Sportello unico immigratiMolte volte e da vari punti di vista Qelsi ha affrontato il problema delle barriere e delle viscosità normative, giuridiche e burocratiche che scoraggiono l’avvio di nuove iniziative imprenditoriali di italiani e stranieri nel sistema produttivo italiano, o la fuga di molti che delocalizzano altrove la propria impresa. Tra i casi più clamorosi si sono segnalati quello del pastificio Rana SpA per il quale l’ampliamento degli impianti per raddoppiare la produzione sono costati 5mila firme e 7 anni per ottenere tutte le autorizzazioni. O il caso della British Gas Italia che ha rinunciato alla realizzazione di un impianto a Brindisi, un miliardo di investimenti e 1200 posti di lavoro, dopo 11 anni di battaglie legali perchè permessi ed autorizzazioni concessi da un ente venivano poi revocati od inficiati da altri e viceversa, 11 anni persi nell’esplorazione di ministeri a Roma e dei meandri della burocrazia locale e regionale in Puglia e dopo aver speso 250 milioni di euro per l’acquisizione del sito e la progettazione dell’impianto. Già il governo Monti aveva tentato di approvare delle semplificazioni burocratiche che incoraggiassero gli investitori, ai quali il premier si rivolse direttamente con viaggi a Mosca, in Medio Oriente e negli Stati Uniti. Una perorazione quella di Monti che non sortì effetto alcuno perchè assolutamente non credibile, visto che in pratica, al di là delle chiacchiere, nulla di concreto il governo aveva fatto per far seguire fatti alle buone intenzioni espresse.
Il Comitato sugli “imprenditori esteri” di Confindustria ha calcolato che gli investimenti stranieri in Italia hanno subito di recente un crollo di oltre il 50 %. Il calo non rappresenta soltanto una contingenza, legata ad una annata particolarmente difficile per l’economia nazionale. In base ai dati Ocse, il Belpaese è al penultimo posto in Europa, davanti solo alla Grecia, nella classifica dei paesi che hanno incamerato i maggiori investimenti esteri tra il 2010 e il 2011, e l’anno scorso la situazione è ulteriormente peggiorata. Nella hit parade stilata in base al rapporto medio fra investimenti esteri in entrata e Pil, l’Italia con il suo 1,2% è distante diversi punti percentuali dal Regno Unito (4%), ma persino dalla Spagna (3,2%). Per non parlare del 13,6% dell’Irlanda, il 9,9% dell’Estonia, il 6,9% della Slovacchia. Il perchè di questa demoralizzante situazione è presto detto. Il prof Carlo Scarpa, docente di economia e politica industriale all’università di Brescia, in una intervista rilasciata qualche tempo fa ha rilevato: “Da noi c’è una sostanziale inaffidabilità delle procedure amministrative e ci vuole un sacco di tempo per mettere in piedi un nuovo impianto. Bisogna arrivare ad una riforma della pubblica amministrazione che convinca gli investitori che siamo un Paese normale”. Le classifiche a detrimento degli investimenti sono tante e tutte con negative posizioni periferiche per l’Italia: su 183 Paesi censiti dal rapporto “Doing Business 2012″, risultiamo 128esimi nel ranking sulla semplicità dei pagamenti, 49esimi nel numero di versamenti, 123esimi nella durata delle procedure. E lo stock totale di investimenti stranieri vale per noi solo 337 miliardi di dollari, contro i 614 della Spagna, i 674 della Germania, i mille miliardi e passa della Francia e i quasi 1.100 del Regno Unito.
Un capitolo a parte riguarda poi il nostro sistema giudiziario inficiato da una insopportabile, quanto cronica lentezza. Sempre secondo il rapporto Doing Business (Fare Affari) siamo al 158° posto tra le 183 economie prese in esame per quanto riguarda il tempo necessario alla giustizia civile per risolvere una controversia commerciale tra due imprese: in Italia, per concludere un processo e ottenere una sentenza definitiva, sono necessari 1.210 giorni in media, con punte sino al doppio o più, a fronte dei 331 impiegati in Francia ed i 394 in Germania, mentre in linea generale, la durata media dei procedimenti in primo e secondo grado supera di due o tre volte quella degli altri Paesi dell’Unione Europea, Grecia compresa. Senza dire della “tassa” che grava sugli investimenti dovuta alla corruzione che il nostro sistema penale non riesce a controbattere efficacemente, un obolo che Ocse e la ex-ministro della Giustizia Severino concordano nel ritenere nell’ordine del 20 % del valore degli investimenti. Per porre rimedio a questa situazione scoraggiante, un primo passo è stato fatto con la nuova legge anticorruzione, anche se da molte parti si parla già di una sua rivisitazione per migliorarla e completarla. Per quanto riguarda la giustizia, c’era l’idea di imprimere una decisa accelerazione adottando per i contenzosi commerciali le stesse procedure dei tribunali del lavoro, gli unici che in Italia non lavorano con tempi biblici o da ere geologiche. Rimane il nodo delle lungaggini burocratiche, della infinita pletora di enti competenti da interpellare per il rilascio delle autorizzazioni su 4 livelli: nazionale, regionale, provinciale, comunale, ai quali vanno aggiunti tutti gli altri, dalle Asl alle Belle Arti, con i vincoli di associazioni ambientaliste, o i “ricorsi contro” qualsiasi cosa che possono essere avviati ad ogni momento da qualsiasi pm, qualsiasi procura, qualsiasi pretore. Una giungla inestricabile che atterrisce i potenziali investitori nazionali, ma soprattutto esteri. L’idea che si sostiene da sempre è quella di creare uno Sportello Unico al quale ci si possa rivolgere presentando un progetto od una richiesta per l’avvio di una attività che viene ricevuta, valuta, processata e deliberata da strutture regionali e/o comunali ad hoc, che potrebbero fornire lavoro a migliaia di giovani laureati e non, che si possano avvalere di una rete informatizzata per interfacciarsi con tutti i possibili enti coinvolti nella procedura di approvazione in un tempo ragionevole misurabile in qualche settimana, se non in giorni come negli Stati Uniti. Sarebbe una mano santa per il nostro boccheggiante sistema produttivo, il viatico verso la ripresa degli investimenti che se da sola non basta a rilanciare produzione, consumi ed occupazione, pure è una ineludibile condizione pregiudiziale per rimettere in moto il volano dell’economia. Ma sinora, come accennato, tante buone intenzioni, ma nessun atto concreto in questa direzione.
Però, abbiamo appena scoperto, che in un altro settore diverso da quello dell’economia, quello della immigrazione, che soffre di “patologie burocratiche” analoghe a quelle dell’imprenditoria, invece lo Sportello Unico sta per diventare una realtà.
In una riunione svoltasi il 30 maggio al Viminale, alla presenza di rappresentanti dei ministeri dell’Interno, del Lavoro, dell’Inps, dell’Inail e delle prefetture che devono gestire picchi di domande di emersione di clandestini, come Milano, Roma, Napoli e Brescia, si è discusso il tema ed è stata annunciata a breve una circolare congiunta dei ministeri dell’Interno e del Lavoro che dovrebbe dare indicazioni per snellire la procedura fino alla firma del contratto di lavoro ed al rilascio del permesso di soggiorno. I “chiarimenti” in arrivo riguardano la regolarizzazione degli extracomunitari giunti clandestinamente in Italia e mirano a velocizzare al massimo l’esame delle domande con un allargamento deliberato e concertato delle maglie di un setaccio che finora, si ritiene, sia stato sin troppo stretto. E per fortuna!
Uno dei problemi da risolvere è quello della “black list” nella quale sono finiti i datori di lavoro che in passato avevano già presentato domande per i flussi o regolarizzazioni, ma poi non avevano portato a termine l’assunzione. Attualmente, quando le Direzioni Territoriali del Lavoro scoprono che chi chiede la regolarizzazione ha uno di questi precedenti bocciano automaticamente la domanda. Magari adesso con lo snellimento delle procedure quelle domande le approveranno tutte, senza neanche sapere se l’extracomunitario poi il posto di lavoro ce l’ha veramente od oppure nel frattempo s’è messo a spacciare od a rapinare, col risultato che di fatto gli verrà conferito il “permesso di soggiorno per delinquere”.
Ora non sappiamo come queste procedure veloci saranno congegnate, ma ci preoccupa che nell’incontro del Viminale si sia sottolineato che “in alcune province è una strage (poverini, ndr), però bisogna tener presente che se c’è una giustificazione per cause di forza maggiore i datori hanno comunque il diritto di portare a termine le regolarizzazioni (certo, tutte le volte in cui il nero che non paga il mutuo si “accontenta” e costa un quarto del bianco che il mutuo lo paga e non può “accontentarsi”, ndr). Quindi quelle bocciature non possono essere automatiche. Poi ci sono altri casi in cui si potrebbe essere più elastici, ad esempio considerando il reddito di tutta la famiglia quando si valuta la capacità economica di chi ha presentato la domanda”. Questa è bella. Per avere assegni e pensioni sociali vale il reddito del singolo, anche se appartiene ad una famiglia di miliardari, come sancito da varie sentenze di tribunale, a Milano ad esempio, ma per rimanere in Italia a non fare nulla vale il reddito dell’intero nucleo familiare che può dimostrare di poter mantenere a proprio carico un extracomunitario fannullone. Ma se lo tengono a carico e lo possono mantenere loro perchè poi lo dobbiamo mantenere anche noi? Mistero. Ma lo scoglio vero rimane quello della prova di presenza in Italia dal 2011. Gli extracomunitari arrivano clandestinamente, si celano nell’ombra, non si palesano, non si fanno identificare, però pretendono che adesso si riconosca a chiacchiere, con una autocertificazione che siano arrivati almeno dal 2011 per fruire della sanatoria. È lì infatti che si infrangono la maggior parte delle domande che vengono bocciate. Il parere dell’Avvocatura di Stato sulla documentazione rilasciata da un “organismo pubblico” non ha dissipato tutti i dubbi e lo spazio interpretativo lasciato alle prefetture è molto vasto. Il risultato? Per regolarizzarsi bisogna aver presentato la domanda nella provincia giusta. Questione di fortuna, insomma. Ma neanche tanto visto che ormai la destra ha regalato tutte le amministrazioni locali al PD che è il paladino dichiarato degli interessi di questa marea di straccioni, per cui vedrete che occhi che dovrebbero essere indagatori guarderanno altrove o verranno tenuti ben chiusi per far passare tutti, altro che setaccio. Anche su questo fronte sarebbero in arrivo delle novità. Mercoledì scorso la prefettura di Brescia ha ricevuto i delegati dell’associazione “Diritti per tutti”, del Coordinamento Immigrati della CGIL e della comunità senegalese e ha promesso una riorganizzazione dello Sportello Unico per l’Immigrazione per velocizzare l’esame delle pratiche. In quell’occasione si è parlato, ovvio, anche dell’incontro del 30 maggio al Viminale. Ed è una nota ufficiale della prefettura ad annunciare “iniziative che verranno a breve promosse a livello centrale. Sia di carattere procedurale, sia di proposte di modifica alla normativa che regola la materia, segnatamente con riguardo alla definizione di organismo pubblico e alla correlata determinazione della prova della presenza in Italia alla data prevista dalla legge”. Che Dio ci protegga.
Allora, ricapitolando. Lo Sportello Unico per attrarre capitali ed investimenti in Italia, nonchè per incoraggiare gli imprenditori italiani ad investire, anzichè spingerli al suicidio, con una iniziativa che risulterebbe decisiva per il rilancio del lavoro giovanile, la ripresa del sistema produttivo e dei consumi delle famiglie, per la lotta alla disocuppazione, quello no, non c’è tempo o modo per farlo. Lo Sportello Unico per togliere di mezzo i pochi ostacoli che ancora si frappongono ad una totale esondazione dell’immigrazione illegale ed incontrollata verso l’Italia, che diventa legale solo in quanto non c’è più alcuna legge a regolarla, di gente che ci toglie lavoro, aggrava i nostri problemi sociali, porta con sè solo disperazione, malattie infettive, criminalità e squallore morale, quello sì, si fa. Questo, peraltro, nel momento in cui in Lussemburgo è stato appena firmato dal commissario Ue agli affari interni, Cecilia Malmstrom e dal ministro degli esteri marocchino Saad dine El Otmani, con i ministri responsabili del dossier immigrazione di nove Stati membri, cioè Italia, Belgio, Francia, Germania, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia e Regno Unito, l’accordo in base al quale sul fronte dell’immigrazione irregolare, Ue e Marocco lavoreranno insieme per combattere il traffico di immigrati e la tratta di esseri umani, ma anche per dare assistenza alle vittime di questi reati. L’obbiettivo e’ quello di assicurare che il Marocco possa creare un sistema nazionale di asilo e di protezione internazionale per ricondurre sotto pieno controllo, concordare e regolarizzare il flusso dei migranti. La
partnership prevede inoltre l’avvio dei negoziati fra Ue e Marocco per la facilitazione dei visti temporanei per studenti, ricercatori e imprenditori, mentre continueranno quelli per un accordo di riammissione, che prevede il rientro degli immigrati irregolari. Insomma, un nuovo approccio in materia di immigrazione che riconduce il fenomeno in un alveo di ordinato controllo e di sostanziale legalità, salvaguardando diritti, dignità ed interessi di tutti, che però vede al suo interno un’Italia schizofrenica: legalista in Europa, dissoluta e superpermissiva a casa sua. Ma se sbraghiamo le nostre frontiere e le nostre normative allargando l’ingresso a tutti, perchè poi aderiamo agli accordi tipo Lussemburgo? E che ne penseranno poi a Bruxelles di questo nostro atteggiamento dopo che ci siamo sputtanati mandando i nostri clandestini nel Nord Europa dietro un compenso di 500 euro ed il rilascio (illegale) di un visto Schengen? Di una cosa siamo certi, che a queste domande nessuno ci risponderà.