eppure, come per i «depressi» civili, anche quelli in divisa possono salvarsi di solito solo se fanno il difficile passo di chiedere l’aiuto professionale degli psicologi e degli psichiatri specializzati nel loro «disordine».
Da quando il comandante in capo è Barack il fenomeno è riconosciuto nella sua gravità «clinica», come una malattia sociale da curare. Prima, con Bush, quando i militari erano più numerosi perché non erano oggetto delle riduzioni di investimenti bellici in uomini e armamenti che caratterizzano l’amministrazione democratica, i morti tra i reduci erano dipinti dai media come «aggressori», vittime della mentalita’ guerrafondaia del loro comandante texano. Il «suicidio» era l’autopunizione per una vita sbagliata, al servizio di un’America colpevole. Con Obama il numero totale dei morti tra i soldati in Afghanistan ha superato da tempo le 2000 unità (erano stati attorno a 550 sotto Bush) e il «male invisibile» che affligge i veterani suicidi si espande, anziché ridursi. Ma adesso la «questione» non è più «nel manico», come con George W. E per curarla c’è un governo «responsabile», che usa medici, consultori e pillole.
di Glauco Maggi
fonte
Le cifre del Pentagono parlano di circa 8000 suicidi all’anno nell’ultimo decennio, per una media quotidiana fluttuante tra i 20 e i 22 morti, confermati con agghiacciante regolarità dalla statistica del primo trimestre 2014, «fotografata» dalla esposizione delle bandiere al National Mall.
Il ministero dei veterani ha analizzato recentemente anche i dati dei suicidi sulla base dell’età delle vittime: il 69% è di persone con altre 50 anni di età, il 31% di ex militari ancora giovani, sotto i 50 anni. E il numero di chi si toglie la vita tra i soldati è maggiore nell’esercito rispetto ai marines: dal 2001 al 2012 i suicidi tra i fanti sono balzati da circa 50 a 200 all’anno, mentre tra i marines si sono mantenuti sotto le 50 unità.
Da tempo il ministero dei Veterani ha cercato di correre ai ripari, affrontando la crisi dei suicidi con iniziative concrete, come le linee verdi e un sito web che è aperto al dialogo per i reduci in preda allo sconforto. Gli sforzi si spingono a promuovere presso le famiglie dei veterani trasmissioni di informazioni sanitarie e per combattere la depressione. Il primo avversario da battere in questa battaglia è il senso di vergogna che gli ex soldati provano nel dover ammettere di avere bisogno di assistenza psicologica: «eroi» sul campo, non sono portati a riconoscere la fragilità della propria personalità. Eppure, come per i «depressi» civili, anche quelli in divisa possono salvarsi di solito solo se fanno il difficile passo di chiedere l’aiuto professionale degli psicologi e degli psichiatri specializzati nel loro «disordine».
Da quando il comandante in capo è Barack il fenomeno è riconosciuto nella sua gravità «clinica», come una malattia sociale da curare. Prima, con Bush, quando i militari erano più numerosi perché non erano oggetto delle riduzioni di investimenti bellici in uomini e armamenti che caratterizzano l’amministrazione democratica, i morti tra i reduci erano dipinti dai media come «aggressori», vittime della mentalita’ guerrafondaia del loro comandante texano. Il «suicidio» era l’autopunizione per una vita sbagliata, al servizio di un’America colpevole. Con Obama il numero totale dei morti tra i soldati in Afghanistan ha superato da tempo le 2000 unità (erano stati attorno a 550 sotto Bush) e il «male invisibile» che affligge i veterani suicidi si espande, anziché ridursi. Ma adesso la «questione» non è più «nel manico», come con George W. E per curarla c’è un governo «responsabile», che usa medici, consultori e pillole.
di Glauco Maggi
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